A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
"Il libro e il mercato editoriale", intervento di Giuseppe Laterza
Abstract
Il calo dei lettori è legato alla crisi economica ma anche al disinteresse da parte della classe politica ad investire in formazione e cultura, trascurando il dato che una società ignorante non può rimanere ricca a lungo. Le grandi fusioni editoriali sono un rischio non tanto per la libertà dei lettori quanto per il sistema delle librerie indipendenti prima ancora che per i piccoli editori. E' positiva l'innovazione tecnologica in editoria ma più importante sarebbe una rivoluzione del pensiero, che scaturisse dalla crisi economica, per ripensare la società e l'economia: i libri ne sarebbero il giusto strumento.
Nel nostro "Speciale" del 2016, dedicato ai seminari della Biblioteca, promossi dal Sen. Zavoli, Presidente della Commissione per la Biblioteca e l'Archivio Storico, sul tema del libro e della lettura, torniamo nella presente puntata alla sessione del 23 ottobre 2015, intitolata a "Il libro e il mercato editoriale: nuove forme e nuove strategie". Dopo averne riportato l'intervento introduttivo di Giovanni Solimine nel numero di aprile di MW, ospitiamo ora l'intervento di uno degli editori che hanno preso parte all'incontro, Giuseppe Laterza. Il testo è stato rivisto dall'autore.
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Ringrazio il Senatore Romano e il Presidente Zavoli di questa occasione di riflessione. Il tema proposto è molto ampio e quindi di necessità in dieci minuti potrò dire cose molto generali.
Parto dalle cose interessanti che ha detto Giovanni Solimine.
Il dato del calo della lettura è certamente preoccupante. Non dimentichiamoci però del balzo in avanti gigantesco che ha fatto questo Paese dopo la guerra, in condizioni di arretratezza relativa ancor maggiore rispetto agli altri paesi europei.
La riduzione dei lettori acquirenti ha certamente a che fare con la crisi economica che attraversiamo. Ma se il nostro paese ha affrontato con maggiore debolezza la crisi lo si deve anche alla scarsa attitudine delle nostre classi dirigenti - non solo quelle politiche, anche quelle economiche - a investire in formazione e ricerca. Sono cose ampiamente note e rinvio a un ottimo libro del Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, che si intitola Investire in conoscenza. Questo libro spiega molto bene le ragioni di questo fenomeno, che ha determinato un caso abbastanza unico in Occidente, e cioè in Italia non c'è più una correlazione positiva tra il grado di formazione e il successo economico. E questo la gente lo sa e si comporta di conseguenza. La nostra classe dirigente sembra assai poco interessata alla conoscenza, almeno intesa in senso lato. E non mi riferisco solo agli aspetti più eclatanti - le interviste delle "Iene" ai parlamentari che ignorano la data dell'unità d'Italia. Penso piuttosto alla retorica che, ad esempio, la televisione ci riporta ogni giorno, una retorica non direi solo anti-intellettualistica, ma più generalmente anticulturale. La cultura è un di più o meglio, per essere più precisi, quel tipo di cultura che si trasmette attraverso i libri è un di più, è un lusso, un optional non indispensabile per aver successo o anche semplicemente fare una buona vita.
Tanti autori e ricercatori, tra cui Tullio De Mauro, ci hanno spiegato che la cultura non è altro che una risposta a bisogni storicamente determinati. Anche Totò Riina ha una sua cultura nonostante parli un italiano stentato: ha quel tipo di cultura che la sua organizzazione gli richiede, la sua cultura risponde a un certo bisogno. Il tema quindi è, se parliamo di futuro della lettura: quali saranno i bisogni del futuro di questo Paese? Saranno bisogni articolati, complessi? Oppure no? Non è detto che lo saranno, nessuno ce lo garantisce. Se il libro rimarrà uno strumento di conoscenza essenziale per muoversi nel mondo dipenderà da questo. Certo dipenderà anche da fattori assai più semplici e concreti, ad esempio da quanto la classe dirigente investirà nel Centro della promozione della lettura. Qui ho vicino Gianni Ferrari che ne è stato Presidente e che ha detto tante volte che l'investimento fatto dai nostri governanti nel Centro della promozione della lettura è ridicolo rispetto ad altri Paesi, ad esempio la Francia. Allora: non è che l'investimento sia tutto, per carità: uno può fare un grande investimento e sprecarlo, lo sappiamo bene in questo Paese. Però, certamente quando un organismo ha una risorsa così limitata, questo vuol dire qualcosa. Quindi il primo segno, io credo importante, è quello di una consapevolezza maggiore della famosa frase che disse - credo - Romano Prodi: "si può rimanere ignoranti e ricchi per una generazione" [n.d.r.: nell'autobiografia scritta con la moglie].
