A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Uffici e commissioni parlamentari in età liberale. Quinta parte
Quinta ed ultima puntata dell'approfondimento dedicato da Fabrizio Rossi all'evoluzione degli organi parlamentari degli Uffici in Commissioni nel corso dell'età liberale. Le precedenti puntate sono state pubblicate nei numeri di dicembre 2012, febbraio, aprile ed ottobre 2013 di MinervaWeb.
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1. La riforma regolamentare del 1920
2. Il ruolo dei Gruppi parlamentari
3. La breve esperienza delle commissioni permanenti (1920-1924)
4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1. La riforma regolamentare del 1920
La Camera che esce dalle elezioni del novembre 1919 è divisa a metà. Da un lato i gruppi parlamentari dei partiti di massa (il socialista e il popolare) che costituiscono ora la maggioranza assoluta dell'Assemblea, dall'altro i gruppi parlamentari della vecchia galassia liberal-democratica che ha perduto la sua "autosufficienza politica" e che per la formazione dei governi deve necessariamente allearsi con il partito popolare. Il gruppo socialista, forte dei suoi 156 deputati, ripresenta la proposta sulle commissioni permanenti "designate" dai gruppi politici, già avanzata, come sappiamo, da Modigliani nel 1918 (vedi la Quarta parte dell'approfondimento).
Nella Giunta per il regolamento il deputato Cameroni, a nome dei popolari (il secondo gruppo della Camera con 100 parlamentari) si dichiara favorevole alla proposta socialista ma gli stessi liberali, dopo il dibattito sulle commissioni del periodo bellico (vedi la Quarta parte dell'Approfondimento) e dopo il successo elettorale dei partiti di massa, sembrano ormai propensi ad accettare il nuovo sistema. La ragione del loro sostegno è tuttavia essenzialmente "tecnica", legata in particolare al funzionamento della commissione Bilancio. Orlando sottolinea infatti che essa "è diventata pletorica e, per varie cause, lo va diventando sempre più". Proprio per questo occorre "provvedere a specificare gli organi" attraverso la "costituzione delle commissioni" (Archivio Storico, Camera, Giunta per il Regolamento, 1920).
Le perplessità affiorano invece sulla "designazione" delle commissioni da parte dei "gruppi politici" poiché i liberali restano, per la maggior parte, legati alla concezione "atomistica" e non "partitica" della Camera, in linea con la tradizionale concezione "liberale" dello Stato che non ammette il partito come struttura organizzata ma solo come insieme di individui concordi sui fondamenti dell'ordinamento monarchico statutario (Pombeni, 2004). Secondo il salandrino Riccio, "la sanzione ufficiale dei gruppi parlamentari presenta il pericolo di irrigidire i gruppi e di ostacolare le trasformazioni". A ciò si aggiunge il rischio di un difficile rapporto "tra i gruppi e l'atteggiamento dei singoli deputati di fronte al Ministero in carica". Di fronte ai dubbi espressi anche dal liberale Codacci-Pisanelli e dal radicale Fera lo stesso Orlando invita "a studiare se possa convenire una nomina diretta (delle commissioni) da parte della Camera" (Archivio Storico, Camera, Giunta per il Regolamento, 1920).
La proposta Modigliani che rende i gruppi "obbligatori" facendone, attraverso la "designazione" proporzionale delle commissioni, il nuovo "motore organizzativo" della Camera, è tuttavia approvata dall'Assemblea il 26 luglio 1920. L'impulso "indiretto" alla riforma viene, però, paradossalmente, dal governo. Il premier Giolitti, (tornato al potere nel giugno 1920 su posizioni di sinistra) per superare definitivamente le polemiche del periodo bellico sulla diplomazia "segreta", chiede, infatti, alle Camere di istituire commissioni permanenti per la politica estera (anche al fine di sostenere il governo nelle trattative con la Jugoslavia sulla "questione adriatica" che ha portato all'occupazione dannunziana di Fiume). Se il Senato risponde subito all'invito, istituendo la commissione secondo la tradizionale procedura che rimette la nomina all'Assemblea (peraltro ora con l'importante novità del "voto limitato", introdotto anche in Senato nel 1920) la Camera coglie l'occasione per realizzare la più generale riforma delle commissioni "designate" dai gruppi politici (la commissione per la politica estera entra subito in vigore, le altre commissioni dopo il 30 novembre 1920) (Atti Parlamentari, Camera, Documenti, luglio 1920).
