A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Percorsi di storia economica
Per una geografia storico-economica. La Gran Bretagna (Parte terza: dal 1979 a oggi)
Abstract
La deteriorata situazione economica della Gran Bretagna creò le condizioni per l'avvento al governo di Margaret Thatcher (1979), che affrontò la crisi con una politica liberal-conservatrice, volta a valorizzare l'ancor vitale settore dei servizi, in particolare finanziari (cessando di sostenere i settori in difficoltà, quale quello dell'industria pesante), a favorire la ricostituzione dei profitti delle imprese, già erosi dalla tassazione e dalla crescita dei salari, e a ridurre la presenza diretta dello Stato nell'economia, manifestatasi con la precedente nazionalizzazione di molte aziende. Al nuovo indirizzo si sono attenuti anche i successivi capi di governo britannici. Diverse le valutazioni degli studiosi su tale orientamento economico: alcuni vi fanno risalire il ritrovato dinamismo mostrato dall'economia nazionale fra la metà degli anni ottanta e il 2008, altri gli attribuiscono la corresponsabilità nella generazione della crisi finanziaria attualmente in corso.
1. La svolta degli anni ottanta
2. Il bilancio delle riforme thatcheriane
5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1. La svolta degli anni ottanta
Mentre negli anni sessanta e settanta, a parere di autori quali Bacon ed Eltis (1976) e Magazzino (2010), l'alternanza al governo di laburisti e conservatori non aveva determinato significativi cambiamenti nell'ambito della politica economica (la quale s'era così mantenuta fedele all'indirizzo fortemente interventista descritto nel precedente articolo), la vittoria elettorale del 1979 del Partito Conservatore guidato da Margaret Thatcher segnò sotto tale profilo una svolta epocale. La politica del nuovo primo ministro si fondò, secondo Magazzino, sui seguenti principi fondamentali: contrasto dell'inflazione; ristrutturazione dell'industria; riduzione del potere dei sindacati; tagli alle imposte e alla spesa pubblica; liberalizzazioni e privatizzazioni.
La deflazione dell'economia fu ottenuta riportando per alcuni anni a livelli elevati il tasso d'interesse bancario, in modo da rallentare la creazione di nuova moneta per via creditizia. Questa politica deflazionista costituì anche un fondamentale strumento di politica industriale, in quanto il maggior costo del credito pose sotto pressione le imprese, costringendole a riorganizzarsi per accrescere la propria efficienza. Per spingere le imprese in questa direzione il governo cessò inoltre di aiutare finanziariamente le industrie in crisi. Questa politica ebbe ovviamente un costo elevato, in quanto determinò l'espulsione dal mercato delle aziende più deboli, cui non fece fronte un immediato recupero di competitività di quelle che resistevano: nel solo 1980 si ebbe così un calo del 15 per cento della produzione manifatturiera. Tuttavia anche questa crisi risultò funzionale alla ristrutturazione che si voleva ingenerare, in quanto l'aumento della disoccupazione (nel solo 1980 si persero tanti posti di lavoro quanti nell'intero periodo 1966-79) diminuì il potere di negoziazione dei sindacati, impedendo loro di opporsi a quegli aspetti delle riorganizzazioni aziendali che si traducevano in peggioramenti della condizione dei lavoratori (ad esempio, in un'accelerazione dei ritmi di lavoro).
Oltre che attraverso la creazione di nuova disoccupazione, la riduzione del potere dei sindacati fu perseguita mediante provvedimenti legislativi che ridimensionarono il loro potere di contrattazione, resero più flessibile il mercato del lavoro e regolamentarono in modo più severo il diritto di sciopero. Queste riforme portarono a una forte diminuzione delle giornate lavorative perse per scioperi e a un rallentamento della dinamica salariale tale da rendere il ritmo d'incremento delle retribuzioni stabilmente inferiore a quello dei prezzi. Ciò ovviamente favorì la crescita della produttività e della redditività delle imprese.
La spesa pubblica venne contenuta innanzitutto ponendo fine all'erogazione di soccorsi alle imprese in difficoltà, ma anche riducendo gli stanziamenti di cui beneficiavano gli apparati statali (colpendo voci quali l'istruzione, la ricerca scientifica e il sistema pensionistico). La riduzione del deficit così ottenuta fu tale da consentire, senza compromettere la tenuta dei conti pubblici, la realizzazione d'un programma di tagli alle imposte, di cui beneficiarono principalmente i redditi più elevati.
