A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Speciale: 11 settembre 2001, vent'anni dopo
I giornali europei all'indomani dell'11 settembre 2001
Dopo l'introduzione del prof. Massimo Teodori nel primo numero dello "Speciale" di quest'anno, la rassegna della stampa quotidiana statunitense proposta nel secondo numero, gli spunti di riflessione sulla copertura dell'evento ricavati - nel terzo numero - da una selezione di giornali di varie parti del mondo, in questa puntata presentiamo, nella nostra traduzione, alcuni punti di vista espressi da quotidiani europei, attingendo ancora una volta alle collezioni dell'Emeroteca del Polo bibliotecario parlamentare, in parte disponibili anche tramite le risorse digitali consultabili presso le postazioni in sede.
In questa occasione segnaliamo inoltre la pubblicazione della seconda puntata della vetrina tematica 11 settembre 2001, vent'anni dopo, dedicata alla produzione saggistica in merito all'attentato, presentata in un contributo in questo stesso numero del nostro bimestrale; la prima vetrina, dedicata invece a progetti di archiviazione digitale delle fonti, è stata commentata in un articolo di "MinervaWeb", n. 61, n.s., febbraio 2021. Entrambe sono consultabili nella sezione del sito dedicata alle infografiche.
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6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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Una sola consapevolezza è trasversale a tutti i commenti all'indomani dell'11 settembre 2001: la certezza che sarà uno di quegli eventi capaci di creare una sorta di spartiacque nella storia, generando un 'prima' e un 'dopo'. Rispetto alle testate statunitensi, le voci che si esprimono sulle pagine dei quotidiani europei lasciano forse trapelare un distacco generato dalla distanza geografica ma largamente compensato dalla vicinanza politica, oltre che umana: il motto «Siamo tutti americani» esprimerà nei giorni a seguire la solidarietà tra le due sponde dell'Atlantico, prefigurando al contempo una fase geopolitica d'instabilità che coinvolgerà le sorti collettive a più livelli (economico, militare, sociale) e ben al di fuori del territorio americano.
Accanto a questo sentimento diffuso, che pure non impedirà l'emergere nel tempo di posizioni più articolate e talvolta polarizzate, già all'indomani degli attentati la generale espressione di sdegno si declina secondo modalità e tematiche ricorrenti, magari affidate a parti del giornale con intenti comunicativi diversi (la notizia di apertura, il fondo, l'editoriale ecc.), tra cui ci sembra di notare, ed enucleare in un elenco necessariamente breve e non esaustivo, almeno le seguenti caratteristiche comuni.
La più evidente, e forse la più affine alla pubblicistica internazionale, è l'ampio ricorso alla metafora bellica e apocalittica, soprattutto nei titoli oltre che nelle testimonianze riportate; una metafora che per alcuni è anche, in quei momenti, una possibile prefigurazione dell'immediato futuro. Per indovinare, appunto, il futuro - e questo è un secondo punto ricorrente - si cercano i precedenti nel passato, sia nella storia americana recente, sia in episodi significativi del secondo conflitto mondiale. Nondimeno, i commenti di approfondimento mantengono per lo più un registro necessariamente cauto, perché all'indomani dei dirottamenti e delle esplosioni sono ancora insufficienti le notizie sui retroscena e le ricostruzioni del 'come', che emergeranno gradualmente dalle indagini nelle settimane successive. A questi toni analitici fa da contrappunto, e vi si alterna, il largo uso delle testimonianze dirette, anche abbinato a uno stile giornalistico quasi narrativo, che lascia ampiamente spazio al pathos. Ultimo, ma non ultimo, su tutto aleggia un senso d'incredulità: la percezione della vulnerabilità umana e delle strutture sociali, che l'azione terroristica ha messo in luce, si riassume nella ricorrente sensazione di trovarsi di fronte a un film catastrofico o a un romanzo di fantascienza, chiamando l'immaginazione a soccorso dell'elaborazione di una realtà troppo nuova e difficile da metabolizzare.
Senza alcuna ambizione di completezza scegliamo dunque, tra le moltissime parole che sono state spese per descrivere, analizzare, raccontare i fatti, qualche articolo apparso in alcuni dei principali quotidiani e settimanali usciti il 12 settembre 2001 in Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, tra quelli a nostro parere più rappresentativi delle tendenze evidenziate, in qualche caso coinvolgendo come autori nomi noti della letteratura, oltre che del giornalismo.
