Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 79 (Nuova Serie), febbraio 2025

A cura della Commissione per la biblioteca e per l'archivio storico

Anteprima dell'introduzione del Presidente Pera al volume su Giovanni Gentile

In vista della pubblicazione del volume Giovanni Gentile una filosofia per il fascismo, siamo felici di ospitare oggi la prima parte dell'Introduzione che il presidente Pera ha voluto metterci a disposizione. Lo ringraziamo vivamente e proponiamo in anteprima questo suo contributo, senza alterare lo stile redazionale scelto per l'edizione a stampa.

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Marcello Pera al convegno su Gentile

La frase più concisa e penetrante sui rapporti fra Giovanni Gentile e il fascismo la scrisse lo storico americano A. James Gregor nel suo Giovanni Gentile: Philosopher of Fascism (Transaction Publisher, New Jersey 2001; Routledge, New York 2017): "molto tempo prima che ci fosse il fascismo, Gentile ne fu il filosofo". Il movimento, e poi il regime, egli "lo nutrì del suo pensiero e lo servì come la sua coscienza".

Questo giudizio, che viene dopo parecchia storiografia italiana in particolare quella di Augusto del Noce, è corretto. Perché Gentile arriva al Fascismo da due strade - una filosofico-speculativa e una storico-politica -, entrambe percorse congiuntamente prima della sua nomina a ministro dell'istruzione nel primo governo Mussolini nel 1922 e dell'adesione formale al partito nazionale fascista nel 1923. Quando si presenta all'appuntamento, Gentile è un filosofo all'apogeo del suo pensiero che ha già scritto pressoché tutte le sue opere principali; ed ha una coscienza politica ben formata circa l'evoluzione della storia d'Italia e la decadenza delle aspettative del Risorgimento. Punto di partenza della prima strada è l'idealismo hegeliano da lui corretto; della seconda è il liberalismo da lui (e non solo da lui) inteso.

Di liberalismi ce ne sono almeno due: quello seicentesco e quello ottocentesco. È tuttora materia di controversia filosofica e storiografica se il secondo sia spurio rispetto al primo o il primo sia incompleto rispetto al secondo. In Italia, la disputa fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce ci presenta ancora i termini principali della questione. Certo è che la differenza fra le due varianti (o le due dottrine) ci è più chiara adesso che il liberalismo in qualche forma è prevalso negli ordinamenti, ha plasmato culture e società, ma, sposatosi con la democrazia, è infine approdato ad una sorta di anarchismo etico che distrugge il suo stesso presupposto. La discussione verte se questo stato di cose si debba al liberalismo prima maniera e se il liberalismo seconda maniera (inteso anche, e talvolta chiamato, conservatorismo liberale) ne sia un antidoto.

Il primo liberalismo è individualistico. La sua veduta, la sua Weltanschauung, contempla due soggetti in lotta fra loro: da un lato l'individuo, che reclama la libertà dei governati, dall'altro lo Stato che reclama il dominio delle idee dei governanti. Non per niente questo liberalismo nasce e si afferma nell'epoca degli Stati assolutisti e delle rivoluzioni contro di essi. Per porre un freno alla lotta individuo-Stato, questo liberalismo propone uno scambio, un compromesso, un "contratto", come fu chiamato: la teoria dei diritti individuali (una metamorfosi della vecchia teoria del diritto naturale), che, per la loro natura di proprietà originarie e pre-politiche, riconosce il dominio dello Stato nella sfera pubblica ma lo espunge dalla sfera privata. Il contratto originario non nega la lotta fra gli individui (circa i loro ideali, le loro competenze, abilità, credenze, aspettative, idee di vita), anzi ne fa il perno del progresso sociale e dell'intera umanità, ma nega allo Stato il ruolo di giudice della lotta. Il potere politico può essere solo guardiano del corretto svolgimento della competizione. Non inventa il diritto, riducendolo nella sostanza alle consuetudini e tradizioni consolidate, ma si tiene il monopolio delle leggi, purché generali e astratte, cioè non in forma di benefici per alcuna categoria. Soprattutto, la legge nello Stato liberale ben inteso non entra nelle questioni morali o religiose, per le quali vale la più assoluta neutralità, nella convinzione che le concezioni del bene e i rapporti con Dio siano questioni private e lo Stato non può averne né imporne di proprie, salvo il limite della sicurezza e dell'ordine pubblico, senza il quale lo Stato neppure esisterebbe o si manterrebbe. La celebre frase di Kant in Über den Gemeinspruch (1793): "nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo", e quella assai più radicale di J. S. Mill nel suo On Liberty (1859): "su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano" possono essere considerate emblematiche del liberalismo individualistico sospettoso dei poteri dello Stato.