Infine, per stimolare le attività economiche furono aboliti molti controlli pubblici, deregolamentandole e semplificando gli adempimenti burocratici connessi alla loro conduzione. Le imprese controllate dallo stato furono poste sul mercato, sulla base del presupposto che la gestione privata fosse di per sé più efficiente di quella pubblica.
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2. Il bilancio delle riforme thatcheriane
Della politica posta in essere dalla Thatcher sono state offerte valutazioni assai differenziate. Una di segno decisamente positivo è quella data da Magazzino, per il quale essa consentì all'economia, una volta superata la crisi indotta dalle misure deflazionistiche, di svilupparsi a un ritmo assai intenso. Nel periodo 1983-87 il tasso di crescita dell'economia britannica fu infatti più che doppio rispetto a quello medio della CEE. L'industria a partire dal 1983 andò riprendendosi; e comunque il declino subito da molte imprese fu compensato dallo sviluppo del terziario, indotto in particolare dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, che rafforzò il ruolo della City. Anche la disoccupazione, dopo essere aumentata nei primi anni ottanta, andò diminuendo; e se alla fine del decennio risultava ancora più elevata che nel 1979, essa comunque era divenuta inferiore a quella degli altri grandi paesi europei. Secondo tale autore, la validità della politica economica di Margaret Thatcher appare confermata anche dal fatto che essa non è stata posta in discussione dai suoi successori (neppure quando, nel 1997, al governo del paese sono tornati i laburisti); come pure dal fatto che sino all'esplodere della crisi finanziaria del 2008 l'economia britannica ha continuato a far segnare risultati brillanti (con la sola eccezione dei primi anni novanta, peraltro caratterizzati a livello mondiale da una congiuntura negativa).
Altri studiosi di economia hanno invece offerto una lettura fortemente critica della politica thatcheriana. Un suo aspetto controverso è stato senz'altro rappresentato dalla deindustrializzazione che ha ingenerato (ad esempio, Harvey (2007) rileva la scomparsa di buona parte dell'industria siderurgica e della cantieristica navale). In merito, Chang (2012) sostiene che negli anni ottanta da tale deindustrializzazione non derivarono conseguenze negative per l'economia solo perché questa fu sostenuta dal crescente sfruttamento dei bacini petroliferi del Mare del Nord. Vero è che tale autore scrive pure che nel decennio successivo, verificandosi un calo delle esportazioni petrolifere, tale funzione compensativa fu invece svolta in via prioritaria dall'espansione di alcune attività terziarie, fra le quali spiccava quella finanziaria (che proprio alle liberalizzazioni degli anni ottanta doveva il proprio buon andamento); ma ciò non lo induce ad attenuare il proprio giudizio negativo sul modello di sviluppo britannico recente, in quanto a suo avviso esso s'è dimostrato insostenibile nel lungo termine. Secondo Chang, infatti, la speculazione finanziaria consentita dalla liberalizzazione dei mercati finanziari avrebbe avuto quale esito la crisi scoppiata nel 2008 e attualmente in corso, e lo stesso settore dei servizi ingegneristici, da cui è dipeso il persistente dinamismo dell'economia britannica, non potrà non risentire negativamente del restringimento della base industriale del paese.
Un altro punto ch'è stato sovente sottolineato è quello della crescita della disuguaglianza sociale che tale politica ha determinato. Glyn (2007), ad esempio, rileva come fra il 1980 e il 2000 il rapporto fra il reddito disponibile del 10 per cento più ricco della popolazione e quello del 10 per cento più povero in Gran Bretagna sia passato da 3,5 a 1 a 4,6 a 1, quando in Francia e in Germania è rimasto sostanzialmente uguale. Il fatto che dopo il 1979 la Gran Bretagna abbia sì visto crescere la propria ricchezza nazionale a un ritmo più sostenuto rispetto agli altri paesi europei, ma al contempo abbia visto aumentare al proprio interno le disparità di reddito tra i cittadini, impone di domandarsi quanta parte della popolazione britannica abbia effettivamente tratto giovamento dalla crescita economica di questa fase. Al riguardo, una valutazione assai pessimistica emerge dall'analisi di Andriani (2006), il quale sostiene che le politiche liberal-conservatrici degli ultimi decenni hanno determinato nel Regno Unito (come nell'altro paese che ha seguito un simile indirizzo in ambito economico, ossia negli Stati Uniti) una riduzione dei redditi del ceto medio che ha imposto ai suoi componenti di indebitarsi pesantemente per poter mantenere il proprio tradizionale tenore di vita.