Ci è stato chiesto di parlare del futuro del mercato: io credo che qui il punto fondamentale da discutere è quello a cui accennava il presidente Grasso quando ha parlato di diversità. Quali sono le condizioni per la bibliodiversità, cioè per quello che nei manuali di economia si dice quando si definisce il mercato perfetto: nessun concorrente deve essere in grado di fissare il prezzo, quindi devono essere tutti abbastanza piccoli. Perché? Perché per il consumatore questo crea le condizioni migliori di scelta, di diversità di prodotti e di prezzi migliori possibili. Questa è una condizione della libertà, anche se certo non è LA libertà, perché può esistere un mercato molto concentrato e libero. Grandi editori che possiedono il 90% del mercato possono pubblicare bellissimi libri. Quindi, intendiamoci, è come una corsa, come il tema del conflitto di interessi: uno può partire in una corsa con una zavorra al piede e vincere ugualmente, ma questo non vuol dire che sia giusto zavorrare alcuni. Detto questo, il problema italiano della concentrazione si pone in questi giorni, come è stato ricordato da Solimine, in maniera molto grave: se l'Antitrust non blocca, cosa che io auspico, la fusione e l'acquisizione di Rizzoli da parte di Mondadori, dobbiamo sapere, dovete sapere, che questo gruppo arriverà ad avere una quota di mercato - a seconda che ci siano ancora Adelphi o Bompiani - del 35, 36, 37%. Nessun editore al mondo, nel suo mercato di riferimento di lingua, ha quella quota, ed è risibile l'argomento di Marina Berlusconi (in una intervista sul Corriere) che dice: "Ma noi siamo il 37° nella graduatoria". Certo che Mondadori è il 37° nella graduatoria mondiale delle dimensioni, ma quello che conta è il mercato della lingua, non il mercato globale: una cosa è fare automobili che io esporto negli altri paesi, un'altra cosa è fare libri in una determinata lingua. Nel mercato della lingua italiana ci sarà un gruppo che avrà 3 volte le dimensioni del suo più diretto concorrente, il che dal punto di vista delle condizioni di competizione è molto importante. Una cosa è avere il 26% e il secondo al 20%, un'altra cosa è avere il 35% ed il secondo al 10%, come GeMS. Questo cosa vorrà dire? Le conseguenze, prima ancora che per gli editori, io credo, ci saranno per il sistema delle librerie: quando un editore che controlla la gran parte dei classici, pensate ai classici in edizione tascabile, va da un libraio e gli dice "se tu non mi dai quello che ti chiedo io non ti do i classici", non so che possibilità avrà quel libraio, di non riempire la sua libreria con i libri di quell'editore, lasciando editori medi o piccoli in una posizione marginale. La promozione delle librerie per un editore medio-piccolo è fondamentale ancor più che per l'editore grande, che può per esempio fare campagne promozionali e pubblicitarie che un piccolo non può fare. In Italia ancora c'è una quota di librai indipendenti abbastanza rilevante, ancorché in calo, quasi sparita in America, anche se adesso riprende (ma siamo al 2-3%) e soprattutto c'è un soggetto che è Amazon (che, come è stato detto, non rende pubblici i propri dati, cosa gravissima) che certo non è un editore puro nei termini che diceva Solimine, perché è uno che ha la gran parte dei suoi interessi fuori dal libro. E quindi voglio dire la fusione Mondadori e Rizzoli è una operazione preoccupante prima ancora che per un editore per un acquirente o un consumatore di libri, a prescindere da un giudizio sulla qualità dei libri pubblicati da Mondadori.
Ultimo punto: l'innovazione su cui ci sollecitava a intervenire Solimine. Io credo che questo sia fondamentale, e qui dico solo una cosa. Noi parliamo spesso e giustamente di innovazione tecnologica. Laterza ha aperto da tre mesi un sito che si chiama Lea (Libri e Altro), dove rende i propri libri accessibili in streaming: cioè in abbonamento come Spotify, con 500 libri del catalogo e 2-3 novità al mese, con la speranza che si crei una comunità di lettori che interagisce. Questo perché pensiamo che l'innovazione tecnologica sia fondamentale. Però credo che ancora più importante sia l'innovazione delle idee. Da questo punto di vista non sono molto contento di quello che Laterza e in generale il sistema editoriale non solo italiano ha fatto negli ultimi anni. Dico solo questo: noi attraversiamo una crisi economica fortissima, che ha rimesso in questione anche stili di vita. Mi diceva prima Gianni Ferrari che Mondadori non ha preso un grande stand a Francoforte, come faceva in passato, è andato in un altro padiglione perché doveva risparmiare. Questo mi ha molto colpito perché fino all'anno scorso Mondadori prendeva un grande stand non solo per un problema funzionale o economico ma anche per un problema di rappresentazione della sua forza. Il fatto che Mondadori ritenga che in questi tempi non sia un danno alla sua immagine prendere un piccolo stand, ha a che fare con gli stili di vita, non è solo una questione economica. Su questo però non ho l'impressione che nei libri si sia formata fino ad oggi una massa critica di pensiero - certamente singoli libri ci sono - tale per cui si è ribaltato un modo corrente di pensare, diciamo un'ideologia, che ha sostenuto la crescita economica negli ultimi vent'anni. La crisi economica non ha, mi sembra, ancora prodotto una rivoluzione del pensiero, e io credo che invece ce ne sia bisogno. Credo ci sia bisogno oggi di un lavoro di lungo periodo, quindi fatto attraverso i libri, i libri sono lo strumento giusto, come quello che è stato fatto da Keynes nell'economia ma anche da tanti autori italiani, per ripensare alla società e all'economia, e quindi credo che l'innovazione sia effettivamente il compito più difficile degli editori. L'indipendenza di cui parlava il senatore Romano credo sia soprattutto questa: l'indipendenza del pensiero. C'è un rapporto con l'assetto economico? Credo di sì. Credo che un errore che noi spesso facciamo nei nostri discorsi sia separare la dimensione economica da quella culturale e ideale. È un rapporto complicato, non meccanico, non automatico, ma esiste. Diciamo: "Fare l'editore bene vuol dire anche fare l'editore coi conti a posto". Conti a posto vuol dire non necessariamente grandi guadagni, ma le minime condizioni per fare impresa. Questa io penso che sia l'innovazione più difficile, l'innovazione delle idee. Sono fiducioso che in Italia abbiamo gli strumenti per produrre questa innovazione.