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Il più longevo (e per molti anni il più diffuso) quotidiano francese, "Le Figaro", fondato come settimanale nel 1826 e attivo senza interruzioni dal 1944, titola a tutta pagina La nouvelle guerre (La nuova guerra) e dedica all'evento le prime 11 pagine, una delle quali (p. 4) è interamente riservata alle fotografie del disastro e della folla ferita e incredula. Le cronache e le infografiche iniziali lasciano il passo, a p. 5, alle notizie dal corrispondente da Washington, Jean-Jacques Mevel (Les États-Unis en état de choc / Gli Stati Uniti in stato di choc, quasi un gioco di parole); a fondo pagina le prime riflessioni sono affidate alla doppia firma di Arnaud de La Grange e Cyril Hofstein, che in Premières pistes, premières leçons (Prime piste, prime lezioni) richiamano alcuni allarmanti precedenti, a partire dall'esplosione - distante poco meno di un decennio - di un furgone-bomba nel parcheggio sottostante al World Trade Center di New York, ad opera di un commando terroristico:
Un mattino del febbraio 1993, l'America scopriva con orrore che il terrorismo non era una piaga solo del vecchio mondo. Quella volta, era stata già colpita al cuore, sul suo territorio, nel più simbolico dei suoi centri economici. Le "twins", le famose torri gemelle del World Trade Center di New York furono l'obiettivo di un primo attentato. L'attacco non fece "che" sei morti e un migliaio di feriti ma ebbe un impatto psicologico enorme sulla popolazione americana. Gli attentati di ieri confermano la lezione del 1993: il territorio americano non è più un santuario. [...] Anche se è troppo presto per stabilire una filiazione tra i due attentati del 1993 e del 2001, la somiglianza è inquietante.
Gli autori proseguono ricordando che per altre «quattro volte, dopo il 1996, simboli forti della presenza americana all'estero sono stati l'obiettivo di spettacolari attentati terroristici»: la base statunitense di Khobar, presso Dhahran in Arabia Saudita, colpita il 25 giugno 1996; le ambasciate degli USA nelle capitali di Kenya e Tanzania, dove due autobombe si erano attivate, a cinque minuti di intervallo, il 7 agosto 1998, mietendo oltre 200 vite e migliaia di feriti; un cacciatorpediniere della marina militare americana ormeggiato nel porto di Aden in Yemen, contro cui una barca carica di esplosivo era andata a schiantarsi il 3 ottobre del 2000. Tutti episodi mortali, ma avvenuti in territori geograficamente distanti e non paragonabili alla devastazione operata nel cuore stesso della 'Grande Mela'. Lo sconcerto e l'incertezza del momento lasciano poco spazio alle previsioni, che si basano sui precedenti poc'anzi ricordati («Nulla si sa ancora circa l'ampiezza della risposta degli Stati Uniti alla sfida che è stata loro appena lanciata. Ma gli avvenimenti del 1998 danno una idea della militarizzazione della lotta antiterrorista»), tuttavia emerge, palpabile, la sensazione della fine di un'era e dell'aprirsi di una fase critica nello scacchiere geopolitico: «Fino a ieri ci si poteva raccontare che nessuna organizzazione terrorista non sostenuta da uno Stato fosse in grado di pianificare una tale operazione. Ci sbagliavamo».
Nella ricerca di precedenti, risale ancora più indietro nel tempo lo storico concorrente di "Le Figaro", "Le Monde", che alla situazione riserva un numero ancora maggiore di pagine. A p. 13 Gérard Courtois, nell'articolo Pearl Harbour, [sic] "un jour d'infamie" (un giorno d'infamia), suggerisce un confronto con l'episodio scatenante l'intervento americano nella seconda guerra mondiale; e poco oltre, infatti, la rassegna della stampa straniera che occupa quasi interamente p. 16, con un balzo in avanti dell'immaginazione reca l'allarmante titolo La "troisième guerre mondiale" a commencé (La terza guerra mondiale è iniziata). Per contro, a p. 19 Harry Bellet cerca un paragone letterario con le trame catastrofiche di film e narrativa e chiede «Chi ha letto i romanzi di Tom Clancy?» nell'articolo Quand la réalité dépasse la fiction (Quando la realtà supera l'immaginazione).
Anche la prima pagina ha uno stile più meditativo, enfatizzato nell'immagine centrale, che rappresenta non il crollo in primo piano, ma lo skyline di Manhattan visto in lontananza, con la Statua della libertà avvolta nel fumo. Il titolo d'apertura esprime una nuova apprensione: L'Amerique frappée, le monde saisi d'effroi (L'America colpita, il mondo attanagliato dalla paura); sotto la foto, nell'articolo di taglio medio C'est la nuit à Manhattan, au pied des tours devenues cimetières (È notte a Manhattan, ai piedi delle torri diventate cimiteri), il corrispondente da New York, Eric Leser, descrive il crollo dall'interno delle torri:
"Attenzione! Sta per crollare!" Un poliziotto newyorkese, sudato, il viso scarlatto, correndo, ci respinge una via più in là delle due torri gemelle del World Trade Center [...] Una spessa coltre di fumo nero e grigio avvolge il sud di Manhattan [...] Le vie, le automobili, le persone sono coperte di questa "neve" che attenua il rumore dei passi, dei veicoli e rende l'atmosfera ancora più irreale.
Tra le sirene delle ambulanze, della polizia, dei pompieri, le persone non dicono una parola, inebetite. Si guardano, abbassano la testa, allungano il passo per fuggire o cercano di riprendere la strada per quello che era il World Trade Center. Quelli che non hanno una mascherina, si coprono il viso. Dei feriti, scioccati o in debito di ossigeno sono allungati sui marciapiedi, circondati, confortati. L'avvicinamento è difficile. I poliziotti, numerosi ma sconvolti, interdicono talvolta il passaggio, ma poi lasciano fare, sopraffatti dagli avvenimenti. Noi avanziamo ancora. Le strade sono deserte. Solo i vigili del fuoco sono lì, abbattuti, scoraggiati.
