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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Venti anni di apertura al pubblico della Biblioteca del Senato
n. 71 (Nuova Serie), febbraio 2023

Per una geografia storico-economica. La Russia (Parte quinta: dalla prima alla seconda guerra mondiale)

Abstract

La prima, la seconda, la terza e la quarta parte dell'articolo sono disponibili in "MinervaWeb", n.s., n. 58, agosto 2020; n. 61 di febbraio e n. 65 di ottobre del 2021; e n.70 di novembre 2022.

La partecipazione al primo conflitto mondiale fece emergere la debolezza dell'economia russa, determinando una situazione di estrema difficoltà e in reazione ad essa un malcontento popolare che consentì ai comunisti di prendere il potere. Questi dapprincipio vararono delle riforme radicali, le quali tuttavia depressero ulteriormente le attività produttive. Lenin allora passò a una politica di compromesso, che pur salvaguardando le conquiste sociali della rivoluzione mantenne in essere le fondamentali modalità di funzionamento dell'economia capitalista. Tale politica fu poi abbandonata da Stalin, che per accelerare lo sviluppo industriale impose la collettivizzazione delle campagne e una generalizzata pianificazione delle attività economiche. Sia pure a prezzo di grandi sacrifici per la popolazione, questa politica diede notevoli frutti, consentendo all'URSS di diventare una potenza industriale e di resistere alla Germania nella seconda guerra mondiale. Da questa tuttavia il Paese uscì sì vincitore, ma in condizioni pessime, in ragione delle distruzioni subite.

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1. Dalla guerra alla rivoluzione

2. Dalla rivoluzione al comunismo di guerra

3. La Nuova politica economica

4. La svolta degli anni trenta

5. L'URSS nella seconda guerra mondiale

6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. Dalla guerra alla rivoluzione

· Le condizioni della Russia allo scoppio delle ostilità

Nell'articolo precedente abbiamo visto come la Russia avesse beneficiato, a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, di uno sviluppo industriale abbastanza sostenuto. Secondo Gitermann (1963) tale sviluppo fu all'origine del coinvolgimento del Paese nella prima guerra mondiale, in quanto le consentì di esportare manufatti nel Medio Oriente e quindi la indusse ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti degli imperi austriaco e tedesco, i quali a loro volta stavano tentando di inserirsi in quell'area. Nove (1970) e lo stesso Gitermann (1963) sottolineano però che al 1914 l'industrializzazione della Russia non aveva ancora prodotto risultati tali da portare la sua capacità di dotarsi di armamenti al livello di quella delle grandi potenze europee. Inoltre la Russia giunse alla guerra con una rete stradale e ferroviaria insufficiente in rapporto alle dimensioni del Paese; e questo costituiva un ulteriore fattore di debolezza, in quanto la conduzione delle ostilità avrebbe richiesto la capacità di spostare rapidamente sul territorio truppe, armi e approvvigionamenti alimentari.

· Le conseguenze economiche e politiche del conflitto

Iniziati i combattimenti, questi problemi emersero con grande rapidità. Sempre secondo Gitermann (1963), già alla fine del 1914 si manifestò un'insufficiente disponibilità di materiale bellico, in quanto i nemici avevano occupato la Polonia e la Lituania, dove sorgevano importanti centri di produzione industriale, ed erano riusciti a bloccare quasi del tutto l'afflusso di manufatti e materie prime via mare. A partire dal 1916 cominciò a scarseggiare anche la produzione agricola, facendosi sentire la sottrazione di braccia alle campagne; l'inefficiente gestione degli approvvigionamenti rese questo problema ancora più grave. Il 1916 vide inoltre lo scatenarsi dell'inflazione, dovuto in parte alla penuria di derrate, che si ripercuoteva sui loro prezzi, e in parte - come spiega Forzoni (1991) - alla fortissima crescita del circolante, che deprimeva il valore del rublo. Per finanziare lo sforzo bellico, infatti, il governo dovette fare ampio ricorso all'emissione di nuova moneta.