Il segretario del gruppo popolare Tovini, richiamando la "genesi" governativa della riforma, non manca però di sottolineare, al riguardo, l'atteggiamento "strumentale" del partito socialista:
«Come i colleghi sanno - osserva Tovini - si è venuti a questo regolamento quando si è discusso, da parte di un gruppo di questa Camera (il gruppo socialista n.d.r.) della opportunità di partecipare a questa commissione di politica estera che il nuovo presidente del Consiglio aveva annunciato... Allora da parte di questo gruppo si disse: noi non possiamo partecipare a questa commissione, in omaggio al nostro principio di non collaborazionismo: possibile sarebbe per noi partecipare alla Commissione, qualora il regolamento della Camera fosse riformato, di guisa che partecipare a Commissioni di carattere permanente non rappresentasse atto di collaborazionismo, ma semplicemente ordinaria partecipazione ai lavori parlamentari». (Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, 24 luglio 1920).
Modigliani riconosce che la riforma regolamentare del 1920 è, di fatto, "il risultato di un lavoro conseguente alla proposta del governo" ma ricorda anche che essa ricalca il progetto da lui stesso presentato nel 1918. Non si tratta dunque di un escamotage per "mascherare", dietro l'ordinario lavoro delle nuove commissioni, la partecipazione dei socialisti alla commissione sulla politica estera invocata da Giolitti. Tuttavia, a riprova della permanente "ambiguità istituzionale" del partito socialista, lo stesso Modigliani ammette che anche nel 1918 la sua proposta ha dovuto superare le obiezioni dei deputati "massimalisti":
«Sin dalla prima proposta della riforma quando una discussione fu fatta in seno al gruppo socialista sulla possibilità o meno che le commissioni permanenti creassero una necessaria collaborazione con il governo, il suo autore, che ora ha l'onore di parlarvi, dimostrò facilmente che le commissioni permanenti non sono suscettibili di tale critica. Per i gruppi i quali ritengano di dover collaborare col governo alla formazione dei disegni di legge, le commissioni sono un ottimo strumento per esercitare tale collaborazione. Per quel gruppo il solo che nega, per ora, almeno, di prestare qualunque collaborazione al governo, finché sia costituito come è costituito, saranno il luogo in cui esercitare quella funzione di riserva, di critica, di raccolta di dati che quel gruppo va esercitando anche ora, nel congegno così come è attualmente costituito». (Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, 24 luglio 1920).
La diffidenza dei socialisti massimalisti nei confronti delle commissioni permanenti, viste come strumenti di collaborazione con il governo, è probabilmente influenzata anche dalla vicenda della c.d. "commissionissima", la commissione "governativa" voluta da Orlando nel 1918 per lo studio dei problemi del dopoguerra, (diversa, quindi, dalla commissione "parlamentare" proposta da Giolitti nel 1920), della quale sono chiamati a far parte anche importanti deputati socialisti, che devono però subire il "veto" del partito. Di qui la dura critica di Turati:
«Ah che errore enorme abbiamo fatto a non entrare in quella commissione! Era quello il vero organismo che poteva sostituirsi all'ambiente incompetente, arido, infido e pettegolo del Parlamento. Si sarebbe fatta una vera rivoluzione pacifica che ci balzava innanzi di mezzo secolo in pochi giorni sul terreno sociale-economico dei rapporti di classe».(Sabbatucci, 1991).
La diffidenza mostrata nel 1918 dai massimalisti verso le commissioni ("governative" o "parlamentari"), viste come strumenti di collaborazione con i "governi borghesi", rinvia, più in generale, al contrasto tra gruppo e partito sul tema della "integrazione" dei socialisti nelle istituzioni liberali. Non a caso anche la riforma regolamentare del 1920 viene considerata dal massimalista Pio Donati "utile" solo dal punto di vista del partito:
«Appoggiamo il progetto non perché con esso si miri a migliorare il funzionamento dell'istituto parlamentare, il che non ci riguarda, anzi ci troverebbe ostili, (corsivo nostro) ma perché riteniamo che invece esso sia uno strumento efficacissimo attraverso il quale si possa dare la possibilità alle minoranze di meglio far valere i propri diritti». (Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, 24 luglio 1920).
