A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
L'imperio di Federico De Roberto
Abstract
Nato 160 anni fa Federico De Roberto ci ha lasciato molteplici scritti: novelle, interventi critici e di teoria letteraria, romanzi e opere teatrali, che poca fortuna ebbero presso i suoi contemporanei. Diversi decenni passarono dalla sua morte prima che la critica rivisitasse la sua opera, sebbene apprezzamenti ed echi derobertiani si possano riscontrare negli scrittori siciliani della sua epoca e di quelle successive, da Pirandello a Sciascia, fino a Brancati e Consolo.
Dopo una nota biografica inquadreremo il romanzo, mai terminato e pubblicato postumo, L'imperio, nella stagione del romanzo di ambiente parlamentare, proponendone, come ormai consuetudine in questa rubrica, alcuni passaggi.
Scarica l'articolo e la relativa bibliografia in versione pdf
2. L'imperio, romanzo parlamentare incompiuto
4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
************************
Federico De Roberto nasce il 16 gennaio 1861 a Napoli: il padre è ufficiale dell'esercito borbonico, la madre, Marianna degli Asmundo, proviene da una famiglia catanese di antica nobiltà.
Nel 1870, morto il padre in un incidente, si trasferisce con la madre a Catania: il giovane De Roberto si diploma all'istituto tecnico e si iscrive al corso di Scienze fisiche, matematiche e naturali dell'Università di Catania, ma, al terzo anno, interrompe la frequenza per dedicarsi interamente agli studi classici. Incline alla scrittura, dal 1879 pubblica i primi articoli, principalmente corrispondenze dall'isola, su riviste fiorentine ("La rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti", "La Rivista Europea") e milanesi ("L'Esploratore") e nel 1881 è condirettore del settimanale catanese "Don Chisciotte", occupandosi primariamente di letteratura: stringe in questo periodo amicizie letterarie che dureranno per la vita, con Luigi Capuana e Giovanni Verga, innanzitutto. Esordisce nell'ambiente letterario dell'epoca curando il volumetto Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato da Giannotta a Catania nel 1881 e firmando l'avvertimento al lettore, che non piacque al poeta bolognese tanto da indurlo a non includerlo nelle edizioni successive (in merito alla polemica si veda Giosue Carducci, Rapisardiana, in Confessioni e battaglie, vol. 1, pp. 319-348).
Dal 1882 è corrispondente da Catania del "Fanfulla" di Roma; nel 1883 pubblica Arabeschi (Catania, Giannotta), che raccoglie recensioni e interventi di teoria letteraria, e dall'anno successivo inizia a collaborare con il "Fanfulla della Domenica", su cui pubblica, a partire dal 1887, alcune delle novelle che faranno poi parte dei Documenti umani (Milano, Treves, 1888).
A cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta è a Milano, introdotto da Verga nell'ambiente letterario degli Scapigliati: frequenta con Verga e Capuana, Arrigo Boito, Marco Praga, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana. Stringe inoltre amicizia con Luigi Albertini, caporedattore e poi direttore del "Corriere della sera", con cui collabora a partire dal 1896.
Progetta e cura, dal punto di vista editoriale, ma anche economico, la collana "Semprevivi" con l'editore Giannotta di Catania, che, pubblicando negli anni opere di Verga, Capuana, Fogazzaro, Pirandello, De Amicis, Serao, Martini, ecc. e gareggiando per perfezione e buon gusto editoriale con le case editrici del continente, diviene, per i letterati siciliani, un punto d'incontro.
Dopo le prime novelle, scritte sulla scia del verismo, De Roberto si orienta al romanzo psicologico, anche in seguito alla sua frequentazione, come amico e come traduttore, del critico e scrittore Paul Bourget (si veda Russo 1953, pp. 250-252).
Nel 1891 esce a Milano, per l'editore Galli, L'illusione, che inaugura quello che, nelle intenzioni di De Roberto, avrebbe dovuto essere il "ciclo degli Uzeda" alla maniera naturalista, ma che, come vedremo, non fu pienamente portato a termine. Dall'analisi psicologica della protagonista de L'illusione passa così al romanzo di costume con il secondo libro del ciclo, I Viceré, la cui stesura lo assorbe per quasi tre anni: sarà pubblicato da Galli nel 1894. A quella data aveva già iniziato a lavorare al "seguito", terzo e ultimo libro del ciclo, ovvero il romanzo parlamentare L'imperio:
- E in futuro pensi a qualche altro romanzo che, come questo, studii tutto un 'ambiente', tutta una classe?