Il secondo liberalismo (se gli si concede l'uso del nome) è invece etico. La sua matrice è ancora quella della libertà degli individui e la sua Weltanschauung contempla ancora due soggetti, l'individuo e lo Stato. Ma la loro relazione è diversa, perché la libertà e di conseguenza lo Stato sono intesi diversamente, quasi all'opposto che nel primo liberalismo. Scompare l'opposizione. L'individuo non è più semplicemente un io, un essere in sé, che ha caratteristiche originarie sue proprie da rivendicare contro lo Stato, bensì un soggetto fatto carne dalla storia grazie allo Stato. Perché lo Stato non è un soggetto esterno, a sé stante, come un contenitore di soggetti, bensì è il compimento dell'individuo, il quale in tanto è individuo con la sua identità spirituale e morale, in quanto è membro dello Stato che è quella stessa identità dispiegata e compiuta. Come dirà Gentile nei Fondamenti della filosofia del diritto (1916), lo Stato non è "inter homines", ma "in interiore homine". Se togliete all'individuo lo Stato, gli resterà solo la natura di corpo materiale, nervi, muscoli, forza, materia. Se invece lo ponete nello Stato, diventerà un uomo compiuto. Per questo, lo Stato non può essere considerato come un oppressore o un antagonista o un ostacolo, perché in quanto sostanza morale, è spirito, creatività, libertà. Per questo lo Stato entra nella vita degli uomini, tutta la vita loro, perché ad essa dà la dimensione della moralità, che è la sua e di tutti e ciascuno. E, infine, per questo, il liberalismo anziché una teoria dei limiti dello Stato è da intendersi come una vera e propria teoria della natura e della necessità dello Stato. Un liberalismo senza Stato sarebbe un liberalismo senza libertà. In questa prospettiva, l'errore del primo liberalismo è di considerare l'individuo come un ente disincarnato cui ineriscono proprietà. Invece l'individuo è il soggetto incarnato della sua storia, cultura, tradizione, forme di vita, che gli danno identità. Se il vecchio liberalismo è meccanicistico, e guarda all'uomo come ad un ente in un campo newtoniano, il nuovo è organicistico e guarda all'uomo come un cittadino in una polis aristotelica. Il vecchio mette in primo piano i sacri diritti dell'uomo contro lo Stato, il nuovo esalta i doveri dell'uomo verso lo Stato. Il liberalismo etico richiede lo Stato assoluto dello spirito assoluto, non questa o quella configurazione o assetto politico o economico. Qui emblematica è l'affermazione di Hegel, palesemente antikantiana, che lo spirito assoluto "non può attingere la sua forma assoluta rifugiandosi nel cosmopolitismo senza forma, ancor meno nel vuoto dei diritti dell'uomo, e ancor meno nella lega delle nazioni o in una repubblica mondiale".

Come in questo volume [il volume in via di pubblicazione Giovanni Gentile una filosofia per il fascismo, ndr] mostra bene l'intervento di Francesco Perfetti, il punto di partenza di Gentile è questa concezione etica del liberalismo. Gentile la elabora concettualmente e storicamente, riguardo all'Italia, la attribuisce alla tradizione risorgimentale.

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