Improvvisamente la seconda torre crolla. Ci rifugiamo correndo in un ristorante [...] tutti si gettano sotto i tavoli. Dei pompieri, bombola d'ossigeno sulle spalle e maschera sul viso, ci raggiungono. Tre secondi più tardi la massa di macerie e polvere si abbatte. La costruzione trema, qualche vetro si rompe. Un forte odore di bruciato si diffonde. L'elettricità salta. Il padrone del ristorante distribuisce a quanti tornano in strada dei tovaglioli per coprirsi il naso e la bocca [...] Qualche minuto più tardi il paesaggio riappare, allucinante, New York è mutilata. Le due torri sono scomparse [...] Un'ora prima erano ancora là, intatte, brillanti, nel sole. [...]
"Lo credereste? La guerra nel cuore di Manhattan" dice un vigile del fuoco sfinito, sedendosi su un marciapiede. Un ragazzone di due metri, coperto di polvere e fango, gli occhi arrossati, sull'orlo delle lacrime. Dà al suo superiore il nome di cinque compagni che si trovavano con lui all'entrata della torre crollata e di cui non ha più alcuna notizia. La notte, quando le Twins erano illuminate, era un posto magico. Oggi è un cimitero.
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Anche a Londra si cercano precedenti e termini di paragone nella storia e nella letteratura. Il 12 settembre 2001 "The Times" (uno dei più autorevoli e antichi giornali al mondo, nato già nel XVIII secolo) dedica le prime 14 pagine agli eventi del giorno prima; in più realizza un inserto speciale in cui prevale nettamente l'apparato grafico, con fotografie - spesso a colori - anche a pagina intera e la cronosequenza degli attentati a New York e a Washington. In più di una occasione anche questa testata richiama l'episodio di Pearl Harbor, per l'effetto sorpresa che suscitò e gli esiti funesti che determinò. Evidente il riferimento bellico già nel titolo When war came to America (Quando la guerra giunse in America), dominante in prima pagina sopra una foto a colori del momento dell'esplosione, che lascia poco spazio al testo in basso; ancora più esplicito nella pagina seguente l'articolo di Ben Macintyre (scrittore e giornalista non a caso noto per i suoi libri di spionaggio), Bloody echoes of Pearl Harbor (Echi sanguinosi di Pearl Harbor). Nell'inserto speciale, l'editorialista William Rees-Mogg (storica firma del "Times" già dagli anni Sessanta) propone un confronto più articolato a p. 19, Attacks are worst on US since Pearl Harbor (Gli attacchi agli Stati Uniti sono i peggiori dai tempi di Pearl Harbor), traendone previsioni per il futuro prossimo e molte incertezze per il futuro remoto:
C'è solo un evento nella storia americana moderna comparabile per entità e impatto agli attacchi terroristici al World Trade Center e al Pentagono: il bombardamento di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, quando il Giappone colpì la flotta americana nel Pacifico affondando numerose navi.
Ci furono due reazioni a quell'avvenimento: in Inghilterra provammo orrore, ma anche un senso di sollievo perché gli Stati Uniti erano ormai coinvolti nella Seconda guerra mondiale; negli USA ci fu un'ondata di rabbia per il vile attacco.
Quel giorno l'azione giapponese diede avvio a un nuovo processo storico [...].
Probabilmente l'11 settembre 2001 sarà ricordato come un giorno infame, la data di inizio di un nuovo processo storico. Da subito Pearl Harbour venne considerato un'azione di guerra. Anche i nuovi terroristi hanno deciso di condurre un'azione di guerra contro gli Stati Uniti. Senza dubbio servirà tempo per stabilire chi ha organizzato questo attacco e se c'è stato l'appoggio di qualche stato estero. Gli Stati Uniti accerteranno le responsabilità ed esigeranno una punizione.
[…] Quest'attentato ha messo in risalto la vulnerabilità di tutte le società moderne. Le infrastrutture sono suscettibili di essere attaccate sotto quasi ogni aspetto. I grattacieli, a Milano come a Hong Kong, a Londra come a New York, sono edifici per loro natura fragili. Le torri gemelle del World Trade Center sono state distrutte in un'ora o poco più al costo di molte vite. Gli aerei sono soggetti a dirottamenti e finora non si è trovato alcun sistema per renderli sicuri. Persino degli hacker adolescenti possono mandare in tilt Internet.
[…] Gli Stati Uniti alzeranno certamente i livelli di sicurezza dei voli interni e per accedere ai grattacieli, ma voli e grattacieli, malgrado la loro vulnerabilità, rimarranno infrastrutture essenziali nella vita di oggigiorno. Qualunque precauzione si prenda, qualche terrorista riuscirà ad aggirarla. I rischi si possono ridurre, non eliminare. Il mondo ora si trova ad affrontare un aumento globale della minaccia terroristica.