Come è noto, l' "ambiguità istituzionale" del partito socialista a guida massimalista, concorrerà nel dopoguerra, assieme alla decisiva responsabilità della Corona e della classe dirigente liberale, alla crisi definitiva delle istituzioni rappresentative.
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2. Il ruolo dei Gruppi parlamentari
Il ruolo dei gruppi parlamentari nella riforma regolamentare del 1920 viene più nettamente precisato, depurandolo da quell' "ibridismo" che ancora caratterizzava la proposta Modigliani del 1918. Allora infatti i gruppi erano coinvolti anche nella funzione legislativa (esaminavano, ad esempio, i disegni di legge di iniziativa parlamentare per autorizzarne la "lettura" in Assemblea), ora invece la loro funzione è esclusivamente quella "organizzativa" di designare proporzionalmente i propri rappresentanti nelle commissioni che diventano gli organi ordinari della procedura legislativa (fatta sempre salva la facoltà della Camera di nominare commissioni speciali per l'esame di determinati disegni di legge).
I gruppi sono costituiti da almeno 20 deputati (coloro che non dichiarano di appartenere ad un gruppo o il cui gruppo non raggiunge il prescritto numero di membri confluiscono nel gruppo misto). Tuttavia, grazie all'approvazione dell'emendamento Chiesa, presentato a nome del piccolo drappello repubblicano, è consentita anche la costituzione di un gruppo di 10 deputati, a condizione che essi rappresentino un "partito organizzato nel paese" (il regolamento del 1920 dà quindi per la prima volta un riconoscimento istituzionale non solo ai gruppi ma anche ai partiti).
I gruppi designano, "in ragione di un delegato ogni venti deputati iscritti al gruppo", i propri rappresentanti nelle 9 commissioni permanenti competenti per materia (che restano in carica per l'anno finanziario): 1) Affari interni, ordinamento politico e amministrativo, igiene e legislazione sanitaria, 2) Rapporti politici con l'estero, Colonie, 3) Finanze e Tesoro, 4) Esercito e Marina militare, 5) Lavori pubblici e Comunicazioni, 6) Economia nazionale, 7) Legislazione di diritto privato, affari di giustizia e culto, autorizzazioni a procedere, 8) Istruzione pubblica e belle arti, 9) Legislazione sul lavoro, emigrazione, previdenza sociale. (Atti Parlamentari, Camera, Documenti, luglio 1920).
La designazione "in ragione di un delegato ogni venti iscritti al gruppo" comporta la formazione di commissioni con 23-25 membri, coinvolgendo complessivamente circa 220 deputati. Ciò determina l'inconveniente che più della metà dei 508 membri della Camera resti "fuori" dalle commissioni, creando una discriminazione tra i parlamentari. A questo inconveniente pone rimedio la modifica regolamentare del giugno 1922 che rende "obbligatoria" la partecipazione di tutti i deputatialle commissioni (portate peraltro da 9 a 12, con le commissioni Agricoltura e Industria al posto della commissione Economia nazionale, con lo "sdoppiamento" della commissione Lavori pubblici e comunicazioni, e con l'istituzione, in via transitoria, della commissione Terre liberate e redente). L'unica commissione che rimane a "composizione limitata" è la commissione esteri in considerazione della particolare delicatezza della materia (Atti Parlamentari, Camera, Documenti, giugno 1922). La modifica regolamentare del 1922, con la partecipazione "obbligatoria" di tutti i deputati, rafforza, di fatto, la connotazione "politica" delle commissioni (mentre la "designazione limitata" lasciava ai gruppi la possibilità di una scelta che poteva anche ispirarsi a criteri di competenza ed esperienza). Il rilievo "politico" delle commissioni è inoltre evidenziato dal fatto che esse partecipano non solo alla funzione legislativa ma anche a quella di controllo ed indirizzo. Possono, infatti, presentare proposte procurandosi informazioni e documenti dai Ministeri e chiamare i Ministri a rispondere in commissione su questioni di politica e amministrazione. A questa funzione di controllo e indirizzo è infine collegata un'altra importante attribuzione "politica" quella dell'autoconvocazione (durante gli aggiornamenti dei lavori) delle singole commissioni (su richiesta di 1/5 dei componenti) e della stessa Camera (su richiesta di 5 commissioni su 9 a maggioranza assoluta dei propri membri). (Atti Parlamentari, Camera, Documenti, agosto 1920). Modigliani infatti osserva:
«Perché questa commissione, che voi avete creato con queste funzioni di controllo e di vigilanza (la commissione esteri n.d.r.) non deve avere un mezzo per informare rapidamente la Camera?...A che varrà che la commissione si accorga che il governo è su una cattiva via nella soluzione della questione adriatica se non può provocare le deliberazioni della Camera?» (Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, 26 luglio 1920).
