A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
La società senza dolore / Byung-Chul Han
Byung-Chul Han è un filosofo sudcoreano, naturalizzato tedesco. Nato a Seoul nel 1959, ha conseguito il dottorato in Filosofia all'Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe, per poi diventare docente di Filosofia e Studi culturali presso la Universität der Künste di Berlino.
Nel 2020 viene pubblicato in Germania un suo saggio di meno di un centinaio di pagine, Palliativgesellschaft Schmerz heute, tradotto in italiano l'anno seguente da Simone Aglan-Buttazzi, per Einaudi, col titolo La società senza dolore. Il pamphlet si inserisce coerentemente all'interno del percorso intellettuale che il filosofo aveva intrapreso un decennio prima, quando, con La società della stanchezza (trad. di Federica Buongiorno. Roma, Nottetempo, 2012), avviava una critica all'odierna società capitalista e neoliberista.
La società senza dolore affronta il tema del rapporto assai problematico che il mondo contemporaneo intrattiene con il dolore. La dissertazione è organizzata in 11 brevi capitoli che declinano l'argomento in vari ambiti, fermo restando l'assunto di fondo, ovvero la connessione tra il modo in cui il dolore (non) viene vissuto oggi e il neoliberismo.
Per Byung-Chul Han il rapporto che abbiamo con la sofferenza rivela molto della società in cui viviamo («Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei!» è il motto di Ernst Jünger che apre il libro), per cui, per impostare una critica della società è necessario effettuare un'ermeneutica del dolore. Per quanto riguarda il mondo odierno, il filosofo individua nell''algofobia' la cifra di questo rapporto. L'algofobia, quale terrore generalizzato della sofferenza, ha come conseguenza un'anestesia permanente; si evita qualsiasi circostanza dolorosa, a qualsiasi livello: dai portali d'incontro che si affidano a slogan pubblicitari del tipo «È possibile essere innamorati senza soffrire», perché pure le pene d'amore sono diventate sospette, alla spinta al conformismo e al consenso in ambito politico, che producono una democrazia palliativa che indietreggia davanti alla necessità di passaggi dolorosi.
La società che ne viene fuori è votata alla positività:
Noi viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo. Il dolore è la negatività per antonomasia. [...] L'ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione. [...] L'allenamento della resilienza in quanto palestra dell'anima ha il compito di modellare l'essere umano nella forma di un soggetto di prestazione il più possibile estraneo al dolore, e sempre felice. (p. 6)
Nulla deve fare male. Ci si scorda, però, che il dolore purifica, ha un effetto catartico e acuisce la percezione di sé: «Dobbiamo al dolore anche il senso dell'esistenza. Se scompare del tutto, si cerca un sostituto. Il dolore prodotto artificialmente offre un rimedio. Gli sport estremi e i comportamenti a rischio sono tentativi di sincerarsi della propria stessa esistenza» (pp. 41-42).
La paura del dolore è così pervasiva da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non affrontare fratture dolorose. L'attuale pandemia, argomenta Han, è proprio il sintomo del rifiuto collettivo della nostra fragilità. Quelle sulla trattazione del virus sono le pagine del saggio che potrebbero risultare più controverse, per la loro attualità e la radicalità dell'autore nello schierarsi contro gli approcci più diffusi. Secondo Han, il virus fa breccia in quell'area di benessere palliativo nel quale viviamo e la trasforma in una quarantena in cui la vita s'irrigidisce diventando mera sopravvivenza, e più la vita è sopravvivenza più l'algofobia diventa tanatofobia. Si perde così il senso della buona vita, la quale si sacrifica sull'altare della nuda vita, e si radicano, senza che vengano neppure problematizzate, tendenze significative quali l'isteria della sopravvivenza e la sorveglianza biopolitica.
Va considerato che, per quanto la lettura di questa sezione del libro, allo stato attuale, possa suscitare stati d'animo contrastanti, far pendere l'ago della bilancia verso un atteggiamento indignato limiterebbe l'utilizzo che il lettore può fare dell'analisi di Byung-Chul Han, un uso volto a mettere in discussione le narrazioni sul tema del dolore e le criticità dello spazio pubblico e privato che abitiamo.
Il saggio è ricco di riferimenti culturali. Il testo-guida di Han è lo scritto di Jünger, Sul dolore (in Foglie e pietre, trad. a cura di Flavio Cuniberto. Milano, Adelphi, 1997), ma costanti sono i riferimenti anche a Heidegger e Nietzsche. La trattazione accoglie, inoltre, motivi letterari atti a dimostrare come l'essere umano abbia smarrito «uno spazio protettivo di natura narrativa e con esso anche la possibilità di un dolore simbolicamente attrezzato» (p. 25). A tal proposito, l'autore propone un raffronto tra Monsieur Teste, personaggio dell'omonimo romanzo di Paul Valéry, e Teresa d'Avila. Il primo tace davanti al dolore: laddove esso inizia, s'interrompe la frase, tale è l'impossibilità di raccontarlo; solo i puntini di sospensione rimandano alla sua presenza. La mistica cristiana invece è quanto mai eloquente dinanzi alla sofferenza.
In altre parole, mentre le pagine scritte da Teresa d'Avila rimandano a un universo concettuale, quale quello cristiano, all'interno del quale il dolore ha un significato profondo perché consente di avvicinarsi a Dio in modo intimo e intenso, di contro Monsieur Teste anticipa l'essere umano ipersensibile della modernità.
La società senza dolore è un saggio che non può lasciare indifferenti, ma che è fonte continua di riflessione, proponendoci il dolore - elemento percettivo che abbiamo smarrito - quale strumento per aprirci a un altro modo di vedere noi stessi e il mondo nel quale viviamo.