Attenendoci ancora a quanto scrive Gitermann (1963), possiamo ricondurre la cosiddetta 'Rivoluzione di febbraio' del 1917 proprio al degrado delle condizioni di vita dei ceti popolari: furono infatti le proteste sempre più estese e difficili da reprimere (anche per effetto della loro condivisione da parte dei molti soldati) a indurre lo zar Nicola II all'abdicazione. Dopo questo evento si formò un governo provvisorio retto da oppositori di vario orientamento, che però ben presto divenne a sua volta impopolare, non volendo porre termine alle ostilità e non concedendo la riforma agraria chiesta dai contadini. Il gruppo rivoluzionario guidato da Lenin - i bolscevichi - accrebbe allora i propri consensi, assumendo nelle maggiori città il controllo dei soviet (le assemblee di soldati e lavoratori che vi si erano costituite); e la sera del 24 ottobre (6 novembre del calendario gregoriano, che però in Russia non era ancora in uso) diede vita a un'insurrezione cui arrise un facile successo. Nacque così lo stato poi noto come Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (secondo la denominazione adottata alla fine del 1922), la cui esistenza si sarebbe protratta sino al 1991.

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2. Dalla rivoluzione al comunismo di guerra

· Le difficoltà dell'economia

Il tre marzo 1918 il governo rivoluzionario firmò la pace, accettando ampie perdite territoriali pur di far uscire il Paese dal conflitto. Alla fine della guerra contro i suoi nemici esterni, tuttavia, seguì il divampare di una guerra civile fra il nuovo regime e le forze che lo avversavano, la quale si protrasse sino al 1921. Nove (1970) sottolinea come questo prolungato stato di guerra abbia grandemente nuociuto al Paese, causando distruzioni, una paralisi dei trasporti e del commercio con l'estero e la perdita del controllo su importanti aree industriali e agricole. A queste gravissime difficoltà si aggiunsero poi quelle che scaturirono dalla volontà dei comunisti di instaurare un nuovo sistema politico, avente caratteristiche del tutto inedite. Per queste ragioni, nei primi anni di vita del regime sovietico l'economia subì un fortissimo arretramento. Forzoni (1991), comparando i dati stimati per il 1913 con quelli ipotizzabili - per la verità con ampi margini di oscillazione - per il 1921, parla di un calo di due terzi del reddito nazionale complessivo, di quattro quinti della produzione delle grandi industrie e del 40 % della produzione agricola.

· Le prime riforme

Rifacendoci a Forzoni (1991), Giusti (1975), Nove (1970) e Portal (1972), possiamo riassumere in questi termini le principali trasformazioni che si ebbero all'indomani della presa del potere dei bolscevichi. Le proprietà agricole furono nazionalizzate, concedendone ai coltivatori il diritto di uso e vietando il lavoro salariato. La spartizione delle terre avvenne per iniziativa degli stessi contadini, ragion per cui ogni villaggio seguì criteri diversi; comunque di regola i contadini poveri o del tutto privi di terra se ne avvantaggiarono, mentre molti dei contadini agiati furono privati delle terre che avevano, sebbene alcuni di essi riuscissero invece a ottenere ulteriori suoli. Le industrie furono sottoposte al controllo operaio e in molti casi nazionalizzate. Spesso ciò accadde per iniziativa dei soviet locali, dunque anche in tal caso in assenza di criteri univoci fissati dal governo; sulle loro decisioni pesarono sovente il rifiuto dei proprietari di accettare ordini dai consigli operai o la percezione che fossero in atto dei sabotaggi. La nazionalizzazione interessò pure la massima parte delle proprietà immobiliari, la flotta mercantile, le poche ferrovie private esistenti, il commercio e il sistema bancario. Tali misure, oltre che coerenti con gli obiettivi dei comunisti, furono anche imposte dalle circostanze, in quanto la fuga all'estero di gran parte dell'aristocrazia e dell'alta borghesia aveva lasciato molte attività economiche prive dei loro conduttori.

