A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Arte a Minerva
Il Palazzo e la Galleria Doria Pamphilj (Seconda parte)
La prima parte dell'articolo è stata pubblicata nel numero di agosto del bimestrale.
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1. La Galleria e la collezione
3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1. La Galleria e la collezione
Gli ambienti che ospitano la Galleria, fra i più prestigiosi del palazzo, sono al piano nobile. Vi si accede da un ingresso secondario in piazza del Collegio Romano e, dopo un vestibolo, si aprono i quattro bracci della Galleria, che gira tutt'intorno al cortile e, adiacenti, si trovano la Sala Aldobrandini e quella dei Primitivi. Qui si concentrano la maggior parte dei capolavori della collezione privata della famiglia Doria Pamphilj, un gran numero di dipinti seicenteschi, notevoli pezzi rinascimentali, busti marmorei ed un nucleo cospicuo di sculture antiche, dall'età arcaica a quella ellenistica. Anche questi ambienti furono variamente decorati: nel primo braccio - la galleria Aldobrandini - si scelsero formule decorative "a uso chinese" del pittore Ginesio del Barba e all'angolo fu allestito un Camerino ottagonale dove oggi viene conservato il capolavoro della raccolta, il Ritratto di Innocenzo X di Velázquez e il busto marmoreo dello stesso papa del Bernini; nel secondo braccio - galleria degli Specchi - i soffitti furono dipinti nel 1733 dal bolognese Aureliano Milani, con storie di Ercole e alle pareti vennero affissi grandi specchi, fatti venire da Venezia e, all'epoca, incomparabilmente più costosi di qualsiasi dipinto o scultura; anche il terzo braccio - galleria Pamphilj - fu decorato da Ginesio del Barba; nel quarto braccio il soffitto fu dipinto con grottesche; la sala Aldobrandini ospita ancora lacerti di affresco che risalgono alle fasi più antiche del complesso edilizio (1507); infine la sala dei Primitivi, riunisce una serie di quadri, in prevalenza eseguiti su tavola e offre una rassegna sull'arte a Ferrara nel primo Cinquecento e sul ricco patrimonio di pittura dei Paesi Bassi posseduto dai Doria Pamphilj.
La quadreria Doria-Pamphilj costituisce uno dei maggiori musei privati nazionali ed è divisa fra le sedi di Genova e Roma, ma si trova in prevalenza nel palazzo romano al Corso. Essa non fu raccolta in un solo periodo e tanto meno da una sola persona. Non esiste pertanto uno specifico atto di fondazione, neppure relativo a un nucleo iniziale. Di certo le pitture che componevano la ricca suppellettile della potente cognata del Pontefice Innocenzo X, Donna Olimpia Maidalchini, nel Palazzo Pamphilj a Piazza Navona vennero sottoposte, insieme a tutto l'arredamento del Palazzo, al vincolo della restituzione ereditaria, quando, con breve solenne del 1° aprile 1651, il Pontefice Innocenzo X istituì nella famiglia Pamphilj la Primogenitura nella persona del nipote Camillo. Inoltre un altro nucleo, non bene identificabile, già si trovava in palazzo fin dal tempo del duca d'Urbino e fu acquistato globalmente con la proprietà, per questa via dovettero giungere la maggior parte delle opere rinascimentali: dipinti emiliani, opere toscane, nonché le tele di Raffaello e Tiziano. Ma l'insieme contava anche sculture dell'antichità romana e opere "moderne", come la celebre serie delle Lunette carraccesche. Da quella stessa epoca i Pamphilj, specialmente ad opera di Camillo, presero ad arricchire la raccolta con particolare impegno, compiendo moltissime acquisizioni sul mercato o attraverso incarichi rivolti direttamente agli artisti. Camillo acquistò direttamente da Caravaggio quattro tele (il Riposo in Egitto, la Maddalena, il S. Giovannino - che sono tuttora nella collezione - e la Buona Ventura, che fu poi donata al Re Sole ed ora è al Louvre), altri dipinti furono presi da lui nella bottega del Guercino. A questa fase risalgono anche le opere di Velázquez, o la notevole selezione di quadri fiamminghi (fra cui Peter e Jan Brueghel); ma anche paesaggi, tanto da diventare uno dei maggiori nuclei del mondo, per quanto riguarda questo genere pittorico.
Un deciso incremento fu effettuato dal cardinale Benedetto, amante anche lui di paesaggi e, secondo il gusto dell'epoca, anche di scene di genere e di nature morte. Alla morte della madre Aldobrandini, fu diviso il patrimonio e molti altri quadri, fra cui il doppio ritratto di Raffaello, pervennero a don Benedetto, facendo così salire la collezione da duecento a milletrecento pezzi.
