A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
L'elefantino di Piazza della Minerva
Da questo numero si inaugura una nuova rubrica dedicata alle opere d'arte presenti nelle vicinanze o all'interno del palazzo della Minerva, sede della Biblioteca del Senato della Repubblica, e dell'Insula dominicana, sede del Polo Bibliotecario Parlamentare, i quali ospitano capolavori di diverse epoche, stili e tendenze.
In questo primo numero ci occuperemo dell'Elefantino di piazza della Minerva, che abbiamo scelto nel logo del nostro bimestrale e la cui vicenda è strettamente legata a quella dell'obelisco che lo sovrasta. L'obelisco di granito rosa con geroglifici sui quattro lati, alto appena m 5,47 ed eretto nel VI sec. a. C. a Sais dal faraone Aprie insieme ad un monolito gemello che attualmente si trova ad Urbino, venne rinvenuto integro, verso la fine del 1665, nel giardino del convento dei domenicani, nell'area dell'antico Tempio di Iside, il cui culto era stato importato dall'Egitto e aveva molti seguaci anche tra i romani.
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2. L'intervento di restauro e conservazione
3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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Il frate gesuita Athanasius Kircher, trasferitosi a Roma sin dal 1634 su invito di Urbano VIII proprio per decifrare i geroglifici degli obelischi, tradusse anche i geroglifici dell'obelisco della Minerva, e poco dopo dette alle stampe questa traduzione, dedicando nel 1666 il libro al pontefice: "Ad Alexandrum VII P.M. obelisci aegyptiatci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hierogliphyca"(Athanasius Kircher, Ad Alexandrum VII Pont. Max Obelisci aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri...)
Il pontefice Alessandro VII, della famiglia dei Chigi, decise di far erigere l'obelisco nella piazza antistante la chiesa della Minerva e numerosi architetti proposero i loro progetti per una base che potesse sostenere l'antico monolite. Tra questi il modesto progetto del domenicano padre Domenico Paglia, che prevedeva un basamento composto da sei piccoli colli (il monte a sei cime sormontato da una stella ad otto raggi è proprio lo stemma della famiglia Chigi) con un cane a ciascuno dei quattro angoli con una torcia in bocca (emblema dei frati, soprannominati anche Domini Canes).
Il progetto fu però respinto dal papa che non voleva un monumento in suo onore ma un simbolo della Divina Sapienza e che, per questo, si rivolse a Gian Lorenzo Bernini, il quale eseguì insieme alla sua bottega, ben 10 diversi progetti, tre dei quali, firmati da lui personalmente, conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Chigi). Il progetto più audace, e più tipicamente berniniano, raffigura un gigante che sostiene in un precario equilibrio l'obelisco con le braccia.
Ma il pontefice preferì a tutte le altre soluzioni, quella dell'elefantino che tiene l'obelisco sul dorso, elaborata dal Bernini, ispirandosi alla Hypteronomachia Poliphili (la battaglia d'amore in sogno di Polifilo), scritta dal domenicano Francesco Colonna e pubblicata a Venezia nel 1499 dal tipografo ed editore Aldo Manuzio (Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili). E' probabile che proprio il Papa Alessandro VII, che possedeva una copia dell'Hypteronomachia, postillata di sua mano, abbia suggerito a Bernini questa iconografia molto simile all'incisione, con un elefante sormontato da un monolite, contenuta nella prima edizione del testo, in cui il protagonista, durante una bizzarra avventura onirica, incontra un elefante di pietra con un obelisco sul dorso.
A questo punto Bernini, che aveva già, in precedenza, realizzato opere in cui elementi pesanti gravavano su spazi vuoti (si pensi allo scoglio traforato che sostiene l'obelisco nella Fontana dei Quattro Fiumi in piazza Navona) pensò che l'elefantino avrebbe dovuto poggiare sul basamento marmoreo solo con le zampe, ma i domenicani, o forse padre Paglia, criticarono il progetto perché non prevedeva una base quadrangolare sotto il ventre dell'elefante e quindi contravveniva ai canoni classici secondo i quali, citando Francesco Colonna: "niuno perpendicolo di pondo non debi sotto a sé habere aire overamente vacuo, perché essendo intervacuo non è solido né durabile". In fondo era proprio questa la principale caratteristica del Bernini scultore: sfidare la naturale debolezza del marmo, si pensi alle numerose figure con braccia e gambe distese, per dimostrare il suo virtuosismo e la sua capacità di creare composizioni in cui i movimenti delle figure non siano limitati da vincoli tecnici.