· La crisi agraria

Una descrizione accurata dei problemi cui andò incontro il settore agricolo è presente in Nove (1970) e in Portal (1972). Stando a tali autori, su di esso pesarono - oltre ai fattori negativi già citati - la frammentazione proprietaria e i conflitti fra contadini ingenerati dalla spartizione dei suoli. Si innescò in tal modo una decrescita della produzione, che il nuovo regime non riuscì a contrastare e neppure a mitigare con efficaci misure di requisizione e razionamento; poté così formarsi un mercato nero, che vedeva i produttori sfruttare la scarsità di cibo per imporre prezzi assai elevati.

Questa situazione indusse gli operai e i contadini più poveri a organizzarsi in formazioni che percorrevano le campagne in cerca di derrate da requisire. I produttori, però, reagirono a queste confische riducendo le semine, in modo da coltivare soltanto il necessario per il proprio fabbisogno. La produzione alimentare subì allora un ulteriore calo, che fece precipitare la Russia nella carestia.

· La crisi industriale

Secondo Nove (1970), la situazione dell'industria fu direttamente influenzata da quella dell'agricoltura, poiché la scarsità e gli alti prezzi degli alimenti spinsero molti operai ad abbandonare le fabbriche per trasferirsi in campagna, provocando la chiusura di interi impianti per mancanza di manodopera. Quelli che continuarono a funzionare, d'altra parte, scontarono le difficoltà che i comitati operai incontravano nell'organizzarne l'attività. A tali difficoltà avrebbe dovuto rimediare lo stato, il quale però riusciva a esercitare un controllo diretto sulle aziende maggiori, ma non sulle migliaia di piccole unità produttive che erano state nazionalizzate assieme alle prime. Un ulteriore colpo alla produttività dell'industria fu assestato dalla decisione di imporre il pagamento dei salari in natura, corrispondendo agli operai parte dei beni da loro prodotti: ciò infatti li obbligava ad assentarsi dal lavoro per dedicarsi ad attività di baratto, dovendo essi utilizzare i manufatti ricevuti per procurarsene altri di cui avevano bisogno e naturalmente anche per ottenere beni alimentari.

· La crisi finanziaria

Sempre secondo Nove (1970) e come scrive altresì Forzoni (1991), il disordine economico e l'inefficienza amministrativa produssero un crollo degli introiti dello stato, contraendosi sia le entrate generate dalle attività di cui esso era divenuto titolare, sia quelle che avrebbero dovuto garantire le imposte ricadenti sulle attività ancora in mani private. La spesa pubblica venne allora finanziata stampando moneta, ma questa politica fece divampare l'inflazione, con conseguente ulteriore rialzo dei prezzi. Il governo reagì a questa nuova difficoltà cercando di limitare il ricorso alla moneta (il che oltretutto era coerente con il suo obiettivo di superare le modalità di funzionamento dell'economia capitalista): rientrò in tale politica la corresponsione in natura dei salari agli operai, la quale peraltro, come si è visto, fu causa a sua volta di problemi. Le conseguenze del deprezzamento del rublo, tuttavia, furono avvertite da moltissimi cittadini, e in particolare dai coltivatori, che furono ulteriormente disincentivati dal vendere le proprie derrate ai prezzi fissati dalle autorità.

· Il comunismo di guerra

Nel corso del 1919 la minaccia rappresentata dai controrivoluzionari si fece particolarmente seria, rendendo necessario risolvere a qualunque prezzo le difficoltà dell'economia. Il governo allora si risolse a porre in essere una sorta di militarizzazione della vita civile, che prese il nome di 'comunismo di guerra'. In questo frangente i lavoratori furono sottoposti a una disciplina ferrea: Forzoni (1991) riferisce che le autorità politiche acquisirono il potere di spostare gli operai da una mansione, da una fabbrica e da una regione all'altra, senza che essi potessero reagire; e che i sindacati furono trasformati in organi di disciplina, comprensivi di tribunali che giudicavano gli assenteisti e gli indisciplinati. Successivamente si praticò il reclutamento forzato dei contadini, per lo svolgimento di servizi di trasporto delle merci e per la gestione dei campi di lavoro cui venivano destinati i nemici del regime. Infine si arrivò a istituire il servizio generale del lavoro, che consentiva di richiedere a qualunque persona in età lavorativa lo svolgimento di incombenze cui occorreva provvedere.