E' vero, come afferma Ruini, che la "maggioranza" dei componenti delle 5 commissioni è in realtà una "minoranza" (sommando la metà più uno di ciascuna commissione), tuttavia quei deputati sono "i rappresentanti dei gruppi" e, quindi, rappresentano "il volere della maggioranza". Come si vede, anche in questo caso, è il carattere "politico" delle commissioni, basato sulla "designazione" da parte dei gruppi, a farle funzionare come organi "politici" (con il potere addirittura di convocare la Camera durante l'aggiornamento dei lavori) laddove il loro carattere "tecnico", basato sulla competenza per materia, risulterebbe a tal fine, come osserva Turati, del tutto incongruo:
«Le commissioni hanno una competenza tecnica su una relativa cerchia di rami di affari, ma vi è un diritto del deputato in quanto tale, (corsivo nostro) all'infuori della competenza, per un fatto di politica generale, che non appartiene ad uno speciale ramo di amministrazione, a provocare questa autoconvocazione della Camera». (Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, 6 agosto 1920).
Alla fine la norma sull'autoconvocazione della Camera da parte dei "deputati in quanto tali", viene approvata (affiancandosi, dunque all'autoconvocazione da parte delle commissioni) ma la richiesta non è avanzata da una "minoranza" (seppur cospicua) di 200 deputati, come auspicava Turati, bensì dalla "maggioranza dei componenti" dell'Assemblea. Nel congegno delle commissioni (basato sui "rappresentanti dei gruppi") così come in quello dell'Assemblea (basato sui "rappresentanti dei cittadini") il principio che deve prevalere, afferma Ruini, è, infatti, quello di maggioranza, principio-cardine del sistema liberale (la Costituzione repubblicana, invece, come è noto, prevede che ciascuna Camera possa essere convocata in via straordinaria per iniziativa di un terzo dei suoi componenti).
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3. La breve esperienza delle commissioni permanenti (1920-1924)
Come si è detto nelle commissioni permanenti del 1920 l'aspetto più rilevante è quello "politico" della "designazione" da parte dei "gruppi".Che importanza riveste invece l'aspetto "tecnico" della "competenza per materia" che nell'Ottocento, come sappiamo, è stato al centro delle proposte del Senato sulle commissioni permanenti? (vedi la Terza parte dell'Approfondimento). Come è noto, soprattutto in conseguenza del grande sforzo di "mobilitazione industriale" richiesto dal conflitto, i temi della "razionalità burocratica" e della "specializzazione tecnica" sono al centro del dibattito sulla ricostruzione europea, sia sul piano economico-sociale (lo Stato che interviene nell'organizzazione dell'economia) (Rathenau, 1919), sia su quello istituzionale (il Parlamento strutturato in "commissioni specializzate" come luoghi di formazione dei "leader di partito") (Weber, 1919).
