A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Intervento di Marco Tarquinio
Concludiamo lo "Speciale" del 2019 dedicato al seminario - organizzato dalla Biblioteca, su impulso del Sen. Zavoli, già Presidente della Commissione per la biblioteca e per l'archivio storico - dal titolo La politica e la parola. Dopo i contributi di Carlo Galli, Luciano Canfora, Ernesto Galli Della Loggia, Luca Serianni e Chiara Saraceno pubblichiamo ora l'intervento di Marco Tarquinio, direttore responsabile di Avvenire, giornalista esperto in politica interna ed internazionale.
Il testo è la trascrizione dell'intervento.
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Verrebbe da dire che ad arrivare per ultimi le parole si son consumate quasi tutte. In questo dibattito, organizzato da Sergio Zavoli - grazie Sergio per avermi coinvolto ancora una volta - e con tanti partecipanti, che può dire un giornalista dopo gli accademici?
Una cosa che colpisce i giornalisti è che, da quando siamo entrati in questo tempo nuovo in cui non si fanno più discorsi, ma si usano le parole, la politica guarda ai grandi comunicatori, e non abbiamo fatto altro che gloriarci dei capi politici che sono grandi comunicatori.
Io ho sempre pensato alla politica fatta da grandi amministratori. Forse l'Italia nella quale viviamo ha un problema perché ci sono grandi comunicatori, ma grandi amministratori se ne vedono pochi. E questa è una cosa su cui dovremmo cominciare a riflettere seriamente quando li ascoltiamo parlare.
Ho fatto per più di quindici anni il giornalista parlamentare e la mia militanza giornalistica dura da almeno un quarto di secolo come capo delle redazioni politiche; ora dirigo un giornale che ha scelto di non occuparsi delle chiacchiere della politica, bensì - basandosi il più possibile sui fatti - della politica dei provvedimenti concreti, quelli che toccano la vita della gente. Però è chiaro che bisogna occuparsi anche delle parole che vengono utilizzate.
È stato detto tantissimo e non voglio ripetere nulla di ciò che così magistralmente è già stato affrontato. Mi soffermerò prima - ma rapidamente - sul passaggio dalla prima alla Seconda Repubblica, ammesso che questa si possa chiamare Seconda Repubblica: io sono infatti tra quelli che ritengono che le Repubbliche si debbano contare sulla base delle Costituzioni, anche se mi sto rassegnando al fatto che bisogna contarle a partire dai sommovimenti elettorali che accadono. Così la Seconda Repubblica è nata col sommovimento elettorale del 1994, la Terza forse è nata fra il 2013 e il 2018, con il tripolarismo infelice al quale ci siamo consegnati e che abbiamo scelto.
Tornando all'infatuazione botanica [n.d.r. vedi l'intervento di Luca Serianni], è vero ch'essa appartiene molto alla Seconda Repubblica, ma anche nella Prima Repubblica c'erano già tanti fiori, oltre all'edera: c'era il garofano di Craxi, c'era il biancofiore democristiano, c'era la rosa nel pugno di Pannella. Insomma è un vizio antico, sebbene lì ci fossero identità e scelte. Il garofano rappresentava il passaggio da un socialismo a un altro, la rosa nel pugno di Pannella stava a significare, da parte di un partito che veniva da destra, l'incalzare i partiti che venivano da sinistra. C'erano tante polemiche ma di alto livello e i simboli esprimevano dei concetti oltre che delle parole. Anche oggi in realtà simboli e parole hanno precisi significati: pensate alla Lega che fa cadere la parola "nord" dal proprio simbolo, cosicché da partito secessionista diventa Partito nazional-sovranista, la riproduzione italiana del LePenismo alla francese.
È stato detto che al linguaggio è affidato il compito di attenuare il messaggio della politica [n.d.r. vedi gli interventi di Galli Della Loggia e Serianni]. Io ho una sensazione diversa. Nelle Aule parlamentari e nel dibattito pubblico siamo di fronte a una politica che sta parlando in modo molto definito, addirittura definitivo, che dice delle cose che erano inimmaginabili nella politica negli anni precedenti. Faccio un esempio: un leader politico che è uno dei vincitori insufficienti di questa tornata elettorale, nella lunghissima campagna elettorale che ha preceduto il voto del 4 marzo ha promesso che, una volta vinte le elezioni e andato al governo, avrebbe ripulito il Paese da quelli che chiama 'clandestini'. Questo non è un discorso vago, è un discorso molto definito, molto forte che manda un messaggio preciso, che chiede consenso per qualcosa che però non è un dato incontrovertibile. Il grande problema delle parole della politica è che queste continuano a coltivare la percezione degli italiani e a creare un mondo parallelo, questo lo si è detto molto bene. E ne siamo così dentro che sono le parole dei politici che ci suggeriscono il problema che dobbiamo risolvere.
La dichiarazione cui accennavo prima è una frase molto forte; io feci fare un 'corsivo' su questo punto, ma non si creò nessuna indignazione a livello generale nel dibattito del Paese. Le conseguenze si sono viste nelle urne, perché il messaggio è arrivato e ha toccato le corde che voleva toccare.