[…] Questa tragedia arriva in un momento cruciale per il pianeta. I mercati sono crollati di colpo e anche prima c'era abbastanza nervosismo. Nel 1941 i giapponesi hanno acceso una miccia. Sessant'anni dopo dei terroristi [...] hanno provocato un altro terribile bagno di sangue. Non si vede come si possa tornare al mondo che conoscevamo fino a ieri mattina.
Anche "The Guardian", più vicino al partito laburista (va precisato che abbiamo consultato l'edizione "Europe", pubblicata in Francia, Spagna e Germania), ha un'impostazione analoga: descrive e commenta i fatti da diversi punti di vista per buona parte del numero del 12 settembre; lascia in prima pagina solo una foto a colori del momento dell'esplosione, con il titolo Manhattan, 2001; realizza l'inserto "G2" intitolandolo 11.09.2001. The day that earth stood still (Il giorno in cui la terra si è fermata) e affidandone l'apertura ai commenti dello scrittore Ian McEwan (Beyond belief / Da non credere, p. 2 dell'inserto); anche in questo caso il senso d'incredulità generale è reso efficace da paragoni con materiali narrativi provenienti dal mondo della fiction, come se solo la fantascienza e la fantasia potessero dare un'idea della realtà. Rispetto ai servizi di chi ha descritto sul posto i tragici eventi, prevale qui l'atteggiamento di chi assiste da più lontano, senza tuttavia potersi dire distaccato. In tutto quel caos infatti, secondo McEwan, sembra esserci una sola certezza: il mondo intero non sarà più lo stesso:
È stato come nelle scene dei peggiori film hollywoodiani degli ultimi decenni. Ma in America la realtà supera l'immaginazione. E nemmeno le menti più acute, o gli scrittori più foschi e visionari che hanno prefigurato disastri su scala planetaria, da Tolstoj a Wells a Don De Lillo, ci avrebbero mai proiettati in un incubo come quello cui abbiamo assistito ieri pomeriggio sui telegiornali. In quel momento per la maggior parte di noi il tempo si è fermato, abbiamo abbandonato il lavoro e ogni altra occupazione, l'unica cosa reale era lo schermo. Siamo entrati in uno stato onirico. Lo avevamo già visto prima, con effetti speciali dai budget enormi, ma erano brutte copie. Le gigantesche esplosioni, le immani nubi nere e rosse, la folla che si precipitava in strada, le informazioni confuse e contraddittorie, somigliavano solo lontanamente alle immagini artefatte di film come Skyscraper, Fuoco assassino o Independence Day. Non vi eravamo preparati.
Come sempre, a terrorizzare era quel che non appariva. Abbiamo visto i grattacieli, gli aerei che si inclinavano, il tremendo impatto, i cumuli di polvere che ingolfavano le strade. Ma potevamo solo immaginare il terrore delle persone sugli aerei, lungo i corridoi, davanti agli ascensori degli edifici colpiti o nelle strade sottostanti mentre le torri crollavano davanti ai soccorritori e agli astanti. I testimoni hanno riferito di impiegati che si gettavano da altezze enormi, ma non li abbiamo visti. Le urla, l'eroismo e il comprensibile panico, la disperata ricerca dei cellulari nella semioscurità: a inorridirci era il fatto che fossimo a distanza di sicurezza da tutto ciò. Niente sangue, niente grida. I greci, saggiamente, nelle loro tragedie non mettevano in scena le azioni più cruente. Da qui il vocabolo "osceno". E questa era un'oscenità. Abbiamo assistito alla morte su scala colossale, ma non abbiamo visto morire nessuno. L'incubo era in quello spazio lasciato all'immaginazione. L'orrore in quella distanza.
[…] Non abbiamo quasi avuto il tempo di riflettere sulla crudeltà di quanti hanno scatenato tutto ciò. Vi stavano assistendo anche loro, ansiosi come noi di conoscere i particolari più terribili? Mi vergognavo al pensiero.
[…] Dall'osservatorio privilegiato di Brooklyn Heights abbiamo visto Lower Manhattan svanire nella polvere. New York, come tutte le città, sembrava fragile e vulnerabile. La tecnologia che ci mostrava quelle scene ci aveva unito strettamente in una febbrile, mutua dipendenza. Il nostro modo di vivere, centralizzato e tributario delle macchine, ci aveva reso deboli. D'un tratto ci appariva quanto fosse facile distruggere la nostra civiltà, il nostro modo di vivere, se si avevano mezzi sufficienti e intenzioni malvagie. Non c'era difesa missilistica che potesse proteggerci.
Ieri pomeriggio, per lo spazio di un sogno, per un lasso di tempo imprecisato, abbiamo avuto la sensazione di una guerra totale, della rovina dell'impero più potente al mondo. Il rifiuto di ammettere la realtà che accompagna ogni catastrofe continuava a risuonarci in testa: non è vero, non è successo niente. Ora chiudo gli occhi, e quando li riapro sarà tutto sparito. Come milioni, forse miliardi di persone sulla faccia della terra, sapevamo di vivere un momento che non avremmo più potuto dimenticare. E sapevamo, benché fosse troppo presto per chiedersi in che modo e perché, che il mondo non sarebbe più stato lo stesso. L'unica certezza è che sarebbe stato peggiore.
