A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Percorsi di storia economica
Per una geografia storico-economica. L'Italia (Parte quarta: L'Italia repubblicana, dal 1980 a oggi)
1. La ristrutturazione degli anni ottanta
2. L'emersione dei distretti industriali
3. La stagione delle privatizzazioni
4. L'evoluzione dei rapporti tra impresa e forza lavoro
6. Le possibili strategie per il rilancio dell'economia
7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1. La ristrutturazione degli anni ottanta
Avevamo concluso il precedente articolo, dedicato al periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni settanta, delineando una situazione particolarmente difficile per l'economia nazionale. A partire dalla fine del decennio la situazione andò tuttavia migliorando, in parte per effetto delle decisioni prese dai governi in materia economica. Negli anni settanta - come rilevato da Fumagalli (2006) - lo Stato aveva mirato a sostenere le imprese in difficoltà tramite l'espansione dei soccorsi pubblici finanziata dall'incremento della massa monetaria e il sostegno alle esportazioni tramite la svalutazione della lira: misure per taluni aspetti foriere di benefici, ma che per altri versi avevano peggiorato ulteriormente la situazione, in ragione dei loro effetti inflazionistici (la svalutazione determinava difatti il rincaro delle materie prime d'importazione, così come la politica monetaria espansiva suscitava una generale ascesa dei prezzi al consumo). Il decennio successivo fu invece segnato da una decisa azione rivolta proprio a fermare l'ascesa dei prezzi: l'ingresso, nel 1979, dell'Italia nel Sistema Monetario Europeo (con conseguente adozione d'un regime di cambi pressoché fissi) e la promozione, cinque anni più tardi, d'un accordo tra le parti sociali teso a limitare la progressione salariale da "scala mobile" (il meccanismo che adeguava automaticamente le remunerazioni ai prezzi). Delle politiche di contenimento dell'inflazione Ciocca (2007) dà una lettura molto positiva, rilevando la loro influenza positiva sull'andamento dell'economia; egli inoltre sostiene che il venir meno della pratica delle svalutazioni, che sino ad allora aveva difeso in maniera artificiosa la competitività delle imprese, costrinse le medesime a realizzare una ristrutturazione volta al contenimento dei costi e all'incremento della propria produttività. Al riguardo, tuttavia, non mancano analisi di diverso segno. Crepax (2002), ad esempio, evidenzia come il sistema produttivo sia uscito dalla fase di riorganizzazione mantenendo un elevato grado di fragilità (testimoniato dalla sua incapacità nel periodo 1984-89, pure segnato da una congiuntura espansiva, di riassorbire la disoccupazione creatasi negli anni precedenti), in ragione del fatto che le ristrutturazioni delle maggiori imprese si risolsero spesso in mere riduzioni della capacità produttiva, non accompagnate dalla progettazione di soluzioni e prodotti innovativi. Un'altra analisi critica di questo periodo è quella di Vasapollo (2007), il quale pone l'accento sui pesanti costi sociali, in termini di livelli salariali e occupazionali, che contraddistinsero la politica antinflazionistica e le ristrutturazioni aziendali.
2. L'emersione dei distretti industriali
Negli anni ottanta si manifestò una crescente divaricazione tra i grandi gruppi industriali e l'imprenditoria minore. I primi andarono incontro a un generale ridimensionamento (Vasapollo [2007] cita i casi dei settori siderurgico, chimico, elettromeccanico e automobilistico), che in casi estremi - di cui dà conto Crepax (2002) - prese la forma della scomparsa di aziende importanti o della loro acquisizione da parte di società estere; la seconda, invece, si rese protagonista d'una crescita notevolissima. Stando alla ricostruzione di Fumagalli (2006), all'origine di questa inedita vivacità delle piccole imprese vi furono le innovazioni tecnologiche che si ebbero all'epoca (in particolare in ambito informatico), le quali resero possibile automatizzare parzialmente i processi di lavorazione anche in presenza di livelli produttivi modesti: un fatto che le aiutò a conseguire miglioramenti sul piano dei costi e della produttività. Ulteriore slancio a tale fenomeno fu dato dalla loro capacità di dar vita a distretti produttivi, ossia di stabilire reti di rapporti funzionali al coinvolgimento di più operatori nel medesimo ciclo di produzione: una modalità organizzativa che consentì il superamento dei limiti posti dalla ridotta dimensione allo svolgimento di processi produttivi complessi. Questi due fattori, sommandosi ai tradizionali vantaggi su cui le piccole imprese potevano contare (organizzazione della produzione più flessibile, minor costo del lavoro, miglior rapporto con i clienti), pose le medesime in condizione di sottrarsi all'ordinario rapporto di subordinazione nei confronti della grande industria - che si serviva di esse come subfornitrici - per porsi in concorrenza con essa. Crepax (2002) rileva inoltre come il successo di mercato - anche in ambito internazionale - di tali operatori si sia fondato sulla loro capacità di sfruttare la flessibilità delle proprie strutture produttive per dar vita a una produzione altamente diversificata, in grado pertanto di soddisfare una domanda di beni di consumo che l'evoluzione della società stava rendendo sempre più complessa e differenziata. Un ulteriore elemento di riflessione è offerto da de Nardis e Traù (2005), i quali interpretano il dualismo tra grande e piccola impresa come un dualismo tra industrie impegnate in produzioni tecnologicamente avanzate e industrie impegnate in produzioni di tipo tradizionale. Secondo tali studiosi, mentre negli altri grandi paesi industriali si è avuta una specializzazione produttiva rivolta ai settori avanzati, in Italia le crescenti difficoltà delle industrie che presidiavano questi ultimi ha restituito centralità a quelli tradizionali, inducendo le forze produttive a puntare principalmente su di essi. Il fatto che negli altri paesi occidentali queste produzioni tradizionali stessero rarefacendosi ha consentito a quelle italiane di occupare ampi spazi di mercato a livello mondiale, facendo sì che a questa strategia di sviluppo arridesse il successo.
