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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 45 (Nuova Serie), giugno 2018

Intervento di Mario Morcellini

Continuiamo nel nostro "Speciale" del 2018 a dare spazio al seminario dedicato, su impulso del Sen. Zavoli, già Presidente della Commissione per la Biblioteca e l'Archivio Storico, al tema: Scienza e umanesimo, un'alleanza?. Dopo aver ospitato l'intervento di Pietro Greco, riportiamo qui l'intervento di Mario Morcellini nella seconda sessione, dedicata a Il ruolo del sistema scolastico nel dialogo scienza-umanesimo.

Studioso dei media, a lungo direttore del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale e preside della Facoltà di Scienze della comunicazione, è stato poi nominato commissario dell'Agcom-Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

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Come professore di comunicazione che si è sistematicamente occupato dei processi formativi, ritengo di aver studiato abbastanza gli effetti sociali della comunicazione. Ho fatto questa premessa non certo per snobismo, ma perché intendo sviluppare il mio intervento intorno al concetto di'bilancio sociale dell'istruzione' in Italia.

Inizio dall'analisi del titolo: Scienza e umanesimo, quasi si volesse dire «scienze 'dure' contro scienze 'umane'». Umanesimo e scienza sembrano considerati termini in antagonismo: nulla di più sbagliato, perché pensare all'umanesimo in opposizione alla scienza è una sconfitta per l'intera umanità e per una corretta storia delle idee scientifiche. Pensiamo piuttosto all'umanesimo in una prospettiva aperta, e dunque anche a confronto con la scuola e l'Università italiana. È proprio grazie all'Università, infatti, che il termine 'umanesimo' definisce i suoi sforzi: sia nei confronti di coloro che credono che il pensiero scientifico sia un elemento 'autosufficiente' per spostare in avanti la società, sia da parte di quanti ritengono che la tradizione culturale, lo scambio del giacimento di saperi (dal patrimonio culturale alla poesia, dalla musica alle espressioni artistiche) siano già di per sé elementi autonomi di formazione. Non riesco a vedere un'opposizione di fatto, soprattutto per un motivo filologico, e cioè la distanza ormai troppo forte rispetto agli argomenti resi celebri da Charles Snow [1]. Dobbiamo infatti dire la verità: i problemi della scuola di oggi sono altri. Se l'Università riesce ad avere una sua produttività sociale, ovvero una capacità di modificare i propri utenti, consentendo ai soggetti di dare il meglio delle loro possibilità, la scuola potrà salvarsi soltanto se la interrogheremo con domande radicali di tipo storico-comparativo.

Il primo elemento è quindi interrogarci sul 'rapporto scuola-televisione', un rapporto che fin dall'inizio ha spinto le istituzioni scolastiche ad aprirsi a saperi, linguaggi e climi culturali nuovi. È stato - ed è - un rapporto interessantissimo, di cui tanti di noi si sono occupati. Spiace dire che la relazione degli insegnanti italiani (in special modo delle scuole medie) con il mezzo televisivo è stata di sostanziale incomprensione: non si è percepita la sua capacità modificatrice, che - soprattutto nei primi anni in cui è andata in onda la prima era della divulgazione - concorreva ad una «socializzazione diversa degli individui» [2]. La scuola si è tendenzialmente arroccata in una difesa dei propri campi di legittimità, privilegiando la cultura alfabetico-grafica e il nozionismo; senza dimenticare che la scuola italiana ha a lungo patito quella forma di apprendimento e di collezione dei saperi. Se, dunque, la televisione ha costruito un nuovo tipo di consumo culturale, quello del tempo libero, la scuola è parsa incapace di comprendere che la sua nuova funzione era anche quella di favorire l'apprendimento ai linguaggi della comunicazione. È così apparsa riottosa a comprendere la svolta culturale - definita in quegli anni media education - finendo per diventare un fortino assediato nella difesa di saperi, peraltro ormai in via di riclassificazione, almeno in termini di importanza intersoggettiva. Si spiega in questo contesto anche la vicenda del Ministro Ruberti, con la sua spinta a pensare che i principali problemi della scuola e dell'Università fossero, all'epoca, il deficit di nozioni scientifiche e tecnologiche. È da quel momento che si assiste ad un indebolimento sistematico della cultura umanistica, a favore delle discipline tecnico-scientifiche.