Queste misure di mobilitazione si scontrarono però con la necessità della popolazione di provvedere ai propri bisogni essenziali, scambiando le merci ricevute come salario con altre e recandosi nelle campagne in cerca di cibo. L'assenteismo degli operai andò così accentuandosi, e anche il fenomeno dell'abbandono definitivo delle città assunse sempre maggiore consistenza.

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3. La Nuova politica economica

· L'agricoltura

L'aggravarsi della situazione economica finì per imporre un generale ripensamento della politica governativa, che si sostanziò in una provvisoria rinuncia all'edificazione di una società in cui non fossero più presenti gli scambi di mercato, le figure dell'imprenditore e del salariato, o strumenti quali la moneta e il prestito bancario. Questa svolta diede vita alla Nuova politica economica (detta comunemente NEP). Essa prese il via con dei provvedimenti riguardanti l'agricoltura, ovvero il settore in cui era più urgente intervenire. Scrive Nove (1970) che nel marzo 1921 si abolirono le requisizioni di derrate, sostituendole con un'imposta in natura che gravava assai meno sui produttori. Questi furono inoltre resi liberi di vendere le proprie eccedenze, come pure di estendere le proprie aziende tramite l'affitto e di farvi lavorare dei salariati. Tali misure non diedero dei risultati immediati, poiché il 1921 fu segnato da una siccità che danneggiò i raccolti; ma in seguito riuscirono a determinare l'auspicata ripresa produttiva, a beneficio dei consumi interni e anche delle esportazioni. Questi risultati portarono a nuova crescita della differenziazione sociale interna al mondo rurale, giacché fecero aumentare il numero dei contadini medi e agiati.

Prokopovic (1957) osserva tuttavia che tale ripresa fu segnata da seri limiti. Infatti, se è vero che nel 1926-27 la produzione agricola aveva superato il livello del 1913, è vero pure che nel frattempo la popolazione era cresciuta ancora di più rispetto ad allora, ragion per cui in termini pro capite la prima ancora non era tornata ai livelli prebellici. Di ciò secondo l'autore era responsabile il ridimensionamento subìto dalle aziende in seguito alla redistribuzione delle terre, che ne aveva reso la conduzione meno efficiente. Inoltre a quella data la produzione per il mercato non arrivava neppure alla metà di quella del 1913: un fenomeno che si spiega in parte con la diminuita produttività delle aziende, ma in parte anche con la possibilità che era stata data a molti contadini, sempre grazie alla redistribuzione delle proprietà, di migliorare la propria alimentazione. La rivoluzione aveva dunque portato a un miglioramento della condizione contadina, che però andava a scapito delle possibilità dello stato di procurarsi risorse tramite l'esportazione di derrate e soprattutto delle possibilità di approvvigionamento dei centri urbani.

· L'industria

Altrettanto rilevanti, stando a quanto scrivono Forzoni (1991) e Nove (1970), furono le riforme attuate negli altri ambiti dell'economia. A partire dal maggio 1921 il governo emanò dei decreti che denazionalizzarono quelle piccole industrie che lo stato non era in grado di gestire direttamente. Alcune di esse furono restituite ai vecchi proprietari, mentre altre vennero affittate ad altri imprenditori o a cooperative. Inoltre ogni cittadino fu autorizzato a condurre attività artigianali o ad aprire nuove imprese fino a venti operai.

Le grandi industrie invece rimasero pubbliche; cambiarono però le loro modalità di gestione, in quanto per un verso furono obbligate a reperire sul mercato le risorse di cui necessitavano per il pagamento di materie prime e salari, e per l'altro ottennero la possibilità di gestire in autonomia i propri acquisti e il commercio dei prodotti finali. Furono inoltre ricercati accordi con imprese straniere, finalizzati alla creazione di impianti moderni; ma questa iniziativa diede pochi frutti, forse perché gli imprenditori occidentali temevano un successivo ritorno a una politica di confische.