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Di una prospettiva 'europea' e insieme globale è portatore anche "El Paìs", che nell'edizione di Madrid titola in prima pagina El mundo en vilo a la espera de las represalias de Bush (Il mondo in bilico in attesa delle rappresaglie di Bush). Il principale quotidiano spagnolo aggiunge allo stupore per l'accaduto la perplessità sul perché sia accaduto, e su come sia stata tenuta una soglia di attenzione rivelatasi non sufficiente a proteggere «obiettivi [...] vitali: il centro della difesa e uno dei punti nevralgici dell'economia». A queste osservazioni, il corrispondente da Washington Enric González, nell'articolo che occupa interamente le pagine 2 e 3 (e che taglia corto sui paragoni col passato, affermando direttamente nel titolo che si è trattato di El peor ataque de la historia / Il peggiore attacco della storia), aggiunge una descrizione il più possibile minuziosa della giornata dell'11 settembre, arricchita dalle dichiarazioni del sindaco di New York e del presidente Bush e dalle prime ipotesi sui responsabili della strage, pur precisando che è troppo presto ancora per avere conferme sull'autore dell'attentato, o
sul numero totale delle vittime. Saranno centinaia, forse migliaia.
Nel World Trade Center, uno dei grandi simboli dell'economia americana, lavoravano circa 40.000 persone; e in un giorno qualsiasi potevano circolare al suo interno anche 25.000 persone. L'edificio registrava la punta massima di persone al suo interno alle 8.45 del mattino (14.45 ora spagnola), ora in cui un aereo si è scagliato contro la torre sud. Ha avuto così inizio una giornata atroce, piena di tragedie che nessun aggettivo potrebbe definire. È iniziata l'evacuazione dalla torre colpita e tutte le reti televisive trasmettevano in diretta l'incendio causato dall'impatto. Proprio per questo, 18 minuti dopo la prima esplosione, milioni di spettatori hanno assistito alla scena di un secondo aereo che si andava a lanciare contro la torre nord, attraversandola da una parte all'altra. L'esplosione è stata impressionante.
[...] Il presidente George W. Bush si trovava in una scuola della Florida, e stava parlando di istruzione davanti ad un pubblico infantile, quando gli hanno sussurrato la notizia all'orecchio. Ha concluso in fretta il suo intervento e con il volto cupo si è diretto all'aereo presidenziale, l'Air Force One. Prima di imbarcarsi ha registrato un breve discorso nel quale prometteva che i responsabili dell'attacco "apparentemente terroristico", avrebbero pagato caro, e ha affermato di aver preso le misure necessarie affinché il Governo continuasse a funzionare come sempre. "Questa è una tragedia nazionale", ha dichiarato.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Un'ora dopo il duplice attacco contro il World Trade Center, quando centinaia di pompieri cercavano di salvare le persone intrappolate, tutte e due le torri sono crollate sulla città di New York. È stata un'immagine stravolgente, che non si scorderà mai. Nei minuti antecedenti al crollo si vedevano persone che saltavano nel vuoto buttandosi dalle finestre più alte. "Il numero di vittime sarà terribile" ha dichiarato Rudy Giuliani, sindaco della città. E ha aggiunto: "Questo è senza ombra di dubbio uno degli eventi più terribili della storia dell'uomo".
[...] La grande domanda che rimane ancora senza risposa, oltre all'urgenza del salvataggio dei feriti, il conteggio delle vittime e l'identificazione dei responsabili, è come possa essere successo qualcosa di così terribile [...]
La corrispondente da New York dà invece maggior risalto alle reazioni delle persone, già a partire dal titolo di p. 10 che riporta tra virgolette una dichiarazione ricca di pathos: "Pánico, gritos y después el silencio de la muerte" ("Panico, grida e poi il silenzio della morte") immerso in una «nube immensa di fumo e calcinacci». L'articolo raccoglie le voci dei testimoni oculari; anche in questo caso ricorrono i paragoni bellici, che non trovano però un punto di riferimento adeguato.
"È stato terribile; era come l'uscita drammatica da un concerto. La gente ha iniziato a correre verso est; donne, uomini e bambini cadevano a terra; credevo fosse la fine del mondo. Dopo, se devo essere sincero, non ho visto niente. C'era un'oscurità impressionante", dice un lavoratore che camminava a Broadway intorno alle 10.05 di ieri mattina, momento in cui è crollata la torre sud. [...]
"Si dovevano evacuare gli edifici", dice Bill Faulkner, un agente che lavora nel tribunale di New York. "Dovevamo agire in fretta. Ci hanno caricato su un furgone in 15, tra poliziotti e medici e siamo riusciti a far evacuare circa 2000 persone". E continua: "Nel frattempo c'era stato l'impatto del secondo aereo e temevamo il peggio". Il massacro si è consumato quando sono cadute migliaia di tonnellate di cemento. "È stato terribile. La gente cercava di uscire dall'edificio; c'erano persone che saltavano da piani altissimi e i loro corpi cadevano a terra mutilati".