Poiché anche il Papa supportò la tesi dei domenicani, Bernini si vide costretto a cedere e ad aggiungere un cubo di pietra come supporto. Il tentativo di nascondere tale cubo, ricoprendolo con una gualdrappa , quasi interamente occupata dall'emblema araldico papale, che giungeva fino al basamento, non fu sufficiente a mascherare l'appesantimento che ormai caratterizzava l'intero monumento. Proprio per questo i romani cominciarono a chiamarlo il "Porcino della Minerva", divenuto più tardi purcino (forma dialettale romana) e quindi pulcino. Il Bernini, forse per vendicarsi dei domenicani, disegnò l'elefante con le terga volte al convento e con la proboscide e la coda che ne accentuavano, con la loro posizione, l'intenzione irriverente ed offensiva.
Nonostante la figura dell'elefante possa assumere diverse valenze simboliche, le iscrizioni sul piedistallo del monumento ne chiariscono, senza possibilità di errore, il significato; il Papa volle infatti che venisse incisa, oltre all'epigrafe di memoria storica che spiega il motivo dell'innalzamento del monumento, un tempo consacrato ad Iside e ora tornato a nuova vita grazie alla volontà del pontefice: VETEREM OBELISCUM PALLADIS AEGYPTIAE MONUMENTUM E TELLURE ERUTUM ET IN MINERVA OLIM NUNC DEIPARAE GENITRICIS FORO ERECTUM DIVINAE SAPIENTIAE ALEXANDER VII DEDICAVIT ANNO SAL. MDCLXVII; anche la seguente di carattere filosofico: SAPIENTIS AEGYPTI INSCULTAS OBELISCO FIGURAS AB ELEPHANTO BELLUARUM FORTISSIMA GESTARI QUISQUIS HIC VIDES DOCUMENTUM INTELLIGE ROBUSTAE MENTIS ESSE SOLIDAM SAPIENTIAM SUSTINERE, ad indicare che "...solo una robusta mente può sostenere una solida sapienza". Infine la croce che si trova sulla cuspide bronzea, alla sommità dell'obelisco pagano, afferma il dominio della cristianità. Insomma, la continuità sapienziale fra l'Egitto, il paganesimo greco-latino e il papato romano appariva, in questo monumento, palese ed evidente.
Il monumento disegnato dal Bernini verrà eseguito da Ercole Ferrata, raffinato tecnico della lavorazione del marmo e dello stucco, il quale, nato a Pelvio Inferiore in provincia di Como nel 1610, dopo un breve periodo di apprendistato a Genova sotto Tommaso Orsolino, fu a Napoli nella cerchia del Fanzago, a L'Aquila e quindi a Roma dove collaborò col Bernini e l'Algardi, divenendo presto famoso ed aprendo, egli stesso, un'attivissima bottega con un orientamento stilistico a metà tra l'esuberanza berniniana e il classicismo algardiano. I lavori dureranno poco più di un anno e il monumento verrà innalzato sulla piazza l'11 luglio 1667, quando ormai il committente era morto da 40 giorni.
Il pittore neoclassico Giovanni Battista Cipriani nella sua "Descrizione itineraria di Roma", pubblicata a Roma nel 1838 e conservata, insieme a moltissime altre opere del genere, nel fondo Guide della Biblioteca del Senato, a proposito dell'Obelisco della Minerva dice: "Compagno a quello della Rotonda. Alessandro VII fu, che ordinò al Bernini di collocarlo su questa piazza, ed è tutto dell'architetto il capriccio di averlo messo sul dorso di un elefante"(Giovanni Cipriani, Gli obelischi egizi. Politica e cultura nella Roma barocca).