- Sì. Già ho passato parecchi mesi a Roma a bellaposta. Ho in mente un romanzo di vita parlamentare. Ma... vedremo.(Ojetti 1895, pp. 85-86)
Nel 1897 esce il romanzo Spasimo (Milano, Galli), pubblicato a puntate sul "Corriere della Sera", che lo scrittore negli anni seguenti rimaneggerà per farne un'opera teatrale: questo interesse per il teatro lo accompagnerà a lungo, senza però portargli grandi successi.
Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento pubblica anche diversi saggi sul tema dell'amore: L'amore. Fisiologia, psicologia, morale (Milano, Galli, 1895), Gli amori (Milano, Galli, 1898), Una pagina della storia dell'amore (Milano, Treves, 1898), Come si ama (Torino, Roux e Viarengo, 1900).
Afflitto da una grave crisi psicologica, agli inizi del Novecento ricopre l'incarico di Soprintendente onorario per i monumenti della provincia di Catania: si dedica a pubblicazioni di carattere storico e artistico, coltivando anche la sua passione per la fotografia, come le guide Catania (1907) e Randazzo e la Valle dell'Alcantara (1909), uscite per l'Istituto italiano d'arti grafiche di Bergamo.
Dal 1908 frequenta molto spesso Roma, anche per accumulare materiale per il romanzo L'imperio: frequenta Montecitorio e i giornalisti parlamentari, per poter meglio rappresentare il co-protagonista del romanzo. Durante la guerra, collabora con il "Giornale d'Italia", ma nel luglio del 1917 viene colto da una flebite da cui non guarirà più. Tornato a Catania, nel 1918 è nominato bibliotecario della Biblioteca civica.
Sul tema della guerra pubblica diverse raccolte, di articoli (Al rombo del cannone, Milano, Treves, 1919 e All'ombra dell'olivo, Milano, Treves, 1920), di racconti (La «Cocotte», Milano, Vitagliano, 1920) e di novelle (Ironie, Milano, Treves, 1920).
Nel 1919, in collaborazione con Verga, dà alle stampe il libretto d'opera La lupa (Palermo, Barravecchia & Balestrini): nel 1922, alla morte di quello che era stato per lui sempre un maestro, De Roberto ordina accuratamente le opere di Verga, dando inizio al progetto di uno studio biografico e critico che rimane interrotto dalla morte prematura a Catania il 26 luglio 1927.
In seguito all'aggravarsi delle condizioni di salute dell'anziana madre nel 1923, infatti, si era dedicato alla sua cura fino alla morte di lei nel 1926, sopravvivendole solo per qualche mese.
************************
2. L'imperio, romanzo parlamentare incompiuto
Seppur mai pubblicato durante la vita del suo autore, L'imperio è incluso nel corpus dei romanzi di ambiente parlamentare (si veda l'articolo inaugurale di questa rubrica sul n. 5, n.s., di "MinervaWeb" e la relativa bibliografia).
Gli ambienti e la rappresentazione della politica romana sono presenti in tutti e tre i volumi del "ciclo degli Uzeda": nel primo romanzo, L'illusione, la protagonista frequenta il mondo della politica romana, così come, nel secondo, non mancano i riferimenti alla vita politica:
Nei Viceré [...] la rappresentazione della vita politica, elezioni e prassi parlamentare, assumeva nella struttura del romanzo una funzione che ne ribaltava la consueta utilizzazione nei precedenti romanzi di ambiente politico. [...] Attraverso l'identificazione del moderno sistema rappresentativo con ogni altro meccanismo del potere apparso nel corso dei secoli, veniva negato il concetto di progresso, religione e mito essenziale della civiltà industriale; crollava implicitamente la costruzione dell'idea di storia come processo lineare, come teleologia positiva. La storia appariva invece un cerchio vano chiuso nella ripetizione fatale di gesti dettati da una logica immutabile, la legge del più forte.
(Alessandra Briganti, Il Parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento. Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 118-119)
L'ultimo volume del ciclo era però completamente dedicato alla vita parlamentare, proprio nel momento in cui l'ambientazione parlamentare è molto diffusa nella letteratura (si veda Pedullà 2019, p. 112 e seguenti), discostandosene però per molti aspetti.
L'imperio è un romanzo parlamentare, o meglio politico, anzi il più esplicito ed impegnato sul tema della Roma politica fino a I vecchi e i giovani, condotto con i criteri della veridicità e della documentazione voluti dal naturalismo: certi «quadri» di sedute parlamentari, di salotti parapolitici, di corridoi e di ambiente giornalistico hanno il rilievo a tutto tondo degno dell'arte di Zola e sono ben più incisivi delle scene della Conquista di Roma della Serao, da cui in parte dipendono.