Il problema non erano solo i lavoratori del World Trade Center. Molti abitanti incuriositi, molti impiegati evacuati e anche turisti, si erano raggruppati vicino alle torri gemelle, volevano vedere da vicino una scena da film; l'attacco al cuore degli Stati Uniti. Ma mai avrebbero immaginato quello che sarebbe successo di lì a poco. "Ho sentito un rumore terribile sopra alla mia testa. Era un aereo di linea che ha attraversato completamente la struttura della torre. Era come se la facciata lo avesse inglobato", raccontava Mark Obenhau che è riuscito a vedere l'impatto del primo aereo da una stazione della metropolitana vicina al World Trade Center. Quando già la torre sud sembrava un gigantesco vortice di fuoco, ci fu il secondo impatto. "Il crollo è ciò che ha ucciso la gente", affermava disperato Marcus Kergosien, un lavoratore del Midtown. I poliziotti non hanno avuto il tempo di recintare la zona, di evacuare le strade prevedendo un collasso così spaventoso. Tra le macerie non riuscivano neanche a distinguere quali fossero i feriti e quali invece i morti.
Una nube immensa ricopriva tutto e quelli che hanno avuto fortuna camminavano completamente ricoperti di cemento. "Era una nube immensa, quando ci finivi dentro non respiravi più", ricordava lo stesso testimone. Come un maremoto di polvere e vetri. A lui la fortuna ha sorriso. Lavora nel settore finanziario e ieri doveva salire al 44° piano di una delle torri, ad una altezza di 441 metri, per partecipare ad una conferenza. Ma è arrivato in ritardo e i crolli e gli impatti degli aerei lo hanno colto mentre era per strada. "Ma questa è la guerra. È terribile". Questa era la parola più ripetuta ieri a New York. L'agente Bill Faulkner si guardava alle spalle e diceva: "Sono stato in Vietnam ma non ho mai visto niente di simile".
Secondo a "El Paìs" per copie vendute in Spagna, ma forse più visitato tra i siti internet d'informazione in lingua spagnola, "El Mundo", fedele a una linea di giornalismo d'inchiesta, sempre il 12 settembre 2001 pubblica - e ha recentemente riproposto sul proprio sito internet - una testimonianza del giornalista Julio A. Parrado, che è riuscito a superare il perimetro di sicurezza di quello che sarebbe stato poi chiamato 'Ground Zero'. Il racconto, condotto in prima persona, ha anche un titolo degno di un racconto (Una noche en el abismo / Una notte nell'abisso); è fortemente empatico e particolarmente ricco di descrizioni:
Scendo lungo Maiden Lane fino alle porte dell'inferno stesso. Ai lati ci sono camion delle consegne perforati su entrambi i lati, auto della polizia ribaltate e auto accatastate l'una sull'altra. Prima di fare un ultimo passo, guardo l'edificio del Nasdaq, trasformato in un centro di attenzione per le squadre di soccorso. I pompieri corpulenti crollano sulla barella, soffocati. 300 dei loro colleghi giacciono sotto le macerie. L'ufficiale di polizia di New York Luffing, un irlandese con la faccia da ragazzo e le braccia di ferro, non si preoccupa più del fumo. Una sigaretta viene fumata lentamente sopra la vecchia scrivania del Nasdaq, dove un cartello che ripete "FUOCO" lampeggia incessantemente.
Così, come se fosse al bancone di un bar alla fine di una dura giornata, il poliziotto inspira con calma ed espira, riempiendosi di lacrime gli occhi azzurri. Vorrei abbracciarlo, ma qualcuno mi porge un casco di emergenza. Insieme al mio compagno, mi unisco a un gruppo di uomini corpulenti che sembrano boscaioli. Ci sono 20 volontari che oseranno sfuggire alla montagna di acciaio e morte. «Bevete tanta acqua. Siamo sicuri che passeremo ore senza bere», dice loro il caposquadra, mentre indossano giubbotti protettivi, caschi e guanti. Oso seguirli dopo un camion dei pompieri. Fino alla base stessa del mucchio di macerie. I volontari iniziano a scalare la montagna. Sono arrivato fin qui. Incapace di fare il salto finale in quell'abisso nero.
Le tombe di San Paolo e della Chiesa della Trinità assumono improvvisamente tutto il loro significato e la loro cupa logica. I due vecchi cimiteri di Manhattan, al centro del distretto finanziario, erano due angoli pittoreschi e bui, incassati all'ombra delle Torri Gemelle. In questa fitta notte grigia, le due lapidi ottocentesche sembrano persino accoglienti. Dall'altra parte delle sue sbarre, contorta dall'onda d'urto, si stende l'immensa massa di macerie e acciai rotti. Sotto di loro giacciono, senza nome, 1.000, 2.000? 10.000? Nessuno osa ancora mettere un numero. Sono le 10 di sera e, quasi senza volerlo, ho superato tutte le barriere della polizia per raggiungere l'epicentro dell'orrore.