La prima sconfitta clamorosa per la scuola (in cui la riforma poteva avvenire praticamente senza spese) riguarda proprio la media education e la difficoltà di condivisione di linguaggi tra docenti e utenti. Il 'linguaggio-utente' dovrebbe essere il primo viatico di un docente che vuole farsi capire dalle generazioni più giovani; questa battaglia, purtroppo, non è stata vinta. Certamente tanti docenti si sono distinti: amo citare, a titolo di esempio, Don Roberto Giannatelli, un grande pioniere della media education in Italia. Ma, di fatto, solo negli ultimi cinque-dieci anni si è affidato agli insegnanti il traghettamento dei giovani verso saperi 'regalati' dai media prima, e dal digitale oggi. Questo dimostra che la battaglia sarà ancora lunga.

Il secondo elemento della mia riflessione è il 'bilancio sociale dell'istruzione'. Brevemente, fino al 1993 la scuola italiana non trovava sufficienti prove della qualità complessiva di cui era portatrice. Fino a quella data, se si studiava l'impatto dell'istruzione sulla collocazione dei soggetti nel mercato dei consumi culturali rilevanti, ovvero come si comportavano i 'giovani adulti' (Pier Giovanni Grasso), non si trovavano prove tangibili di una significativa correlazione tra aumento della scolarizzazione e coerente espansione dei consumi. Nelle indagini statistiche non si trovava traccia di come i laureati o i diplomati dessero un apporto differenziale significativo, che consisteva per esempio nell'acquisto di libri o nel consumo di informazione. Eppure il miracolo della democrazia aveva già fatto emergere l'espansione degli studi universitari e un nuovo clima culturale e di aspettativa sociale, anche attraverso lo straordinario protagonismo delle donne. La svolta avviene a partire dal 1993: la scuola inizia a incidere sul bilancio dei comportamenti dei consumi culturali degli italiani. Analizziamo la fascia di età 18-35 anni, che nel catalogo Istat è quella che meglio fa cogliere il prolungamento nel tempo dell'alone formativo della scuola: non solo i ragazzi presentano una continuità di scelta non condizionata dalle prescrizioni del docente, e dunque l'insegnamento ricevuto si trasforma in comportamento abituale, ma si manifesta l'ennesima prova del miracolo in forza di cui la formazione rilascia effetti duraturi nel tempo. È soprattutto in questa fascia che, dal '93 ad oggi, la statistica sociale vede un aumento di produttività dei processi formativi. È vero che i sociologi parlano molto spesso di public ignorance, di inefficienza e di cattive notizie, ma è altrettanto vero che i giovani e i giovani-adulti sono protagonisti di un processo di innovazione culturale apparentemente inaspettato: i consumi culturali italiani che caratterizzano gli ultimi venti-venticinque anni sono caratterizzati da una nuova 'postura' e da un posizionamento dei giovani altrettanto nuovo. Consumi culturali di qualità, teatro, musica classica, visite a musei e a scavi archeologici non sono più percorsi di élite, quello che un tempo avremmo definito prerogativa di docenti e di settori limitati della società.

Quindi, se da un lato si assiste a una sconfitta della scuola nei confronti del mezzo televisivo, dall'altro si manifesta un'incredibile disponibilità dei docenti ad assumere il ruolo di educatori non di singoli saperi scientifici ma di 'comportamenti culturali' complessivi. È questa la vera svolta: gli educatori diventano promotori di innovazione culturale, con un approccio e una disposizione diversa rispetto a consumi che solo qualche anno fa erano considerati fenomeni di élite. È uno degli effetti miracolosi del processo democratico.