Gli operai da tali riforme ricavarono la fine del lavoro forzato e del pagamento dei salari in natura; d'altra parte si ritrovarono esposti a maggiori rischi di rimanere senza lavoro, in quanto alle aziende fu restituita una certa libertà di assumere e licenziare.

Anche in ambito industriale la NEP suscitò una ripresa produttiva, meno intensa di quella agricola, ma che comunque nel corso del decennio valse a riavvicinare i livelli di attività di molti settori a quelli del 1913. Va detto peraltro che tale ritrovato sviluppo si fondò essenzialmente sulla riattivazione di impianti già esistenti, dunque senza l'effettuazione di grossi investimenti e senza l'introduzione di migliorie tecnologiche. Inoltre la disoccupazione operaia rimase elevata, malgrado la cospicua emigrazione di lavoratori verso le campagne verificatasi nella fase precedente.

· Il commercio e la finanza

Anche il commercio interno - prima quello al minuto e poi quello all'ingrosso - subì un'ampia liberalizzazione, che nella prima metà del decennio consentì alle attività dei privati di svilupparsi notevolmente; nel contempo però si ebbe una sua perdita di peso in termini percentuali, in quanto quelle gestite dal governo andarono crescendo in misura ancora maggiore, grazie al miglioramento della rete distributiva statale. Il commercio estero, invece, rimase sempre nelle mani dello stato, il quale comunque si adoperò perché anch'esso si sviluppasse. A partire dal 1922 dei trattati commerciali consentirono il ripristino dei rapporti con gli altri paesi; per mezzo di essi si puntò a migliorare le condizioni di vita della popolazione, rendendo disponibili beni di consumo, ma anche ad ottenere attrezzature industriali, elettriche e ferroviarie necessarie per la ricostruzione. Anche tale politica diede dei buoni frutti: ad esempio, grazie all'importazione di materiale rotabile nel 1926-27 il traffico ferroviario aveva ormai superato per intensità quello dell'anteguerra. Questi trattati consentirono pure una crescita delle esportazioni, per quanto vada sottolineato come il loro valore nel 1924-25 fosse ancora poco più di un terzo di quello del 1913.

Alla fine del 1921 fu istituita la Gosbank (banca statale), la quale col tempo avrebbe assunto tutte le funzioni di una banca centrale, ma cui in principio fu conferito soprattutto il mandato di sostenere la crescita economica tramite l'erogazione di crediti. L'anno successivo vennero creati degli altri istituti, anch'essi deputati a sostenere, coi propri prestiti, l'espansione dell'industria e la modernizzazione dell'agricoltura. Sempre in ambito finanziario va rilevata l'adozione nel 1922 di un nuovo rublo, il cui valore venne fissato pari a 10.000 dei vecchi, e nel 1923 di un'altra nuova moneta dal valore ancora maggiore e soprattutto più stabile, perché ancorato a quello dell'oro. Si rimediò in tal modo alla svalutazione che aveva subito la valuta nazionale. Per evitare il risorgere dell'inflazione occorreva però limitare l'emissione di nuova cartamoneta e dunque garantire alle finanze pubbliche nuove entrate. Tale obiettivo venne perseguito tramite l'introduzione di nuove imposte sui consumi e il varo di un prestito nazionale.

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4. La svolta degli anni trenta

· La collettivizzazione delle campagne

La morte di Lenin, avvenuta nel 1924, fu seguita dal consolidamento della posizione di Stalin ai vertici del partito e dello stato sovietico. La linea politica da lui imposta si sostanziò nell'abbandono della NEP in favore di una rinnovata sottoposizione dell'economia al controllo governativo, che venne perseguita restituendo alle autorità il pieno controllo del commercio interno - una svolta che secondo Nove (1970) maturò già dopo il 1925 - e innovando in profondità le strutture produttive agricole e industriali, secondo modalità che si delinearono dalla fine del decennio in avanti.