Nel succedersi degli anni però, avvennero pure cospicue dispersioni. L'arrivo dei Doria da Genova, e quindi la fusione delle dinastie, seguiva infatti un accordo con altre famiglie che vantavano diritti per la successione ai Pamphilj, estinti nella linea maschile. Così, se da un lato il matrimonio Doria fruttò alla collezione molte ed importanti opere, dall'altro però, condusse alla cessione (1769) e subito alla dispersione di un importantissimo e ingente gruppo di quadri dell'eredità Aldobrandini, comprensivo di vari capolavori del Rinascimento e del mondo carraccesco (si pensi solamente al Cristo morto di Mantegna, ora a Brera e alla Madonna Garvagh di Raffaello, ora alla National Gallery di Londra).
Numerose poi furono le vendite nel corso dell'Ottocento, che dovettero comunque riguardare una quantità marginale di opere rispetto a quanto era già stato alienato o sottratto.
Insomma, successive acquisizioni e immissioni delle famiglie Aldobrandini, Pamphilj e Doria, dovevano condurre all'attuale complesso artistico il quale fu inizialmente distribuito nelle vaste e numerose sale del Palazzo e, dopo la costruzione del Valvassori, anche nella Galleria propriamente detta.
Un tratto distintivo della Galleria è dato dall'allestimento riorganizzato a partire dal 1996. Dopo un ciclo di lavori per la messa a norma dei locali, l'intera galleria fu riallestita seguendo il progetto originale redatto da Francesco Nicoletti nel 1768, e conservato nell'archivio di famiglia, che riproduce in alzato i saloni della galleria e dell'appartamento di rappresentanza, con allegato l'elenco dei quadri da esporre. Così, oggi quei luoghi risultano al visitatore gremiti di pitture, accostate, non sulla base di una ripartizione per scuole o epoche, ma abbinate in base al soggetto e al formato. Inoltre mentre nei moderni musei l'isolamento di un'opera è considerata condizione necessaria per il suo studio, attraversando queste sale e gallerie si viene invece colti da un senso opposto, in cui prevale la densità, quasi la confusione. Proprio da ciò deriva l'unicità dell'allestimento museale nella nostra Galleria dove, come raramente accade, una collezione seicentesca è esposta al pubblico, con criteri, sì desueti, ma capaci di mostrarci il modo in cui queste antiche raccolte principesche dovevano effettivamente essere guardate.
La prima guida a stampa della raccolta apparse nel 1794 ad opera di Salvatore Tonci. Prima di lui se ne erano genericamente occupati, citando solo pochi quadri, alcuni autori di antiche guide romane, come il Deseine (1713), il Richardons (1722), il Venuti (1767), il Magnan (1778). In seguito al Motu proprio di Pio VII emanato il 6 luglio 1816, che ripristinò in Roma i Fidecommessi, anche artistici, venne richiesto un preciso elenco delle opere che li costituivano, così per la Galleria Doria-Pamphilj, l'elenco fu compilato dal perito Pasquale Belli, accademico di San Luca, in forma però talmente schematica da rendere spesso incerta la stessa identificazione dei dipinti. Dobbiamo poi attendere quasi la fine dell'Ottocento, dopo la Legge del 28 giugno 1871 che aboliva i vincoli fidecommissari per sostituirli con quelli dell'inalienabilità e della indivisibilità, perché Giulio Cantalamessa eseguisse la Ricognizione degli ex-Fidecommesi romani. Il primo vero catalogo completo, pensato con intenzioni scientifiche di illustrazione delle opere d'arte della raccolta, fu quello redatto nel 1943 da Ettore Sestieri, per incarico del principe don Filippo. In seguito, Italo Faldi, riordinatore della galleria, diede alle stampe un catalogo , guida per i visitatori, con ulteriori rettifiche e nuove attribuzioni.
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Sarebbe impossibile descrivere qui nel dettaglio l'intera collezione. Come abbiamo visto infatti, il palazzo ospita da secoli una collezione privata unica al mondo non solo per la qualità e il valore delle opere, ma anche per il loro numero, talmente elevato, da rivestire per intero le pareti degli appartamenti e i bracci della galleria. Ci limiteremo pertanto a citare e descrivere solo alcune delle opere più note conservate nel palazzo.
- Sebastiano Luciani, detto Sebastiano del Piombo (Venezia c. 1485 - Roma 1547): Ritratto di Andrea Doria, Olio su tela
Eseguito nel 1526, questo dipinto testimonia la grande abilità come ritrattista del pittore veneto che seppe far sua l'arte tosco-romana, grazie all'amicizia con Michelangelo. In quest'opera il grande ammiraglio della Repubblica di Genova presenta una figura solenne e monumentale, grazie alla saldezza plastica e alla sobrietà cromatica che il Luciani seppe imprimere.
- Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 - Roma 1680): Busto di Innocenzo X. Marmo bianco di Carrara
Collocato nello stesso camerino in cui si trova anche la tela di Velázquez, si discosta stilisticamente da essa, per il tono vagamente eroico con cui viene colta la figura del pontefice e per il sottile studio di carattere, realizzato con un impetuoso pittoricismo tipicamente barocco. È una seconda versione del ritratto. Entrambi i busti si trovano nella Galleria e un loro esame chiarisce il motivo per cui Bernini rappresentò in due redazioni tanto simili il satiresco volto del pontefice: porre rimedio al difetto prodottosi nella materia durante l'esecuzione del primo busto attualmente esposto all'incrocio fra il primo e il quarto braccio della Galleria, allorché si creò una profonda spaccatura sul mento. Si tratta di un incidente che mette in luce la velocità con la quale Bernini era solito realizzare le sue opere, continuamente sollecitate dalle richieste del mercato e la cui poetica era ormai legata a questa sveltezza esecutiva. In questa seconda versione Bernini introdusse alcune varianti, apprezzabili soprattutto nell'accentuato movimento della mozzetta alla destra del papa. Ben evidente in entrambi è invece il virtuosistico lavoro di trapano per rendere la barba, lunga e affilata. Sull'anno esatto di esecuzione non abbiamo nessuna notizia, ma l'età apparente del papa e altri indizi orientano verso gli anni immediatamente precedenti al 1650.
- Alessandro Algardi (Bologna 1595 - Roma 1654): Busto di Donna Olimpia Maidalchini. Marmo bianco di Carrara
E' una delle tipiche opere dell'Algardi, apprezzato ritrattista che seppe unire il fine realismo della scuola bolognese ad una nobile compostezza, tipicamente classicista. In questo busto l'acuta penetrazione psicologica si unisce alla leggerezza di tocco con cui è reso il panneggio fluente del velo vedovile. Proprio queste caratteristiche formali rendono oggi difficile una contrapposizione con le maggiori imprese del barocco romano e con i modelli berniniani ,di cui pure il nostro autore dovette essere all'epoca il principale antagonista, in quanto maggiore esponente dello schieramento classicista. Questo celebre busto ritrae la famigerata cognata di papa Innocenzo X Pamphilj, la cui nomea era legata al suo carattere ambizioso e agli intrighi che ordì, tanto che, appena morto il potente alleato, fu confinata in una dimora nell'alto Lazio.
- Raffaello Sanzio (Urbino 1483 - Roma 1520): Ritratto di due personaggi. Olio su tela
Oggi la critica è quasi del tutto concorde nell'attribuire a Raffaello quest'opera. Per tradizione le due figure erano ritenute quelle dei due giuristi Bartolo e Baldo. Ma il Passavanat, in base a notizie delle fonti, ha avanzato l'ipotesi che si tratti di Andrea Navagero ed Agostino Beazzano, due letterati ed uomini politici veneti, contemporanei ed amici del pittore. La tela fu presumibilmente dipinta nell'aprile del 1516 quando i due umanisti si trovavano entrambi a Roma. L'opera nel 1530 era conservata a Padova nella casa del Bembo, dove la vide il Michiel, ma nel 1518 fu donata ad Agostino Beazzano. Sebbene sia stato compiuto in un lasso temporale ristretto, anche questo dipinto rientra fra quei ritratti nei quali Raffaello fu in grado di rendere partecipe lo spettatore non solo della psicologia dei personaggi da lui immortalati, ma anche di mettere lo stesso spettatore in rapporto di totale prossimità fisica con essi. L'opera in origine poggiava su una tavolo, secondo una tecnica conservativa allora adottata in tanti altri casi, e rientrò a Roma insieme alla quadreria Aldobrandini.
- Annibale Carracci (Bologna 1560 - Roma 1609): Paesaggio con la fuga in Egitto. Olio su tela
E' una delle lunette eseguite dal Carracci, su commissione degli Aldobrandini, per la cappella del palazzo al Corso fra il 1604 e il 1613. Egli condusse questa serie di opere in collaborazione con allievi ma questa, in particolare, deve riconoscersi tutta di sua mano e qui per la prima volta un paesaggio è elevato a vero protagonista di una composizione pittorica. Anche questo capolavoro, dipinto con grande armonia e toni classicheggianti, è fra quelli giunti ai Pamphilj attraverso la dote di Olimpia Aldobrandini.
- Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Caravaggio 1573 - Porto Ercole 1610): Riposo durante la fuga in Egitto. Olio su tela
E' la maggiore fra le sue opere giovanili e una delle poche che sia ambientata in un paesaggio. Si tratta inoltre del primo quadro di storia e di cospicuo formato dipinto dall'artista. Giulio Mancini, che scriveva la vita di Caravaggio dieci anni dopo la morte dell'artista, ci informa che la "Madonna che va in Egitto" fu eseguita per monsignor Fantin Petrignani. Questi abitava nella parrocchia di San Salvatore in Lauro a Roma e presso di lui Caravaggio trovò ospitalità dopo che uscì dalla bottega del Cavalier d'Arpino, all'inizio del 1594. In questa composizione, dall'inclinazione pauperistica tipica della controriforma, non vi è ancora applicato il luminismo, che sarà in Caravaggio, potente determinatore di valori plastici; il paesaggio naturalistico è privo di una chiara impostazione prospettico spaziale e l'intero gruppo è rappresentato in maniera intima e domestica. Vi si riconoscono ancora le influenze lombarde e venete nella trattazione del paesaggio e nelle tonalità della luce, in particolare del Savoldo e dal Lotto, ma già la concezione originale della scena proietta verso quelle che saranno le innovazioni introdotte dall'artista: la figura dell'angelo di spalle, che suona il violino, divide la scena in maniera insolita. La chiarezza con cui sono riportate le note sui pentagrammi dello spartito sostenuto da Giuseppe, ha consentito l'identificazione del pezzo che doveva essere stato scelto per enfatizzare il significato religioso della composizione: un motivo scritto dal compositore fiammingo Noel Bauldwijn su testo tratto dal Cantico dei Cantici e dedicato alla Madonna.
- Diego de Silva Velàzquez (Siviglia 1599 - Madrid 1660): Ritratto di Innocenzo X. Olio su tela
Eseguito nel 1650, nella piena maturità dell'artista, si può considerare il più insigne ritratto del sec. XVII. Sembra che il papa fosse talmente soddisfatto dell'opera da offrire un altissimo compenso all'artista che rifiutò perché in missione a Roma per conto del suo Re, accettando tuttavia la medaglia del pontificato e una catena d'oro, rammentate perfino sulla sua pietra tombale. Si trattava del secondo viaggio dell'artista in Italia; egli era giunto a Roma dopo essere stato a Genova, Venezia e Napoli, con l'intento di procurarsi opere d'arte di maestri italiani per il suo Re. Quando il pontefice gli commissionò il proprio ritratto, Velazquez, che non dipingeva da più di un anno e temeva di non aver più la dimestichezza per compiere un dipinto del genere, cominciò ad esercitarsi ritraendo il suo servo mauritano, Juan de Pareja, e riuscì così magistralmente nell'impresa che, dopo aver esposto il quadro alla "Rotonda", come era consuetudine al tempo, ottenne la nomina di Accademico di San Luca. Poi fece uno studio della sola testa del Pontefice, ora all'Hermitage di San Pietroburgo e finalmente pose mani al nostro ritratto. Dipinto con pennellate rapide e veementi, con una sensibilità di tocco che richiama la tecnica veneziana tizianesca, il quadro è pervaso da una luce calda che penetra i colori e li vivifica. Lionello Venturi ha scritto che un ritratto può essere storico o poetico. Questo ritratto è l'una e l'altra cosa insieme, è un magnifico saggio di analisi psicologica e di dominio della tecnica, Velazquez usa infatti la sua impressione visiva iniziale per dar vita sulla tela a una somiglianza realistica nel volto. Il Pontefice vi è rappresentato seduto, in mantellina e copricapo di velluto rosso, ricco di riflessi e in piena armonia cromatica con il colore del seggio e del fondo. Proprio questa sapiente combinazione e sintesi della gamma dei rossi, uno dei colori più difficili da utilizzare in pittura senza cadere in vistosi contrasti o nella volgarità, è uno dei più apprezzabili risultati dell'opera che portò anche una ventata nuova nella ritrattistica spagnola, prima di Velàzquez sempre più sterile e in declino. L'opera rappresenta probabilmente il più importante pezzo della collezione tanto che a metà dell'Ottocento Filippo Andrea V Doria Pamphilj volle isolarlo dagli altri facendo costruire uno speciale camerino da Andrea Busiri Vici nel braccio della Galleria su via del Corso, dove è conservato insieme al busto di Gian Lorenzo Bernini.
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3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Il Palazzo e la Galleria Doria Pamphilj. Percorso bibliografico nelle collezioni della biblioteche del Senato e della Camera. Per ulteriori approfondimenti è possibile proseguire la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.