Tra il caotico via vai di autopompe e trattori a pale, nessuno mi nota. Forse perché sembro un morto che cammina. Lo spettacolo è così sconvolgente che inciampo, cercando di indovinare quale nome si nasconde dietro le ceneri, che affari sarebbero in questo angolo, che direzione prendere, insomma.
Sono riuscito ad entrare nel perimetro di massima sicurezza attraverso un tunnel sporco e buio sotto il ponte di Brooklyn. [...] Su un parabrezza qualcuno ha disegnato a mano un "Dio ci salvi!" Ma davanti al municipio il panorama si fa terrificante. Il tappeto di carte si infittisce. Manuali finanziari, copie di e-mail, "Mr. Williams, Oppenheimer Funds", recita un pezzo che è volato a più di un chilometro di distanza, dal 38° piano della Torre Sud al piccolo parco cittadino. La pungente torre gotica del Woolworth Building svanisce nel fumo. Lo storico grattacielo ha perso la sua eleganza e mostra solo i suoi contorni netti e minacciosi.
Accanto a Park Place, acqua, carta e cenere hanno creato distese fangose invalicabili di un colore impossibile. [...] Sullo sfondo, ritagliato dai riflettori della polizia, si scorge un pezzo della facciata della Torre Sud. L'esplosione gli ha conferito una forma stravagante di lame invertite.
Devo guardare due volte finché non mi accorgo di trovarmi davanti al palazzo di Moody's, la potente agenzia che valuta il rischio degli investimenti. Da questo edificio partono resoconti che segnano il destino di aziende e paesi. Eppure sembra che nessuno abbia varcato le sue porte per secoli. Infatti, durante questa passeggiata ho avuto la sensazione di aver attraversato un tunnel del tempo e di tornare in una New York abbandonata dagli esseri umani. Davanti alla statua polverosa di George Washington, sui gradini del Federal Hall National Memorial, mi sento come Charlton Heston nell'ultima scena del Pianeta delle scimmie.
Nonostante il panorama da futurismo catastrofico, questa è purtroppo la nostra solita New York. Le vetrate delle attività commerciali e degli edifici adiacenti alle Torri non esistono. Collezioni di cartoline con tutti i francobolli riconoscibili della Grande Mela fanno capolino da una vetrina rotta. Quelle delle [Torri] Gemelle, ovviamente, occupano un posto di rilievo. La libreria Borders - ricordo di aver comprato lì il mio primo libro appena arrivato in città- è passata alla storia. L'edificio che occupa si piega come una fisarmonica. Questa è un'altra delle tante proprietà colpite a morte che prima o poi finiranno per essere demolite. Difficile pensare che il distretto finanziario possa tornare alla normalità in breve tempo.
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Un tono simile si ritrova nell'articolo di Thomas Fischermann nel n. 38 del settimanale "Die Zeit" in uscita il 13 settembre, Das amerikanische Inferno / L'inferno americano (p. 15, ma prima pagina del dossier Inferno im Amerika):
Qualcosa è diverso. Manca qualcosa. Il vecchio punto di riferimento si erge solitario, l'Empire State Building. Ma manca qualcosa. Quel giorno il cielo è perfettamente azzurro, una tela priva di aeroplani ma anche senza le torri che ne sono state ritagliate. Dove poche ore fa il World Trade Center troneggiava sulla città, argenteo, simbolico, apparentemente invulnerabile, ci sono due moncherini, bianco, nero e marrone, che sputano fumo. Nascondendo tutto, la ferita, le risposte. Il sole splende e riscalda la città. Un giorno di inizio autunno. Martedì 11 settembre 2001.
Puoi sentire l'odore del disastro in Thomas Street. Assaggia le ceneri. Senti la sonnolenza. I poliziotti gridano da dietro le maschere, i loro capelli, le loro ciglia, le loro uniformi, incipriate di cenere. Corrono, gesticolano e lasciano che l'acqua in bottiglia gli versi in bocca. Due abbracci. Dietro di loro i ceppi eruttano come vulcani e la cenere piove silenziosamente sulla città. Lower Manhattan sembra un dipinto cupo. È come se una sinistra profezia si fosse avverata.
Le luci dell'ambulanza lampeggiano. Le motociclette della polizia corrono attraverso le strade transennate verso i ceppi, scortando le auto con il sangue. Un'auto blindata della polizia romba dietro di loro. Da lui escono quattro uomini in mimetica, che trasportano dispositivi elettronici, con cautela, quasi con cautela. Dietro di loro è parcheggiato un fuoristrada con i finestrini oscurati. Gli uomini in abiti scuri con i bottoni nelle orecchie escono. Le radio gracchiano. Sirene ovunque. La città chiede aiuto.
No, non la città, urla tutto il Paese. [...] Una cosa è certa: c'è stato un attacco complesso e coordinato agli Stati Uniti. "Una dichiarazione di guerra contro l'intero mondo civilizzato", come dice il cancelliere tedesco Gerhard Schröder. "Un attacco alla libertà", come pensa il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.