In ambito agricolo, la volontà di un cambio di direzione si manifestò nel 1928, un anno che per ragioni climatiche fu segnato da cattivi raccolti. Come spiegano Nove (1970) e Prokopovic (1957), a risentire della situazione furono soprattutto le città, dove il cibo non soltanto scarseggiava, ma era anche divenuto assai caro, malgrado la regolamentazione dei prezzi praticata dalle autorità: difatti i contadini non volevano rinunciare alle opportunità di guadagno offerte loro dalla penuria alimentare e davano vita a un mercato nero delle derrate. Il governo tuttavia non poteva venire loro incontro alzando i prezzi, in quanto per favorire l'industrializzazione doveva garantire l'economicità degli approvvigionamenti ai centri urbani; esso pertanto affrontò il problema tornando alla politica delle requisizioni. Questa tuttavia rischiava di indurre i coltivatori, come in passato, a ridurre la produzione. Stalin puntò allora alla costituzione di grandi aziende agricole statali (i kolkhoz), la quale avrebbe consentito al governo di gestire in forma diretta la produzione agricola e la sua distribuzione, e dunque di assicurarsi le derrate necessarie per sostentare la forza lavoro urbana e anche per generare, tramite la loro esportazione, dei flussi finanziari in entrata (pure funzionali, come si vedrà, al processo di industrializzazione). Inoltre la gestione statale avrebbe reso possibili investimenti non alla portata dei piccoli proprietari, e quindi incrementi delle superfici coltivate e delle rese che avrebbero consentito di elevare la produzione stessa.

In realtà i kolkhoz, pur inglobando anche terre di nuova messa a coltura, furono costituiti in massima parte tramite la collettivizzazione delle proprietà individuali, le quali nell'arco di un decennio sostanzialmente scomparvero. Essa venne condotta generalmente contro la volontà dei coltivatori, che furono spinti a entrare nelle nuove aziende - o ad abbandonarle per trasferirsi in città - per sottrarsi alle imposte e alle requisizioni che altrimenti dovevano subire. Nei confronti dei kulaki, ossia dei contadini più agiati, il regime tuttavia agì in maniera ancora più decisa: considerati per loro natura una classe ostile, questi vennero espropriati di tutti i loro beni ed espulsi dai villaggi, quando non addirittura deportati in Siberia.

In principio l'organizzazione dei kolkoz fu molto inefficiente, perché demandata a funzionari di partito ignari di questioni agrarie e perché non fu possibile dotarli in tempi rapidi di trattori e altri mezzi meccanici. Nel frattempo però era stato avviato lo sviluppo della grande industria, ragion per cui la necessità del governo di disporre di risorse agricole si stava ulteriormente acuendo. Esso impose allora la consegna di quote molte elevate della produzione, e ai tentativi dei contadini di imboscarla reagì ancora una volta effettuando delle requisizioni. Le campagne andarono così incontro a una grave carestia, che investì in particolar modo l'Ucraina e le altre regioni meridionali del Paese.

Dopo il 1933, che fu l'anno di crisi più acuta, la produzione cominciò a riprendersi. Nel corso del decennio quella di derrate arrivò a superare i livelli antecedenti la creazione dei kolkoz, malgrado la forza lavoro agricola fosse sensibilmente diminuita, per effetto dell'urbanizzazione di molti contadini: almeno in tale ambito l'obiettivo della crescita della produttività venne dunque effettivamente conseguito. Tuttavia alla fine degli anni trenta il patrimonio zootecnico risultava depauperato rispetto ai tempi della NEP: ciò perché all'inizio del decennio i contadini, per far fronte alle esazioni statali di grano, avevano dovuto espandere l'area destinata alla cerealicoltura a scapito di quella riservata ai foraggi, e l'allevamento ne aveva risentito in una misura tale che ancora non era stato possibile recuperare del tutto il danno prodottosi all'epoca.