Ma nel campo istituzionale si affaccia anche la proposta di affiancare alla "rappresentanza politica" la "rappresentanza degli interessi" e, in questo caso, è ancora il Senato basato sulle "categorie" ad apparire il ramo del Parlamento più adatto a trasformarsi in una Camera professionale. Tra le varie proposte in questa direzione (avanzate dai popolari, dai radicali, dai nazionalisti) c'è anche il progetto dello stesso Senato del 1919 (relatore Ruffini), che sottrae in larga misura la scelta dei senatori alla "nomina" da parte del governo affidandola, in sostanza, alla "elezione" da parte delle categorie statutarie, opportunamente aggiornate e allargate. Tale progetto, che si muove peraltro nel solco delle precedenti proposte di riforma di Vitelleschi (1887), Saredo (1894), Arcoleo (1910-11), non fa che "immettere vino nuovo in otri vecchi", conciliando cioè la nuova idea della "rappresentanza degli interessi" con la vecchia idea delle "categorie" (Marrucco, 1988) che aveva ispirato sia le proposte sulle commissioni permanenti, sia quelle sulla riforma del Senato.
Tuttavia nessuna di queste proposte riesce ad imporsi. Anche in Senato, infatti (sebbene in misura meno evidente che alla Camera), resta prevalente l'idea della rappresentanza politica "atomistica e indifferenziata" che, sul piano del funzionamento interno, vede, come sappiamo, negli uffici (e non nelle commissioni) il sistema più congeniale, e, sul piano delle modalità di reclutamento, vede nel potere di nomina del governo, sorretto dalla Camera, (e non nella autonoma designazione da parte delle categorie), il sistema più adatto a garantire l'uniformità "politica" dei due rami del Parlamento (le "infornate" di senatori,come è noto, sono lo strumento di cui il governo si serve per "riallineare" politicamente un Senato recalcitrante) (Lanciotti, 1993).
L'istanza della "specializzazione tecnica" riemerge, invece, nel 1920 alla Camera, con l'istituzione delle commissioni permanenti competenti per materia, ma allora la loro vera ragion d'essere è di dar vita ad organi non tanto "composti da specialisti" quanto "designati da gruppi politici", sulla scia, come si è detto, del successo elettorale dei partiti di massa nel 1919.
Tuttavia se le commissioni si affermano grazie al nuovo contesto "partitico-proporzionalistico", di quello stesso contesto subiscono tutte le contraddizioni, operando all'interno di una Camera spaccata a metà tra i liberali (ancora sostanzialmente legati alla concezione "atomistica e indifferenziata" della rappresentanza ma in gran parte diffidenti verso la democrazia) e i partiti di massa (legati ad una concezione "partitica" della rappresentanza ma di cui uno, quello socialista, è anti-sistema").
I liberal-democratici se non guardano più alla legislazione "tecnica" con lo scetticismo del passato (quando la "razionalità" della legge era considerata il frutto non di una ristretta cerchia di "specialisti" ma del concorso di tutta la "classe dei migliori" selezionata nelle elezioni), vedono però con ostilità la legislazione "politica" di una Camera "divisa in partiti" che rompe l'unità dello Stato e sostituisce il ruolo guida del premier nell'assemblare la "grande maggioranza liberale" con gli accordi "programmatici" di coalizione tra i gruppi politici. (Ambrosini, 1922).
Questo contraddittorio quadro politico-istituzionale non facilita l'attività delle commissioni che, innanzitutto, procede "a singhiozzo". Tra scioglimenti anticipati, crisi di governo, aggiornamenti dei lavori, la Camera resta "aperta" poco più di 10 mesi tra il 1920 e il 1922, solo un mese e mezzo nel 1923 e niente affatto nei primi cinque mesi del 1924. In secondo luogo, la "frammentazione" politica della Camera (i gruppi della galassia liberal-democratica nell' estate del '22 diventano addirittura 7, i socialisti subiscono nel gennaio '21 la scissione dei comunisti e nell' ottobre 1922 quella dei riformisti, i popolari si dividono nel giugno '23 sulla legge Acerbo) si riverbera anche negli equilibri interni delle commissioni. Nelle votazioni per l'elezione dei loro presidenti, ad esempio, vengono eletti (per giunta con maggioranze spesso diverse), esponenti popolari e anche socialisti (De Rossi, 1923). Per cercare di garantire la "stabilità" delle commissioni è respinta la proposta del loro immediato "adeguamento" alla "variazione" dei gruppi ed è approvata la proposta di non procedere al loro rinnovo annuale (nel giugno 1923) ma di prorogarle per l'anno finanziario 1923-1924. Tale "stabilità coatta" accentua però la confusione politica poiché i deputati, "cambiando gruppo ma non commissione" (né immediatamente, né alla scadenza annuale) continuano a farne parte in modo "casuale" e non più "proporzionale".