L'aspetto quasi goffo dell'elefantino mal coincide con le sperimentazioni che, in architettura e scultura, Bernini conduceva in quegli stessi anni e in cui l'artificio, il dinamismo, lo sfarzo e la drammaticità rappresentavano la cifra stilistica dell'artista. Nonostante la necessità di obbedire alle richieste del suo committente impedisca di riconoscere la mano di Bernini nelle linee dell'opera, la sua firma risulta ben evidente nel gioco simbolico ad essa sotteso.
2. L'intervento di restauro e conservazione
Nel luglio 2011 sono iniziati i lavori di restauro e conservazione dell'Elefantino in Piazza della Minerva, il piedistallo berniniano di uno dei tredici obelischi della capitale. L'iniziativa di realizzare un cantiere sull'Elefantino di Piazza della Minerva, che è il risultato di una collaborazione tra l'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro e il Comune di Roma (Soprintendenza ai Beni Culturali Direzione Tecnico Territoriale U.O. Monumenti di Roma: scavi restauri valorizzazione), scaturisce dall'esigenza di provvedere alla realizzazione degli interventi conservativi sul monumento, tenuto conto delle condizioni di degrado presenti sull'opera progettata da Gian Lorenzo Bernini. Il restauro, che si concluderà entro l'anno e ovvierà a una situazione di degrado causato da fattori ambientali e antropici, coinvolgerà in una prima fase gli allievi della Scuola di Alta Formazione. Il costo, sostenuto dal Ministero per i Beni culturali, è di 70mila euro, comprese le analisi storico-documentali e tecnico-scientifiche.
I materiali costitutivi
Il monumento dell'Elefantino alla Minerva, è caratterizzato dalla presenza di differenti materiali costruttivi ovvero: l'elefantino, il basamento e i primi due gradini sottostanti sono di marmo bianco proveniente da Carrara, mentre l'ultimo, a contatto con il piano di calpestio, è di travertino.
L'obelisco posto sulla groppa del pachiderma è in granito rosa (sienite) mentre l'elemento sommitale a coronamento del pyramidion dell'obelisco è costituito dall'assemblaggio di diverse parti di bronzo inserite su una barra di sostegno. Una croce insiste sulla stella a otto punte collocata sopra al trimonzio, a sua volta sostenuto da foglie, che insieme rappresentano le insegne Chigi. Seguono, scendendo, la sfera con nervatura orizzontale poggiante su quattro foglie di acanto che abbracciano gli spigoli del pyramidion.
Lo stato di conservazione
Il monumento, prima della fase di restauro, presentava vistose manifestazioni di degrado, alcune delle quali concentrate alle quote inferiori facilmente accessibili, da attribuire a cause antropiche. Nella parte basamentale si evidenziano, infatti, gli effetti di azioni vandaliche causa di graffi, scritte e numerosissimi "pisti" puntiformi che si manifestano con la rottura dei cristalli del marmo provocata dai colpi prodotti accidentalmente.
Le superfici lapidee dell'Elefantino, inoltre, erano connotate dalla presenza di estese patine scure di origine biologica, depositi incoerenti di materiali estranei di varia natura, croste nere delimitate dalle parti dilavate, fenomeni localizzati di erosione, alveolizzazione e mancanze, nonché ampie zone contraddistinte da macchie verdi riconducibili ai prodotti di ossidazione dei materiali metallici presenti sulla sommità dell'obelisco. Infine, le superfici degli elementi in bronzo sono caratterizzate da aree di accumulo del particellato atmosferico di colore bruno nero, che si alternano a zone di colore verde chiaro generate dal dilavamento dell'acqua piovana.
Il progetto di restauro e conservazione
Prima di affrontare direttamente l'operazione e le modalità di intervento sull'Elefantino di Piazza della Minerva è utile ricordare brevemente il susseguirsi delle teorie che riguardano il concetto di "restauro". Nel secondo dopoguerra in Italia a seguito delle distruzioni belliche la teoria del restauro prosegue il distacco critico dalle posizioni filologico-scientifiche e si evolve verso il cosiddetto restauro critico.