Il governo aveva intanto rinunciato a imporsi ai contadini esclusivamente tramite la coercizione: infatti era stato concesso loro di detenere all'interno dei kolkoz dei piccoli appezzamenti e dei capi di bestiame, e di vendere liberamente quantomeno parte dei prodotti che ne ricavavano.

· Lo sviluppo dell'industria

Alla fine degli anni venti la speranza che la rivoluzione si diffondesse nel resto d'Europa era ormai tramontata. L'URSS pareva dunque destinata a rimanere circondata da un mondo capitalistico ostile, col rischio quindi di dover subire, e in tempi brevi, un'aggressione da parte di esso. Fu questo timore, sostiene tra gli altri Davies (1992), a indurre Stalin a perseguire una rapida industrializzazione, da attuarsi prioritariamente nei settori estrattivo, energetico, chimico, siderurgico e meccanico: il Paese doveva raggiungere il grado di sviluppo industriale delle nazioni europee avanzate, in modo da poter opporre a queste ultime un esercito altrettanto bene armato.

Il compito di sviluppare l'industria venne affidato allo stato, che avrebbe operato tramite una capillare pianificazione dall'alto delle iniziative da condurre e che di queste sarebbe stato anche l'effettivo realizzatore. Sempre secondo Davies (1992), i primi piani quinquennali - relativi ai periodi 1928-32 e 1933-37 - contenevano degli obiettivi talmente ottimistici da essere irrealizzabili, ragion per cui in rapporto ad essi i risultati raggiunti possono apparire modesti; ma in realtà i progressi ottenuti in quegli anni, valutati in termini assoluti, furono notevolissimi. In particolare, vennero ampliati e modernizzati molti degli impianti siderurgici e metallurgici esistenti, e accanto ad essi ne sorsero di nuovi; grande impulso ricevettero anche la produzione di energia elettrica e l'estrazione di risorse energetiche, funzionali ad alimentare le attività industriali.

Per realizzare questo imponente sviluppo il regime dovette affrontare diversi problemi, dei quali danno conto Prokopovic (1957) e lo stesso Davies (1992). Per cominciare, lo sviluppo della produzione di beni manifatturieri richiedeva a monte una crescita della disponibilità di materie prime. Furono pertanto condotte numerose ricerche minerarie nelle regioni più settentrionali e orientali del Paese, cui seguì la creazione di nuovi impianti estrattivi. La creazione di un apparato industriale non soltanto più esteso, ma anche più moderno, imponeva poi di dotare le imprese di attrezzature tecnologicamente avanzate, le quali andavano importate da paesi più progrediti. Si rese allora necessario accrescere le esportazioni di materie prime, in modo da compensare il flusso di risorse in uscita dal Paese determinato da tali acquisti. Ciò comportò il sacrificio dei settori il cui sviluppo non era reputato prioritario: in particolare il tessile conobbe in quegli anni addirittura un regresso, in quanto i pianificatori limitarono l'assegnazione di fibre tessili alle imprese locali, per massimizzarne la vendita all'estero. Anche il consumo interno di beni alimentari fu sacrificato per accrescerne l'esportazione.

Sussisteva inoltre un più generale problema di finanziamento di quest'opera di industrializzazione. Non volendo chiedere l'intervento di imprenditori e finanzieri stranieri (che avrebbe determinato la ricostituzione di una grande industria privata), il regime si risolse a imporre sacrifici ai contadini, gravandoli di imposte, mantenendo bassi i prezzi delle derrate (in modo da poter contenere le retribuzioni operaie) e fissando a livelli elevati quelli dei manufatti (al fine di favorire in qualche misura anche l'autofinanziamento delle imprese).