Veniamo ora al momento attuale, con il prepotente avvento del digitale e del suo meccanismo individualistico di approvvigionamento dei saperi. Si assiste, in questa fase, al fenomeno che Rodotà per primo ha definito di 'disintermediazione': un processo che non abbiamo saputo cogliere in tempo e neanche definire fino in fondo, rispetto al quale non abbiamo trovato una forza di reazione civile e intellettuale. È il 'rifiuto degli esperti', l'avvio di un processo in cui tutte le figure considerate esperte e competenti - insegnanti, politici, giornalisti, quelli che con una parola chiameremmo 'mediatori' - vengono progressivamente derubricate a ruoli sostanzialmente retrò se non inutili entro un processo imbarazzante di protesta contro l'establishment culturale. Questo fenomeno sta 'infettando' la società e la politica, provocando una riclassificazione della democrazia, saldandosi con il modo in cui è avvenuta in Italia la cosiddetta 'rivoluzione del digitale', dove la semplice diffusione di tecnologie a studiosi avventati e modernisti sembrava la promessa di una evoluzione culturale. Le nuove tecnologie danno la sensazione di poter sapere di più, anzi di poter sapere tutto in poco tempo; ma non esiste studio senza fatica e disciplina. È questa la battaglia a cui oggi siamo chiamati. Riprendendo il testo di Asor Rosa, Le due società [3], si può affermare che il nostro è un tempo in cui una rilevante area di soggetti sociali ha una forza culturale mai disponibile prima, perché la tecnologia, la ricchezza di stimoli - se sottoposte a un minimo di dosaggio e di variazione delle fonti - sono una risorsa straordinaria di abilitazione alla conoscenza e di empowerment di cittadinanza. In questo momento storico e sociologico è in atto uno scontro tra una società di 'partecipanti' e una società di 'culturalmente rassegnati'.

Tutto ciò può essere osservato attraverso l'analisi dei comportamenti italiani nei confronti dei consumi culturali. Lo studio della distribuzione sociale di scelte comunicative è possibile solo attraverso l'analisi complessiva e unitaria dello studio della televisione, dei giornali e del digitale. È un paniere unico, come ci insegna l'Istat [4]. Attraverso lo studio complessivo di questi dati, si manifesta una società più sicura di sé, più competente, che darà rassicurazioni sul fatto che la cultura verrà tramandata alle nuove generazioni.

Ma c'è anche un altro pezzo di società rispetto al quale dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi, anche senza diventare addetti alle relazioni esterne del digitale. L'ultimo dato cui voglio accennare è infatti la 'partecipazione'. Gli studiosi di ogni genere trascurano i segni dell'incredibile apatia che affligge la nostra società in termini di partecipazione civile e sociale e, in ultima analisi, anche politica. Se si osservano i dati sul declino della partecipazione - senza chiamare in causa una qualche forma di recessione culturale - risulta evidente come quest'ultima non sia vissuta come un valore. Io penso che una delle missioni della scuola, soprattutto al tempo del trionfo delle tecnologie digitali, diventi, dunque, quella di educare alla cittadinanza e alla partecipazione sociale.

[Testo scritto inviato dall'autore]

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[1] Charles Percy Snow, Le due culture. Venezia, Marsilio, 2005.

[2] Mario Morcellini, Passaggio al futuro. La socializzazione nell'età dei mass media. Milano: Franco Angeli, 1992.

[3] Alberto Asor Rosa, Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana. Torino, Einaudi, 1977.

[4] Il lavoro sistematico del nostro Istituto pubblico di analisi dei dati, oggi presieduto da uno studioso autorevole come Giorgio Alleva, è una fonte decisiva per rendere sistematico e 'profondo nel tempo' l'approccio ai consumi culturali, e la conseguente attività didattica a beneficio degli studenti. In particolare, l'indagine Aspetti della vita quotidiana analizza aspetti fondamentali della vita quotidiana e i relativi comportamenti, con un focus sull'utilizzo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. A questa si aggiunge l'indagine I cittadini e il tempo libero che rileva informazioni sulle attività ricreative e culturali.

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