Questo è l' unico paese europeo che non ha avuto attentati terroristici nella guerra del terrore che si sta sviluppando, il paese che dal punto di vista della sicurezza sta meglio di tutti gli altri, eppure la sicurezza nelle parole della politica è il grande tema che vivono gli italiani; e questo nonostante il fatto che i reati continuino a calare, e non perché la gente non li denunci, ma perché si tratta di una tendenza costante negli anni.
C'è stato solo un momento in cui questi allarmi sono passati in secondo piano, ossia quando la politica si è messa a parlare di economia e di conti che non tornavano, perché la grande crisi - quella del 2007-2008 - affliggeva la vita della gente e si è cominciato a parlare un po' più di lavoro.
Poi ci sono parole della politica che vengono utilizzate per screditare alcuni concetti.
Pensate ad esempio all'idea delle convergenze parallele: oggi se qualcuno osasse parlare delle convergenze parallele verrebbe liquidato come 'inciucista'. Non c'è spazio per parole che parlano di una geometria che non c'è, ma che potrebbe costruire un nuovo equilibrio politico. Oggi questa idea sarebbe messa alla berlina e l'incontro tra distinti e distanti, tra diversi che trovano parole comuni, fanno amministrazione e cambiano il modello d'un Paese, è chiamato 'inciucio'. Bisogna essere separati, netti, incomunicanti, usare parole che non si collegano tra di loro: questo sembrerebbe essere oggi la politica. Questa è la politica con la quale ci misuriamo nella fase neoproporzionale che si è aperta e che deve trovare «la quadra», come diceva Bossi parlando degli accordi possibili.
Un'altra cosa: avete mai sentito l'espressione «governi non eletti dai cittadini»? Si è andati avanti per tutta l'ultima legislatura nel dire che ci sono stati tre governi illegittimi perché non eletti dai cittadini. Questi tre governi hanno avuto la fiducia del Parlamento eletto dai cittadini e la sovranità popolare si esprime attraverso le Camere eletti dai cittadini. Sono queste le cose che svuotano il senso delle istituzioni e delle regole che governano la nostra democrazia.
È già stato usato il richiamo al concetto di patria, una delle cose che mi stanno più a cuore, una parola che il Presidente Carlo Azeglio Ciampi ha avuto la forza morale e politica - trovando le parole giuste - per sdoganare e rimettere dentro il linguaggio degli italiani, liberandolo dalle incrostazioni insopportabili che l'avevano esiliato dal nostro parlare comune, in quanto era diventata l'antitesi del Paese come luogo dove si vive insieme. Il Presidente Ciampi aveva riportato la parola "patria" all'idea di qualcosa di generativo, che è capace di generare. L'inclusione avviene dall'incontro, le patrie sono inclusive e le piccole patrie - che i sociologi chiamano 'matrie' - dal mio punto di vista sono tali solo se sanno includere. È l'idea del Foro Romano dove i cittadini dell'impero arrivavano portando un pugno della terra dove erano nati e diventavano cittadini di Roma. Una Repubblica, una patria comune, o è inclusiva o non è.
Per questo credo anche in una patria europea, che è il passaggio ulteriore rispetto alla costruzione delle patrie nazionali. Ma oggi c'è chi dice che ci sono persone che non sono compatibili con la nostra cultura. Potrei elencare tutte le parole che sono state usate nel dibattito sullo ius culturae e sullo ius soli per negare l'evidenza di persone che sono nate in Italia, parlano italiano, pensano in italiano, ma non vengono riconosciuti come cittadini.
Potrei dire anche che le grandi patrie che oggi nel mondo fanno la differenza sono nazioni come la Cina, che ha dentro di sé 56 etnie, come gli Stati Uniti d' America, che nascono come un mosaico di etnia diverse, come l'India, che ha addirittura 2000 etnie e 1590 lingue diverse dentro la lingua comune. Ma la politica questo è in grado di dirlo? O dice l'esatto contrario?
Potrei dire che a Milano, dove vivo, il 20% della popolazione è straniero. Ed è la città più affluente, più ricca, e più capace di dire parole nuove nell'Italia in cui viviamo.
L' ultima annotazione che faccio riguarda il perché la politica utilizzi un certo linguaggio.
Come è stato accennato, molte parole hanno superato i confini della comunicazione digitale attraverso i social network e stanno invadendo tutte le altre forme di comunicazione. In queste comunicazioni sincopate - che pure sono utili in tanti modi e per altri versi - il nostro modo di parlare collassa, diventa violento, aspro nelle risposte. Ho la sensazione che la politica debba soprattutto costruire piazze, che sono luogo dell'incontro, del discorso. Noi oggi invece siamo - come ho detto già in altre circostanze - nel «tempo del Trivio», ossia l'incrocio delle strade che non diventano piazza.
E c'è un linguaggio triviale che sta occupando tutto, compresa la politica, che lo moltiplica e lo restituisce alle persone alle quali si rivolge e che si sentono dunque legittimate ancora di più a utilizzarlo. Questo è l'allarme vero che credo dobbiamo avvertire, ossia il fatto che non c'è una politica in grado di fare evolvere questo linguaggio nel linguaggio della piazza.
Il trivio è il luogo delle parole, talvolta delle parolacce, la piazza è il luogo del discorso e qui forse si chiude il cerchio: abbiamo bisogno di una politica che ricostruisca la piazza e sappia dire queste parole in maniera convincente.