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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 59 (Nuova Serie), ottobre 2020

A cura della Commissione per la biblioteca e per l'archivio storico

Discorso del Presidente Gianni Marilotti al Convegno internazionale di studi nel 150° anniversario (1870-2020) della Breccia di Porta Pia. Sala capitolare, 2 ottobre 2020

Il 2 ottobre scorso si è svolta, presso la Sala capitolare, la seconda giornata del Convegno internazionale di studi nel 150° anniversario (1870-2020) della Breccia di Porta Pia. Pubblichiamo l'intervento inaugurale del Sen. Gianni Marilotti, Presidente della Commissione per la Biblioteca e l'Archivio storico.

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Gentili ospiti, Sua Eminenza Card. Parolin, Istituzioni promotrici del convegno, Autorità, signore e signori,

Oggi ospitiamo in questa prestigiosa sede l'evento "La Breccia di Porta Pia - Convegno Internazionale di Studi nel 150° anniversario". Può essere d'interesse ricordare che tra il 1849 e il 1867 questo Palazzo venne adibito a caserma delle truppe francesi, garanti dell'indipendenza dello Stato Pontificio dopo l'esperienza della Repubblica Romana, per essere successivamente destinato a sede del Pontificio Collegio Latino-Americano ed infatti sull'architrave d'ingresso al Palazzo è riportato il nome di Pio IX, uno dei protagonisti del periodo che oggi rievochiamo attraverso le relazioni di illustri studiosi che animeranno il dibattito odierno.

"Libera Chiesa in libero Stato" è la frase coniata da Carlo di Montalembert e pronunciata più volte da Camillo Benso di Cavour nel discorso al Parlamento con cui appoggiò l'ordine del giorno che acclamava Roma capitale d'Italia (27 marzo 1861). La frase rimase celebre nell'uso pubblicistico e storiografico, come aforisma efficace del pensiero dello statista piemontese sulla soluzione della questione romana nella nuova situazione determinata dalla proclamazione del Regno d'Italia.

L'appello di Cavour a Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più problema di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche […]; noi siamo pronti a proclamare per l'Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».

Il conte di Cavour l'11 di ottobre del 1860 disse nella Camera dei deputati: «Io credo che la soluzione della questione Romana debba essere prodotta dalla convinzione che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso. Io porto ferma opinione che questa verità trionferà fra poco».

Il pensiero di Cavour sulle distinzioni fra lo Stato e la Chiesa anticiparono di quasi un secolo le stesse posizioni della Chiesa che, nella seconda metà del '900, soprattutto con il Concilio Vaticano II, superò ogni nostalgia per il vecchio potere temporale affermando chiaramente che esso limitava anche la libertà del Magistero spirituale della Chiesa. Il nuovo Concordato del 1984, correggendo radicalmente quello del 1929, abbandonando la concezione di "religione dello Stato", ha recuperato quanto disposto dalla Costituzione repubblicana e probabilmente riuscendo ad accogliere quello spirito dei rapporti tra Stato e Chiesa auspicato da Cavour. Un pensiero figlio della visione del liberalismo italiano nei confronti dei rapporti fra Stato e Chiesa.

Cavour espone il suo punto di vista sulla questione di Roma capitale in più occasioni, nel corso del primo e più famoso dei tre discorsi per Roma capitale, tenuto alla Camera il 25 marzo 1861 (gli altri due furono pronunciati rispettivamente alla Camera il 27 marzo e al Senato il 5 aprile). Nel primo discorso era intervenuto dopo il deputato Audinot che aveva affermato senza riserva: «Roma dev'essere la capitale d'Italia». Cavour pur sostenendolo, precisa che non vi poteva essere soluzione della questione romana, se prima questa necessità non fosse stata accettata dall'opinione pubblica italiana ed europea. Fin dal suo primo intervento dichiara che non si poteva concepire l'Italia costituita in unità in modo stabile senza che Roma fosse la sua capitale.

Cavour condivide le istanze di molti italiani che vedevano nell'unione di Roma al Regno d'Italia il completamento del sogno risorgimentale. Ricorda anche che l'Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per sciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari opponevano al progetto unitario. Proprio per questo ritiene che finché la questione della capitale non sarà definita vi sarà sempre motivo di divisioni e di discordie fra le varie parti d'Italia.