In terzo luogo, le commissioni permanenti sono spesso "aggirate" dal governo che, per l'esame di provvedimenti particolarmente importanti (ad esempio il disegno di legge sulla riforma dell'Amministrazione di Giolitti del giugno '21 e quello contro la disoccupazione di Bonomi del luglio '21) chiede l'istituzione di commissioni speciali.
In questo modo, affidandosi alla "nomina" del presidente della Camera e non alla "designazione" dei gruppi, l'esecutivo ottiene una commissione politicamente più "moderata" (senza la "maggioranza" dei partiti di massa) e tecnicamente più "funzionale" (con una composizione limitata a "pochi membri").
Infine, dopo l'ottobre del 1922, il fascismo riduce ulteriormente lo spazio delle commissioni. I decreti legislativi adottati in base ai "pieni poteri" in materia di riordino finanziario e amministrativo chiesti ed ottenuti dal governo Mussolini esautorano gran parte delle commissioni delle loro funzioni. La decretazione d'urgenza (che riprende in modo massiccio, dopo l'attenuazione verificatasi con i governi Giolitti, Bonomi e Facta) "intasa", con la procedura della "conversione in legge", il lavoro delle commissioni, venendo smaltita solo in minima parte (Celotto, 1997). L' "abuso" dei decreti-legge è peraltro giustificato dal ministro della giustizia Oviglio con il consueto argomento che l'ordinario lavoro legislativo è "intralciato" dalla invadenza dei partiti, impegnati a tenere occupata la Camera con continui "dibattiti politici":
«Specialmente un ramo del Parlamento ha diminuito la sua tecnicità in rapporto alla legge. Vi ha sostituito la tendenza a discutere in permanenza la politica nelle sue linee generali, a tenere sotto processo quasi in permanenza i governi...Rievochiamo l'attività parlamentare di questi ultimi tempi, quella della Camera elettiva specialmente, e riscontreremo che l'aumento dei decreti-legge procede parallelo al procedere di questo atteggiamento parlamentare» (Atti Parlamentari, Senato, Discussioni, 31 maggio 1923).
Oviglio auspica il ritorno ad una "maggiore tecnicità legislativa parlamentare" ma, a questo fine, anziché sottolineare l'esigenza di valorizzare le commissioni permanenti "competenti per materia" (che continuano ad essere viste, invece, essenzialmente come organi "politico-partitici" che ostacolano l'attività del governo), elogia il Senato (che, come sappiamo, ha mantenuto gli uffici) "per la sua costanza e perfezione tecnica nel plasmare le leggi".
La soppressione delle commissioni (e il relativo ripristino degli uffici) viene infine attuata, come si è detto, nel 1924 quando, dopo le elezioni tenute con la nuova legge Acerbo, fascisti e filofascisti ottengono la schiacciante maggioranza della Camera (anche la riforma Acerbo, peraltro, non è assegnata alla competente commissione Affari interni, ma ad una commissione speciale nominata dal presidente della Camera, in cui viene alterata la proporzione fra i gruppi, aumentando il numero dei deputati favorevoli alla riforma, cioè democratici e demosociali, e diminuendo il numero di quelli contrari, cioè socialisti unitari e massimalisti) (Sabbatucci, 1989).