La conduzione di attività tradizionali a basso contenuto tecnologico, tuttavia, comportava l'esposizione alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, i quali in tali ambiti potevano contare su un costo del lavoro assai inferiore a quello europeo. Sia Crepax (2002) che de Nardis e Traù (2005) spiegano la capacità dell'imprenditoria nazionale di resistere a tale concorrenza con l'elevato contenuto di design e l'alta qualità costruttiva connotanti le sue produzioni: tali caratteristiche le hanno infatti differenziate da quelle provenienti dai paesi citati e hanno giustificato il prezzo di vendita più elevato per esse richiesto.
3. La stagione delle privatizzazioni
A partire dal 1992 gli assetti proprietari del sistema industriale italiano hanno subito una notevole trasformazione, per effetto del processo di privatizzazione delle aziende pubbliche. Come ricorda De Cecco (2000), a spingere i governi sulla strada delle privatizzazioni fu essenzialmente la possibilità che esse offrivano di procurare allo stato ingenti risorse finanziarie, il cui reperimento era divenuto necessario in conseguenza dell'improvvisa lievitazione dei tassi d'interesse internazionali, che aveva reso non più sostenibile l'elevato livello raggiunto dal debito pubblico. Sugli esiti di tale processo i giudizi sono perlopiù negativi, sia pure differenziati nelle loro motivazioni. De Nardis (2000), ad esempio, sostiene che esso avrebbe potuto accrescere notevolmente la competitività dell'economia nazionale, ma che le opportunità che offriva da questo punto di vista non sono state pienamente colte, a causa della sopravvivenza della presenza pubblica in molti ambiti, delle ingerenze dello stato nei passaggi di proprietà e dell'azione poco incisiva delle autorità di regolazione, che hanno limitato la capacità delle privatizzazioni di ingenerare processi di liberalizzazione delle attività economiche nei settori interessati. Ciocca (2007) a sua volta rileva che lo smantellamento dell'industria manifatturiera pubblica ha fatto venir meno una potenziale rivale di quella privata e che la cessione delle aziende operanti nei servizi di pubblica utilità - caratterizzati da una limitata o nulla competizione tra operatori - ha aperto a quest'ultima spazi di rendita, col risultato di affievolire le spinte concorrenziali presenti nel sistema economico. Per Vasapollo (2007), infine, le privatizzazioni sono state concepite come una svendita al capitale privato di patrimoni pubblici ed hanno comportato massicci licenziamenti, aumenti dei costi dei servizi e peggioramenti della loro qualità.
Nel medesimo periodo, radicali trasformazioni hanno interessato anche il settore finanziario. Una ricostruzione della sua evoluzione è offerta da Giordano (2007), il quale ricorda come un primo punto di svolta sia stato rappresentato dal provvedimento del 1990 noto come "Legge Amato", che incentivava la trasformazione delle banche in società per azioni controllate da enti - le fondazioni - rivolti ad attività di interesse sociale. Nel 1994 una nuova legge stimolò, offrendo vantaggi fiscali, la cessione da parte delle fondazioni delle proprie partecipazioni azionarie. Alla fine dell'anno precedente il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, recependo una direttiva europea del 1989, aveva eliminato il principio della separazione tra banca e impresa e quello della specializzazione funzionale degli istituti, che dalla riforma del 1936 in avanti avevano costituito i fondamentali principi regolatori dell'attività creditizia. Queste innovazioni normative suscitarono una serie di fusioni e acquisizioni che portarono all'emersione di gruppi di grandi dimensioni. Parallelamente, venne promossa l'espansione delle attività finanziarie anche al di fuori dell'ambito bancario, tramite l'istituzione d'una nuova categoria di operatori (le società di intermediazione finanziaria) e una serie di norme disciplinanti, tra l'altro, i fondi d'investimento, i fondi pensione e i fondi immobiliari.