Questa corrente ha al suo interno molte posizioni anche dialetticamente contrapposte. Fra i principali teorici di questa fase possiamo ricordare Roberto Pane, Renato Bonelli e Cesare Brandi. Quest'ultimo definisce il restauro «il momento metodologico del riconoscimento dell'opera d'arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro».
Il progressivo estendersi del campo dei beni oggetto di tutela, dalle opere d'arte, ai beni di interesse etno-antropologico e di cultura materiale, mette in crisi le posizioni del restauro critico che impostava la sua teoria sull'artisticità del bene oggetto delle opere restaurative, e porta ad aumentare l'interesse per la conservazione materiale oltre che formale degli oggetti tutelati, interesse che vede fra i precursori Piero Sanpaolesi, che elabora metodi per il consolidamento dei materiali lapidei.
Negli anni settanta del Novecento nasce la cosiddetta teoria della conservazione, che rifiuta ogni tipo di integrazione stilistica, anche semplificata nelle forme, a favore dell'integrazione tra esistente, conservato in maniera integrale, e aggiunta dichiaratamente moderna. Tra i massimi esponenti di questa corrente ricordiamo Amedeo Bellini e Marco Dezzi Bardeschi.
Negli ultimi due decenni il contrasto fra teoria della conservazione e restauro critico è andato progressivamente attenuandosi con una convergenza verso le posizioni critico-conservative.
L'obiettivo del lavoro di restauro e conservazione dell'Elefantino è, infatti, quello di attuare un piano d'interventi complessivo e organico, basato sulla gestione integrata delle conoscenze sull'oggetto e sull'ambiente, nell'ottica di definire esattamente i trattamenti di restauro, per assicurare la trasmissione al futuro del monumento nella sua autenticità.
Gli agenti di deterioramento già elencati costituiscono altrettanti fattori di rischio, per affrontare i quali è stato istituito all'interno dell'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR) un gruppo di lavoro, coordinato dall'arch. Annamaria Pandolfi, con competenze multidisciplinari.
Con il cantiere, che ha preso avvio dopo una prima fase di studi e ispezioni tecniche condotte dai diversi specialisti coinvolti, sono in corso di realizzazione gli interventi ritenuti più idonei per far fronte alle specifiche condizioni conservative del monumento che, per i materiali lapidei, riguardano:
1. i trattamenti biocidi ovvero la disinfestazione dei muschi e licheni, che è preceduta quasi sempre dalla loro rimozione meccanica mediante spazzole rigide, microsabbiatrici, bisturi e spatole, dato che si formano su substrati argillosi depositati sulle pietre, sulle quali formano tappeti uniformi più o meno aderenti
2. i consolidamenti delle superfici disgregate
3. la pulitura delle superfici dai depositi coerenti e non
4. il controllo e gli interventi sui vincoli metallici
5. la verifica delle stuccature e il rifacimento di quelle non idonee
6. la equilibratura cromatica finale
7. la protezione superficiale
Per quanto riguarda l'obelisco monolitico in granito, che non presenta evidenti problemi di carattere conservativo, è stato effettuato un controllo sistematico e operazioni localizzate di pulitura laddove ne è stata rilevata l'esigenza. Infine è stato applicativo un protettivo. La cuspide alla sommità dell'obelisco, costituita dall'assemblaggio di diversi elementi bronzei, sostenuti da una barra dello stesso materiale, è tuttora oggetto di un restauro che prevede la pulitura delle superfici, i trattamenti di inibizione della corrosione e la protezione finale.
Nell'ambito del processo di conoscenza che ha preceduto e sta accompagnando tutto il corso del restauro verranno effettuati approfondimenti diagnostici integrati di carattere storico documentale e tecnico scientifico, tra i quali sistemi non invasivi di indagine di tipo chimico, fisico e biologico (condotti dai rispettivi laboratori scientifici dell'ISCR).
3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Bernini e il suo tempo. Teoria e pratica del restauro. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.
Per la sezione "L'intervento di restauro e conservazione" si ringrazia l'ISCR nella figura dell'arch. Annamaria Pandolfi per il materiale sul restauro dell'Elefantino di Piazza della Minerva che cortesemente ci ha inviato.