La prima pagina del settimanale raccoglie invece, sotto il titolo in caratteri rossi Krieg gegen die Usa (Guerra agli Stati Uniti) e il sottotitolo Der monströse Massenmord eint die Welt im Widerstand gegen die Internationale des Schreckens (Il mostruoso omicidio di massa unisce il mondo nella resistenza contro l'Internazionale dell'orrore), le colonne Das mammut-Verbrechen. Solidarität mit America (Il gigantesco crimine. Solidarietà con l'America) e Die Zielscheibe: Unsere Zivilisation. Terror total und global (Obiettivo: la nostra civiltà. Terrore totale e globale). La distanza geografica cede il passo al coinvolgimento emotivo suscitato dalla sensazione che l'intero Occidente sia sotto attacco, sollecitando di conseguenza sensibilità culturali e sentimenti identitari che nelle settimane a seguire mobiliteranno l'opinione pubblica e le posizioni politiche.
Ha il sapore di una chiamata ad una presa di consapevolezza anche la chiusa dell'articolo di Klaus-Dieter Frankenberger nella prima pagina del "Frankfurter Allgemeine Zeitung", Ins Herz (Nel cuore): «il terrorismo non è un argomento specialistico per la criminologia o gli scrittori di thriller. Esiste davvero, come mezzo di guerra nel 21. secolo»; sono parole forti, che riecheggiano il titolo di copertina di un altro notissimo settimanale storico tedesco, "Der Spiegel" (Der Terror-Angriff: Krieg im 21. Jahrhundert / L'attacco terroristico: la guerra nel 21. secolo, n. 38 del 2001). Accanto al pezzo di Frankenberger, l'articolo principale è a firma del corrispondente da Washington, Leo Wieland, in una pagina la cui particolare sobrietà non deve trarre in inganno: nonostante l'apparato fotografico consista in sole due immagini a mezza pagina, raffiguranti il fumo che avvolge Manhattan e la contrizione del presidente Bush durante il suo discorso ufficiale, sotto il titolo Angriff auf Amerika (Attacco all'America), la presenza stessa delle immagini è da considerare un fatto fuori dall'ordinario per una testata che fino ad allora, in una cinquantina d'anni di vita, aveva pubblicato foto in prima pagina solo in qualche manciata di occasioni, a sottolinearne l'eccezionalità.
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6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Di molte risorse bibliografiche disponibili per la ricerca di giornali, nel Polo bibliotecario parlamentare e in rete (il Fondo di Giornalismo e media della Biblioteca del Senato, il Catalogo italiano dei periodici ACNP, l'articolo La consultazione dei quotidiani in digitale nel numero scorso ecc.) abbiamo già dato i riferimenti nelle precedenti uscite dello Speciale, qui richiamate nel cappello iniziale. Aggiungiamo di seguito solo un paio di precisazioni.
Alcune delle testate europee cui si è fatto riferimento in questo articolo, oltre ad essere disponibili presso il Polo bibliotecario parlamentare nell'edizione a stampa, sono consultabili anche in formato elettronico tramite specifiche banche dati, sottoscritte dall'Emeroteca del Polo bibliotecario parlamentare e messe a disposizione degli utenti presso le postazioni in sede. Sono, in ordine alfabetico:
· "(The) Guardian": archivio digitale completo, insieme a "The Observer", dalla fondazione al 2003; archivio recente dal 2010 e con embargo di tre mesi;
· "(Le) Monde": edizione in pdf degli ultimi trenta giorni con possibilità di consultare l'archivio in formato testuale a partire dal 1944;
· "(The) Times": archivio digitale completo, dal 1785 fino al 2019.
Le altre testate citate - "(Le) Figaro", "Frankfurter Allgemeine", "(El) Paìs", "(Der) Spiegel", "(Die) Zeit" - sono consultabili, sempre in sede, tramite gli aggregatori Factiva (in formato testuale) e/o PressReader (in formato pdf a colori), con coperture differenziate. L'unica non disponibile presso il Polo bibliotecario parlamentare, "(El) Mundo", consente tuttavia di leggere - come per lo più anche le altre - una selezione di articoli online.
Tutte le banche dati cui abbiamo fatto riferimento, di singole testate o collettive, sono raggiungibili tramite la sezione "Attualità - Quotidiani" della piattaforma Re@lweb del Polo bibliotecario parlamentare.
Segnaliamo infine che tutti i quotidiani e settimanali di cui il Polo bibliotecario parlamentare dispone di una copia a stampa sono riportate nel Catalogo dei giornali (che in questo stesso numero di "MinervaWeb" si presenta nella sua nuova edizione), che aggiunge alle collocazioni della Biblioteca del Senato quelle della Biblioteca della Camera, diventando dunque un punto di riferimento per avere in unico elenco alfabetico, a colpo d'occhio, tutte le opzioni di consultazione delle edizioni cartacee o digitali, tramite banca dati o (sempre più spesso) anche liberamente accessibili in internet.