La monarchia e la classe dirigente liberale pensano infatti di utilizzare il fascismo per tornare al vecchio mondo pre-partitico, vedendo in Mussolini il restauratore dell'ordine statutario. Non solo il restauratore degli uffici (al posto delle aborrite commissioni designate dai partiti), ma anche il restauratore dell'autorità del premier (al posto degli accordi preventivi fra i gruppi politici), il restauratore del collegio uninominale (la legge del maggio 1925 non sarà tuttavia mai applicata e sostituita nel 1928 dalla legge elettorale "plebiscitaria") e, infine, il restauratore della monarchia costituzionale, un modello in realtà mai esistito anche se invocato, come è noto, da Sonnino a fine secolo e riproposto strumentalmente da Rocco con la legge del dicembre 1925 (che rescinde il rapporto fiduciario del governo con la Camera, mantenendo unicamente quello del governo con la Corona) (Rotelli, 1972).
In realtà, come è noto, il fascismo non si farà "ingabbiare" in un mero programma di restaurazione ma, con il modello del partito unico, inaugurerà un terzo genus, diverso sia da quello dell'"indifferenziato" notabilato liberale, sia da quello del democratico pluralismo partitico. E un terzo genus sarà anche il modello delle commissioni permanenti competenti per materia istituite nel 1938-39: né uffici scelti mediante sorteggio, né commissioni designate dai partiti (ormai soppressi) ma "organi" che operano nel contesto "autoritario e tecnocratico" della Camera dei fasci e delle corporazioni (non più elettiva) e ora anche del Senato (ormai completamente "fascistizzato" attraverso le "infornate" del governo) (Gentile, 2002).
Occorrerà passare attraverso la lotta antifascista, la Repubblica e l'Assemblea Costituente (nella quale i rappresentanti dei partiti di massa sono la stragrande maggioranza) perché le commissioni permanenti designate proporzionalmente dai gruppi parlamentari e competenti per materia, riappaiano come la struttura portante del nuovo Parlamento dell'Italia democratica.
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4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Si riportano qui di seguito in ordine alfabetico le fonti citate nel testo.
Archivio Storico della Camera dei deputati, XXV Legislatura, Verbale della Giunta per il Regolamento, 11 maggio 1920.
Atti Parlamentari, Camera, Discussioni:
24 luglio 1920, pp. 3868, 3872 e 3866;
26 luglio 1920, p. 3962;
6 agosto 1920, p. 4967
Atti Parlamentari, Camera, Documenti:
Legislatura XXV, Doc XI-ter, Istituzione di Commissioni permanenti. Approvato nella seduta del 26 luglio 1920 e coordinato dalla Commissione del Regolamento;
Legislatura XXV, Doc. XI-quater, Proposte relative all'autoconvocazione delle commissioni e della Camera, 4 agosto 1920;
Legislatura XXVI, Doc. V, n. 3, Modificazioni proposte dalla commissione del Regolamento, 15 giugno 1922, relatore Bevione.
Atti Parlamentari, Senato, Discussioni, 31 maggio 1923, p. 4910.
G. Ambrosini, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, "Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia", 1922,1 4, pp. 195-196.
A. Celotto, L' "abuso" del decreto-legge. Profili teorici, evoluzione storica e analisi morfologica. Roma, Cedam, 1997.
G. De Rossi, Il partito popolare italiano nella XXVI legislatura. Roma, Libr. edit. Religiosa, 1923, p. 283.
E. Gentile, Il Totalitarismo alla conquista della Camera alta. Senato della Repubblica, Archivio storico. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.
M. E. Lanciotti, La riforma impossibile. Idee, discussioni e progetti sulla modificazione del Senato regio e vitalizio (1848-1922). Bologna, Il Mulino, 1993.
D. Marrucco, La riforma del Senato nel primo dopoguerra: i tentativi di trasformare il Consiglio superiore del lavoro in Parlamento tecnico del lavoro, "Trimestre", 1988, nn.1-4, p. 254.
P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea (1830-1968), Bologna, Il Mulino, 2004.
W. Rathenau, L'economia nuova. Bari, Laterza, 1919.
E. Rotelli, La Presidenza del consiglio dei ministri. Milano, Giuffrè, 1972, pp. 310-311.
G. Sabbatucci, Il "suicidio" della classe dirigente liberale: La Legge Acerbo, 1923-1924, "Italia contemporanea", marzo 1989, n. 174, p. 65.
Idem, Il riformismo impossibile. Storie del socialismo italiano. Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 46-47.
M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Bari, Laterza, 1919.