4. L'evoluzione dei rapporti tra impresa e forza lavoro
Negli anni novanta si sono avute anche altre due importanti novità, suscettibili d'influenzare i costi che le imprese dovevano sostenere. Una di esse è stata rappresentata dal definitivo superamento della scala mobile, per effetto del nuovo accordo tra governo e parti sociali del 1993. Sulle conseguenze di tale evento possiamo citare gli opposti punti di vista di Ciocca (2007) e Vasapollo (2007): per il primo l'accordo, moderando la progressione dei salari (con ricadute positive anche sul costo del denaro), ha avuto il merito di stabilire condizioni più favorevoli allo svolgimento delle attività economiche; per il secondo ha avuto la responsabilità di determinare un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, in quanto ha rallentato a tal punto la crescita dei salari da renderla inferiore a quella dei prezzi.
L'altra trasformazione di rilievo è stata rappresentata dall'evoluzione dei rapporti di lavoro, resi più flessibili mediante l'introduzione di nuove tipologie di contratti. Una ricostruzione delle innovazioni normative alla base di tale evoluzione è compiuta da Fumagalli (2006), il quale di esse dà una lettura fortemente critica, considerandole uno strumento funzionale ad accrescere la subordinazione della forza lavoro al padronato. Un'analisi di opposto segno è portata avanti da Mattina (2010), per il quale in un'economia segnata da forti cambiamenti tecnologici ed organizzativi - quale è quella dell'epoca attuale - è necessario che una quota significativa dei rapporti di lavoro abbia carattere flessibile ed è preferibile riconoscere l'esistenza di tali rapporti, in modo da poterli disciplinare, piuttosto che lasciare che si sviluppino al di fuori della legalità, dunque senza che i lavoratori interessati siano tutelati in alcun modo.
Privatizzazioni e liberalizzazioni, disinflazione e moderazione salariale, flessibilizzazione del mercato del lavoro, ristrutturazione del sistema bancario e incentivazione delle attività finanziarie avrebbero dovuto favorire la crescita economica. Nell'ultimo ventennio questa è invece rallentata: eloquenti risultano a tale proposito le cifre proposte da Rossi (2006) e da Saltari e Travaglini (2006), dalle quali si evince come il ritmo di crescita del PIL nazionale negli anni novanta e nei primi anni del nuovo secolo sia stato inferiore a quello degli altri grandi paesi industriali del continente. Questa incapacità dell'economia italiana di crescere alla stessa velocità di quelle estere ha suscitato un ampio dibattito sul tema del declino - possibile o già in atto - dell'Italia come potenza industriale. In questo paragrafo riportiamo, senza pretese di esaustività, alcune delle tesi avanzate al riguardo.
Secondo il già citato studio di Rossi (2006), all'origine delle difficoltà del paese v'è principalmente la ridotta dimensione media delle sue imprese, che negli ultimi anni ha ostacolato gli investimenti in tecnologia e quindi la crescita della produttività del lavoro. L'impossibilità di conseguire in tale ambito miglioramenti analoghi a quelli realizzati da altri sistemi produttivi ha reso l'industria nazionale sempre meno competitiva nei confronti di questi ultimi sotto il profilo del costo del lavoro per unità di prodotto (malgrado la moderata dinamica salariale di cui ha potuto giovarsi), facendole perdere quote di mercato. Un'analoga tesi è sostenuta da Saltari e Travaglini (2006), i quali però notano pure come le politiche di moderazione salariale e di flessibilizzazione dei rapporti contrattuali, consentendo alle imprese di accrescere i propri margini di profitto anche in assenza di apprezzabili incrementi della produttività del lavoro, abbiano verosimilmente contribuito a disincentivarle dall'investire in innovazioni tecnologiche e organizzative.