(Madrignani 1972, pp. 150-151)
Si vedano, in questa stessa rubrica, gli articoli dedicati a I vecchi e i giovani e alla Conquista di Roma.
Diversamente dalla maggior parte dei romanzi del genere, i protagonisti de L'imperio sono due: il neoeletto deputato Consalvo Uzeda di Francalanza (parzialmente ispirato a Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, deputato catanese dal 1882 al 1904: si veda Pedullà 2019, p. 7) e il giovane neolaureato Federico Ranaldi, aspirante giornalista. Le descrizioni che caratterizzavano i romanzi di ambiente parlamentare (seduta reale, primo intervento del neoeletto in aula, ecc.) passano attraverso gli occhi di quest'ultimo, ripetendo il tema, ma di fatto ribaltandone la prospettiva.
Il romanzo non è, infatti, come i romanzi ricompresi in questo 'genere', una critica al parlamentarismo o la constatazione del tradimento degli ideali risorgimentali, ma la rappresentazione della crisi stessa del positivismo progressista, del primato della Natura sulla Storia (si veda Pedullà 2019, p. 91 e seguenti).
L'imperio risulta determinante perché è unicamente a questo punto che il narratore offre una chiave per riconsiderare a posteriori le vicende degli Uzeda e lascia intendere esplicitamente come, nelle forme più diverse, l'intera trilogia ruoti attorno a un unico problema: quello del potere - il potere e niente altro.
(Pedullà 2019, p. 23)
************************
L'imperio si apre sulla seduta inaugurale della XV legislatura del Regno d'Italia, osservata dall'alto da Federico Ranaldi, giornalista alle prime armi che si affaccia per la prima volta dalle tribune di Montecitorio:
Dinanzi all'aula grandiosa Federico sentiva pertanto dissiparsi l'impressione di meschinità provata per le vie d'accesso, tornava anzi in preda a un senso di soggezione. Nella solenne ascensione delle gradinate dal piano un poco oscuro dell'emiciclo verso il cielo del lucernario donde pioveva una chiarità pacata, eguale, senza contrasti di raggi e d'ombre; nella sontuosità delle arcate e nella gravità delle colonne giranti attorno alle tribune; e più che altrove nell'imponenza del banco presidenziale, alto e massiccio come un altare sullo sfondo delle lapidi sacre, tra le quali spiccavano i simulacri dei Re, c'era qualche cosa del tempio. Non era quello, infatti, il tempio dove convenivano i fedeli al culto della patria e dove se ne celebravano i riti?
(De Roberto 2019, p. 204)
Esordiente nell'aula di Montecitorio è anche il neoeletto deputato Consalvo Uzeda di Francalanza, che ha appreso le regole del gioco del potere nei conflitti familiari (si veda Pedullà 2019, pp. 69-70):
Prima di mettersi nella vita pubblica, fin da quando per le stravaganze e le liti continue dei suoi parenti era stato nella necessità di lodarli beffandoli tra sé, e di secondare le pretese dell'uno e contemporaneamente quelle dell'altro, Consalvo s'era assuefatto alla finzione; entrato nelle società politiche e nelle amministrazioni municipali aveva fatto strada con questo mezzo, affermando e negando le stesse cose, secondo l'umore dell'uditorio o della maggioranza o di quei pochi che voleva ingraziarsi, bordeggiando continuamente, menando tutti pel naso. Talvolta egli aveva pensato: "Io sono dunque scettico? Non ho carattere?..." quasi rimproverandosi questo scetticismo, questa mancanza d'una qualità reputata necessaria ad ottenere la stima del mondo: ma i suoi scrupoli s'erano acquetati all'idea che per riuscire bisogna esser così; che le fedi apparentemente più sincere nascondono, il più sovente, un tornaconto eguale a quello che consiglia i voltafaccia e l'instabilità. Del resto la fermezza in una opinione non può esser segno di cocciutaggine, di angustia di mente? Studiando, cercando nei libri le opinioni altrui, egli non ne aveva trovato due esattamente eguali: ed erano opinioni di filosofi, di scienziati, di critici insigni.