«Nella città di Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende» universalmente; una città «destinata ad essere la capitale di un grande Stato». Profondamente convinto di questa asserzione Cavour proclama più volte in Parlamento la necessità che Roma sia quanto prima capitale d'Italia, affinché cessi ogni discussione e dissidio in proposito.

Questa scelta non è priva di dolore per Cavour che è consapevole che la sua città natale dovrà rinunciare definitivamente ad ogni speranza di conservare la sede del governo. Egli nel suo discorso aggiunge: «per quanto personalmente mi concerne è con dolore che io vado a Roma», ma è con fiducia, che pensa che sarà più efficace un trasferimento della capitale per rafforzare il nuovo Stato. Non tutti erano però della stessa opinione: D'Azeglio per esempio non credeva nel dogma di Roma capitale, giudicando che sarebbe stato preferibile lasciarla al Papa; un'opinione non condivisa e contestata da Cavour, il quale nei suoi discorsi ritiene il trasferimento della capitale una scelta ineluttabile, una necessità, una verità evidente per sé stessa, e che gode del consenso degli italiani.

Tuttavia quest'ultima affermazione era quanto meno dubbia. I torinesi, per esempio, non erano unanimemente persuasi da una tale opinione e smentendo le parole di Cavour, diedero vita ad una protesta che, sedata nel sangue, provocò circa 30 morti e 160 feriti tra la popolazione nel settembre 1865, quando la Corte e il Parlamento lasciarono le loro antiche sedi, per trasferirsi in un primo tempo a Firenze e poi a Roma, dove nel 1870 tra i bersaglieri e gli zuavi pontifici caduti si contarono 47 morti e più di 200 feriti.

Erano necessari ed inevitabili il sangue e le battaglie per unificare l'Italia e proclamare Roma capitale? Potevano essere percorse strade alternative per perseguire l'obiettivo unitario senza impugnare necessariamente le armi? Forse si sarebbe potuto proseguire verso l'Unità attraverso la strada di accordi commerciali come il progetto della Lega doganale.

Poteva essere costruita un'Italia confederale o federale senza schiacciare le antiche autonomie. Senza guerre interne tra italiani molte ferite che lo Stato post-unitario dovette affrontare non ci sarebbero state. Alcune di quelle ferite non si sono mai rimarginate e costituiscono una frattura ed un trauma nella coscienza nazionale.

Non sarebbe stato forse possibile pensare ad un progetto di unificazione come quello prospettato da Gioberti o da Cattaneo?

È sicuramente innegabile l'importanza storica di Roma, tuttavia la forza di uno Stato non dovrebbe misurarsi esclusivamente sul fatto che la sua classe dirigente si identifica in un particolare luogo geografico. L'elemento più importante dovrebbe essere la presenza di una classe dirigente lungimirante che possieda, in primo luogo, il requisito fondamentale del senso dello Stato.

L'Italia appena unificata, ancora fragile, si poneva anche il problema sollevato da D'Azeglio "Fatta l'Italia, dobbiamo fare gli italiani". Inoltre il problema non trascurabile che soltanto una minima parte della popolazione parlava la lingua italiana e godeva del diritto di voto.

Trasferendosi a Roma, la classe dirigente sabauda decise probabilmente di guardare al passato, non al futuro. Veniva rievocato il sogno di Roma, l'ideale che aveva tormentato gli imperatori tedeschi nel Medioevo, che aveva stimolato Dante e le visioni di Cola di Rienzo. Sicuramente una scelta giustificata storicamente, tuttavia il processo unitario avrebbe beneficiato maggiormente di una buona amministrazione rispettosa delle diverse identità e di una classe dirigente in grado di interpretare l'interesse collettivo. Questo forse avrebbe evitato che ai difetti degli antichi Stati preunitari si aggiungessero i difetti e le fragilità del nuovo Stato fortemente accentrato e verticistico.

L'anniversario dei 150 anni della Breccia di Porta Pia può così diventare l'occasione per una profonda riflessione sul nostro Paese, sulla sua storia e sulla sua identità.

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