Ancora, occorreva rimediare alla scarsità di ingegneri e di tecnici - acuita dal fatto che molti di essi venivano destinati alle attività di pianificazione anziché alla gestione delle singole aziende - e al basso livello professionale della classe operaia (costituita in notevole misura da contadini da poco inurbati), che risultavano incompatibili con l'adozione di tecnologie avanzate. Stando ai due autori già citati e a Giusti (1975), nell'immediato ci si affidò all'ingaggio di personale straniero, agevolato dalla crisi economica in atto nei paesi capitalisti, puntando però nel contempo a formare nuovi quadri tramite la promozione dell'insegnamento tecnico. L'URSS continuò tuttavia a padroneggiare con difficoltà i nuovi strumenti di cui si stava dotando, come testimoniano la persistente cattiva qualità dei suoi manufatti e l'elevata percentuale di scarti generata dai processi produttivi. Ciò è spiegabile in parte con l'atteggiamento assunto dai pianificatori (che ponevano l'accento soprattutto sulla crescita quantitativa della produzione e sull'abbattimento dei costi) e in parte col coinvolgimento di questi nuovi quadri tecnici nelle purghe staliniane della seconda metà degli anni trenta, che ne depauperarono i ranghi appena infoltitisi.

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5. L'URSS nella seconda guerra mondiale

Sia pure al prezzo di enormi sacrifici, l'Unione Sovietica era dunque notevolmente progredita. I risultati conseguiti tramite i due primi piani quinquennali furono però parzialmente vanificati dall'invasione tedesca del 1941. Rifacendoci nuovamente a Nove (1970) e a Prokopovic (1957), possiamo sintetizzare in questi termini i danni che ne derivarono. Nei territori occupati furono annientati interi villaggi, il bestiame fu requisito e le attrezzature agricole distrutte, così come gravi danneggiamenti subirono le industrie e le infrastrutture. Nel contempo, la parte rimanente del Paese dovette fare i conti con la perdita di territori dai quali provenivano quote rilevanti della produzione nazionale di grano, di carbone e petrolio, di acciaio e alluminio. Inoltre si ebbero un collasso dei trasporti e una grave diminuzione, indotta dagli arruolamenti, della disponibilità di manodopera qualificata.

Il governo reagì all'avanzata tedesca spostando a Oriente riserve di derrate e di combustibili, allevamenti e interi impianti industriali. Questi dovevano essere smontati, trasferiti, rimontati e rimessi in attività nel più breve tempo possibile. Nel medesimo tempo la produzione andava riconvertita, destinando ogni risorsa materiale e umana allo sforzo bellico. Si trattava di un'impresa titanica, cui tuttavia arrise un notevole successo. Certamente fu d'aiuto il fatto che il Paese avesse alle spalle già un decennio di pianificazione centralizzata.

Si pose anche il problema del finanziamento del conflitto. Questo fu risolto imponendo ancora una volta dei sacrifici agli agricoltori, che videro aggravarsi gli oneri fiscali ricadenti sulle loro attività. Crebbero anche le imposte sui redditi, e furono promossi dei prestiti nazionali. Come negli altri paesi in guerra, si fece anche ricorso alla stampa di nuova moneta: all'epoca la circolazione aumentò di quasi quattro volte.

Alla fine il conflitto fu vinto, ma la Russia ne uscì in condizioni disastrose. Direttamente o indirettamente, la guerra aveva provocato un numero enorme di vittime (forse addirittura 20 milioni). Quasi metà delle abitazioni urbane era andata distrutta e la stessa sorte avevano subito, in gran numero, macchinari agricoli, fabbriche, infrastrutture e linee ferroviarie. Buona parte del bestiame dei territori che avevano subito l'occupazione non esisteva più e il raccolto di cereali del 1945 fu pari al 56% di quello del 1940. Al popolo russo non rimaneva che affrontare gli ulteriori sacrifici che la ricostruzione avrebbe loro imposto. Questa sarebbe stata diretta dal governo affidandosi ancora alla logica di piano, in un contesto - quello della guerra fredda - destinato ad essere segnato da nuove tensioni internazionali, generatrici per il regime comunista di ulteriori sfide e pericoli.

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6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Per una geografia storico-economica. La Russia (quinta parte). Percorso bibliografico nelle collezioni della biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.

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