(Ivi, pp. 239-240)
I due protagonisti entrano in contatto quando il deputato Satta, riferimento del giovane Ranaldi a Roma in quanto conoscente del padre, gli propone di entrare nella redazione di un nuovo giornale, che ha lo scopo di agevolare la creazione di un nuovo partito trasversale:
I fedeli ai vecchi partiti chiamavano confusionismo la nuova scuola; Satta protestava contro la volgare designazione, parlava d'un illuminato eclettismo. La politica, diceva, è la più pratica delle scienze; ma, se l'eclettismo ha del buono in filosofia, dove si specula intorno a idee, e la cocciutaggine partigiana non può in fin dei conti produrre grave danno, in politica, nella scienza pratica, la vera saggezza consiste nel prendere da tutti i sistemi quel che hanno di buono, o nell'adattare ogni sistema alle necessità del momento.
Secondo lui, in quel momento era necessario che, messe da parte alcune divergenze intorno a quistioni molto secondarie, tutti gli uomini fatti per intendersi si intendessero francamente, sinceramente e si dessero la mano, e si votassero con zelo ed amore ad un'opera di salute. I destini della patria erano in giuoco; le lotte di partito, venuti meno i principii, degeneravano in lotte personali, le più funeste di tutte: il credito del regime parlamentare pericolava, il malcontento del Paese poteva manifestarsi in modo violento se, occupati dai loro piccoli interessi, i deputati trascuravano i grandi, i vitali interessi della nazione... e Ranaldi era già persuaso della giustezza di queste idee, della necessità di questa predicazione, quando un giorno il professore gli disse che aveva da parlargli e lo invitò a desinare con lui. Il giovane era smanioso di sapere che cosa avrebbe potuto dirgli e con l'eccitata immaginazione esaurì tutte le ipotesi senza indovinare. Satta gli disse che, parecchi deputati, concordi nel riconoscere la convenienza di indirizzare per una nuova via, più larga, più diritta, l'attività parlamentare, avevano pensato di fondare un giornale che bandisse il nuovo credo: in questo giornale gli offriva di scrivere.(Ivi, pp. 284-285)
Ranaldi lavora dunque a stretto contatto col deputato di Francalanza, tra i fondatori del giornale, che cerca in ogni modo di conquistare potere nell'ambiente politico romano.
In questa ricerca il deputato si fa convincere a tenere una conferenza contro il socialismo, proprio quella sera, rientrando a casa, è vittima di un attentato:
Telegrafata a giornali di provincia, poco esattamente, la notizia era commentata dai monarchici piemontesi, dai moderati lombardi, dai conservatori meridionali con giudizii roventi che telegrafati a loro volta a Roma, mettevano nuova esca al fuoco. L'onorevole di Francalanza era un'insigne vittima dell'abuso della libertà, della licenza imperversante: egli cresceva da un momento all'altro sino alla statura d'un eroe. Solo fra tanti pusillanimi che gridavano a quattr'occhi contro le aberrazioni democratiche, ma non ardivano metter fuori la punta del naso, opporre propaganda a propaganda, egli aveva dato prova di ammirabile e raro coraggio scendendo in mezzo al popolo per fare udire apertamente, nitidamente, serenamente la voce della ragione; e la prima volta che in Roma, nella capitale di un libero Stato, un libero cittadino tentava di esprimersi liberamente, uno di coloro ai quali le sue opinioni non garbavano, gli rispondeva con una stilettata. Il pugnale del Lorani aveva colpito, sì, il petto d'un ragguardevole cittadino, di un rappresentante della Nazione; ma, oltre quella vita umana, aveva ferito qualche cosa di più sacro ancora; di più necessario e prezioso a tutti: la libertà. Il suo simulacro era battuto dalla mano del Terrore. La demagogia, invitata a ragionare, non trovando argomenti da opporre, ricorreva alle armi corte. Questa volta era toccata all'onorevole di Francalanza; la prossima a chi? Nessuno avrebbe potuto più significare un'idea sgradita ai tiranni imberrettati di frigio, senza correre il rischio di finire accoppato. Ma era tutta e soltanto loro la colpa? No, no; non era giusto asserirlo. Essi avevano fatto e facevano il loro mestiere; la colpa era di chi aveva il dovere di opporsi alle loro insane teorie; alle loro folli pretese, alla loro velenosa propaganda, e che invece di compiere questo dovere aveva trescato con loro, fedifrago alla Patria e al Re.