Altri autori rivolgono invece la loro attenzione alle decisioni della classe politica. Secondo Ricolfi (2008), lo stato nel corso degli anni ha accresciuto la propria invadenza nell'economia, sottraendo alle famiglie e alle imprese quote crescenti della loro ricchezza per finanziare forme improduttive di spesa pubblica. Nardozzi (2004) invece chiama in causa le politiche pubbliche succedutesi a partire dalla metà degli anni sessanta (ossia dopo la fine del miracolo economico), le quali hanno durevolmente posto l'industria nazionale al riparo dalla concorrenza straniera. A suo parere le elargizioni di sussidi, le ripetute svalutazioni della lira, infine la possibilità di inserirsi in settori protetti acquisendo le aziende di servizi sottoposte a privatizzazione hanno fatto mancare agli imprenditori la pressione competitiva necessaria a far emergere quelli più efficienti a scapito degli altri, a mantenerli impegnati nella ricerca di innovazioni, a far sì che l'offerta di prodotti seguisse l'evoluzione della domanda. Dietro la floridezza del tessuto produttivo italiano s'è dunque nascosta per decenni una condizione di forte fragilità, ch'è venuta infine alla luce quando l'adozione dell'euro l'ha privato dell'arma della svalutazione e lo sviluppo economico della Cina e di altri paesi di nuova industrializzazione ha determinato l'emersione di nuovi competitori nei settori a bassa tecnologia. Anche Visco (2004) risale indietro nel tempo per ricercare le cause del declino, rinvenendole nell'incapacità del ceto politico degli anni ottanta di porre in essere un'efficace strategia di contenimento dell'inflazione e del debito pubblico. In quel decennio l'elevata inflazione ha sottratto liquidità alle imprese, le ha indotte a preferire gli investimenti finanziari a quelli produttivi e a prediligere fra questi ultimi quelli di breve periodo: fenomeni dai quali è derivato il declino dei grandi gruppi industriali. A partire dagli anni novanta l'esplosione del debito pubblico ha reso poi necessaria una politica di rigore finanziario che ha impedito di rilanciare il sistema produttivo così deterioratosi facendo leva su incrementi della spesa pubblica o su riduzioni di imposte.
Va infine citata anche l'osservazione di Vasapollo (2007), il quale indica quale conseguenza inevitabile della perdita di potere d'acquisto subita dai salari successivamente al 1990 il calo della domanda interna: un fenomeno negativo che nel lungo periodo non è stato possibile compensare mediante la crescita delle esportazioni, stante la crescente difficoltà delle imprese nostrane a competere con quelle estere sul fronte sia della qualità della produzione, sia - dopo l'adesione all'euro - del prezzo di vendita. Difatti i dati riportati sia da Nardozzi (2004) che da Rossi (2006) mostrano come negli ultimi anni l'andamento delle esportazioni italiane sia stato peggiore di quello delle esportazioni degli altri grandi paesi europei.
6. Le possibili strategie per il rilancio dell'economia
All'alba del XXI secolo l'Italia si trova così, ancora una volta, in una situazione difficile, dalla quale potrà uscire soltanto attraverso una politica che rinnovi in profondità le strutture della propria economia. Su questo tema gli stessi studiosi che hanno affrontato la tematica del declino non hanno mancato di cimentarsi, elaborando diverse proposte: concludiamo pertanto la trattazione illustrando, nella maniera più sintetica possibile, le posizioni di tali autori in materia, con l'avvertenza che anche in tal caso rimaniamo ben lontani dall'esaurire l'argomento.
Una necessità diffusamente avvertita è quella di accrescere gli investimenti pubblici. In particolare, Ciocca (2007) pone l'accento sull'esigenza di incrementare quelli in infrastrutture, finanziando gli interventi su questo fronte mediante tagli di spesa, il contrasto all'evasione fiscale e nuove privatizzazioni, mentre Rossi (2006) sottolinea quella di curare maggiormente la formazione del capitale umano, attraverso investimenti in ambito scolastico e universitario, e di sostenere tramite interventi pubblici gli investimenti delle imprese nella ricerca tecnico-scientifica. Ciocca (2007), Rossi (2006) e Nardozzi (2004) pongono anche la questione del limitato grado di concorrenza osservabile nei servizi di pubblica utilità e nelle professioni, proponendo di incrementarlo tramite misure di liberalizzazione e un maggiore impegno delle autorità governative nella regolazione di tali attività. Sempre Rossi (2006), infine, rileva l'utilità di stabilire incentivi fiscali che stimolino la crescita dimensionale delle imprese (premiando ad esempio la loro quotazione in borsa) e ipotizza un'azione dello stato volta a far sorgere operatori finanziari del genere di quelli presenti nel mondo anglosassone, che investono nelle imprese prendendo anche parte alla loro gestione, in modo da rendere disponibili per esse nuove risorse economiche e competenze manageriali.
7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
L'Italia repubblicana, dal 1980 a oggi. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.