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Una conseguenza della deindustrializzazione degli anni ottanta è stata rappresentata dal mutamento dei rapporti di forza sussistenti fra le diverse parti del Regno Unito. Come rileva Davies (2004), l'industria pesante britannica era localizzata prevalentemente nel nord e nell'ovest dello stato (Scozia, Irlanda del Nord, Galles, Inghilterra settentrionale e occidentale): una condizione legata al fatto che le prime aree ad elevato sviluppo industriale erano state quelle più ricche di carbone (minerale che aveva costituito una fondamentale fonte di energia al tempo della prima Rivoluzione industriale). Poiché il declino delle attività manifatturiere riguardò essenzialmente quelle rientranti in tale ambito, esso fece venir meno la situazione di sostanziale equilibrio fra le regioni citate e il sud-est dell'Inghilterra, ponendo quest'ultimo (sede di industrie leggere ad elevato contenuto tecnologico, oltre che del maggiore centro finanziario britannico) in una condizione di preminenza economica che non sperimentava perlomeno da due secoli. Questa trasformazione ha avuto conseguenze rilevanti in ambito politico, in quanto ha conferito un inedito vigore alle spinte indipendentiste esistenti in Scozia e in Galles, favorendo l'ascesa dei partiti nazionalisti ivi operanti e inducendo quello laburista a includere nel proprio programma la promozione delle autonomie locali (la quale si è concretata, dopo il suo ritorno al governo nel 1997, nell'istituzione nelle due regioni di organi parlamentari propri).
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Attualmente l'economia britannica sta subendo le conseguenze della crisi scoppiata nel 2008, che nel Regno Unito ha sortito effetti di particolare gravità. Magazzino rileva infatti come il governo sia stato costretto a effettuare una serie di salvataggi di istituti di credito in crisi, con effetti deleteri sui conti pubblici. Per questo autore le difficoltà odierne del paese derivano dalla notevole incidenza che ha il settore finanziario sulla sua economia: essa, che negli anni passati ha consentito alla Gran Bretagna di trarre notevoli vantaggi dal dinamismo della City londinese, nel momento in cui è esplosa una crisi finanziaria globale s'è inevitabilmente trasformata in un fattore penalizzante. Rimane tuttavia da comprendere se l'espansione delle attività finanziarie non abbia giocato un ruolo nella stessa generazione della crisi. Al riguardo, abbiamo visto come Chang sostenga proprio una tesi del genere, reputando che tale espansione sia stata consentita da una liberalizzazione del settore che ha però agito come un fattore d'instabilità. Forte (2010), invece, nella prefazione al volume di Magazzino attribuisce un ruolo negativo non al liberismo thatcheriano, bensì alla cattiva gestione del settore finanziario che avrebbe contraddistinto gli anni più recenti: a suo parere, sotto i governi laburisti dell'ultimo decennio le autorità preposte alla vigilanza di tale comparto hanno creato le condizioni perché si determinasse la crisi attuale, tollerando che i consumatori si indebitassero e che gli operatori finanziari usassero il denaro di risparmiatori e azionisti in modo rischioso.
Secondo Forte, all'origine di questo comportamento v'è il fatto che i laburisti hanno raccolto l'eredità della Thatcher sul piano economico, ma non su quello etico: è così mancato un forte richiamo - ch'era invece presente nel discorso politico della leader conservatrice - al principio della responsabilità individuale, che avrebbe potuto indurre le pubbliche autorità a governare in modo meno lassista il settore finanziario e quindi a evitare che consumatori e banchieri assumessero a loro volta atteggiamenti irresponsabili. Studiosi marxisti quali Burgio (2009) e Giacché (2009), invece, se da un lato hanno anch'essi posto l'accento sull'effervescenza speculativa di questi ultimi anni, dall'altro hanno interpretato sia questa, sia la tolleranza nei suoi riguardi da parte dei decisori politici come una conseguenza inevitabile delle trasformazioni avvenute nella fase precedente. Secondo questa linea interpretativa, la scelta di favorire il restringimento della base industriale per indebolire i sindacati ha penalizzato l'economia, minando durevolmente le possibilità di crescita tanto dell'offerta quanto della domanda di beni (avendo quest'ultima risentito del rallentamento della crescita salariale). S'è così determinata una tendenza alla stagnazione ch'è stato necessario contrastare promuovendo a tutti i costi lo sviluppo del settore finanziario e l'accesso al credito degli appartenenti agli strati sociali in via d'impoverimento: anche al prezzo di favorire l'effettuazione di attività speculative ad alto rischio e l'erogazione di prestiti a soggetti a rischio d'insolvenza.
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5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Per una geografia storico-economica. La Gran Bretagna. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.