(Ivi, pp. 379-380)
Inaspettatamente questo episodio fa decollare la sua carriera:
Consalvo tornò a casa raggiante. Quando giunse sul portone scendeva la sera, accendevano i primi lumi, come il giorno dell'attentato. Egli si guardò intorno con un sorriso interiore: da quel giorno era cominciata propriamente la sua fortuna. Senza l'attentato, senza la ferita, quanti anni ancora avrebbe vegetato, prima di ottenere un posto di sottosegretario in qualche Ministero di terz'ordine? In meno di due mesi la stilettata di un pazzo lo sbalzava a ministro dell'Interno, a vice Presidente del Consiglio, quasi Viceré come i suoi maggiori! Egli ringraziava in cuor suo il pazzo, ma poi reagiva contro la propria esagerazione. Senza i meriti reali, la stilettata non gli avrebbe giovato a nulla: nei lunghi anni d'attesa, coi discorsi, con le relazioni, con gli articoli, con le conferenze, le sue rare qualità erano state apprezzate, a poco a poco, tra i colleghi, in mezzo ai giornalisti, in una cerchia sempre più larga: egli aveva disperato, perché non si era reso ben conto di questo lento diffondersi della sua fama; ma un giorno o l'altro ne avrebbe avuta la prova e la misura, anche senza il rumore dell'attentato...
(Ivi, p. 391)
Federico Ranaldi, invece, torna a Salerno, nella casa paterna, accettando l'offerta che la vita gli fa di metter su famiglia con la giovane Anna, alla quale racconta della sua esperienza negli ambienti della politica:
«Ho quarant'anni, e ne ho passati venticinque, un quarto di secolo, - più che voi non ne abbiate - fuori di qui, a Napoli, a Roma, all'Università, nel giornalismo, nella politica, in mezzo al più vasto e tenebroso mondo. Ho vissuto, e la vita mi ha fatto come sono, come voi m'avete visto, peggio che non m'abbiate visto. Vi entrai con tanta fede, e con tante illusioni che ora non ho più, perché essa me le portò via a pezzo a pezzo, ad una ad una. Credevo al bene, alla virtù, a una infinità di cose, e ora non ci credo più. Fremevo d'entusiasmo per il mio paese, per questa Italia di cui avevo studiato la storia, e lacrimate le sciagure e benedetta la resurrezione... Ringraziavo Dio d'avermi fatto nascere lo stesso giorno che l'Italia risorgeva a dignità di nazione; me ne tenevo dinanzi ai più vecchi di me, come se qualche cosa della schiavitù, dell'abbiezione durante la quale essi erano nati, li contaminasse, mentre io ero nato puro, libero cittadino d'un libero, d'un glorioso paese...»
«Sì, sì...» fece ella secondandolo col gesto del capo, incoraggiandolo col tono della voce, quasi eccitandolo e spronandolo a manifestare un sentimento buono e vivace.
«Voi provate un simile entusiasmo?»
«Sì! sì! Ho studiato anch'io la storia, è una delle cose che più mi piacciono; ho visto a Torino, a Firenze, i ricordi del nostro risorgimento, i quadri delle battaglie, le vecchie bandiere scolorite dal tempo, traforate dalle palle, le vecchie uniformi dei soldati e dei volontarii; ho letto i proclami dei generali stranieri e dei re nostri, le sentenze di morte pronunziate contro i martiri, le lapidi murate sui luoghi memorabili, e ne ho ricevuto impressioni vivissime, fino a piangerne...»
«Ne ho pianto anch'io, ma ora rido del mio pianto.»
Ella si fermò, lo guardò attonita e dolorosa:
«Come è mai possibile?»
«Perché ho letto, dopo la storia, la cronaca; perché ho guardato dietro le scene della rappresentazione apparentemente magnifica; perché l'egoismo nascosto sotto l'eroismo mi si è rivelato, ma specialmente perché ho visto e vedo che i sacrifizii purissimi delle poche anime veramente nobili e belle furono compiti in forza dell'illusione, che l'unità, la libertà, l'indipendenza d'Italia avrebbero assicurato tutte le fortune a tutti gl'Italiani. Quel che si è ottenuto voi lo vedete, quantunque non vi occupiate di politica, né abbiate letto le statistiche, né siate vissuta in mezzo a quel mondo dove sono vissuto io.»
«Ma in tutte le cose» rispose ella vivacemente «vi sono difetti; le più belle, esaminate troppo da vicino sembrano brutte, o meno belle. Capisco benissimo che a Roma ne abbiate viste molte addirittura disgustose; ma scusate: lassù avevate messo casa per conto vostro, o mangiavate al caffè?»(Ivi, pp. 432-433)
************************
4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Nell'articolo sono citati per esteso solo i testi non compresi nel percorso bibliografico.
Federico De Roberto. Percorso bibliografico nelle collezioni del Polo bibliotecario parlamentare.
Si suggerisce inoltre la ricerca nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche delle due biblioteche.