A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Donne in fuga: vite ribelli nel Medioevo
Donne in fuga: vite ribelli nel Medioevo. Bologna: Il Mulino, 2017.
(Collocazione: Fondo Generale - 274. I. 10)
"Chè egli … di tratto … gingeva a lei … e diceva: «Dì di sì!»; il perché ella, vergognandosi di non disdire al suo marito …, diceva quello l'era detto, bene che a lei paresse errare, ma per paura e per ubbidienza": grazie a tale docile annuire, intimidito e cieco, il fiorentino Iacopo di Zanobi Arnolfo, sullo scorcio del Trecento, riusciva a farsi cedere, quota dopo quota, una larga parte della ricca dote della moglie Sandra, a copertura dei propri azzardi finanziari spesso di non fortunato esito. Se ne lamentava, senza negargli tuttavia la qualità di "savio giovane e molto vertudioso", non la defraudata, ma il fratello di lei, Giovanni di Pagolo Morelli, nel suo libro di ricordi di famiglia, circostanza comunicativa che mette in luce come non soltanto l'agire nel mondo, persino in forme spregiudicate, ma anche il controllarlo attraverso la cultura e il testimoniarlo attraverso la scrittura fossero di fatto prerogative maschili. Ma la rapida scena è anche eloquente nel rappresentare l'essenza dei meccanismi che, nel quotidiano medievale, regolavano la vita della donna, condizionandola verso destini segnati: ogni pedagogia e ogni aspettativa rispetto al comportamento femminile chiedeva, difatti, una consenziente remissività pacificata all'interno di una posizione protetta ma subalterna, esercitata in spazi chiusi e custoditi, espressa al servizio di una dimensione comunitaria istituzionalizzata - il matrimonio o l'ordine religioso - raramente scelta, regolarmente assegnata prima di ogni cosciente consapevolezza e fuori dalla volontà di colei che vi avrebbe interamente consumato dentro la propria esistenza.
La diffidenza del mondo medievale verso la 'solitudine' della donna, non solo fisica ma anche, e forse soprattutto, intellettuale, è iscritta profondamente nelle norme sociali e giuridiche e nelle giustificazioni teologiche del tempo, e, in un sistema di ruoli resi categorie ferme, si è manifestata come rigida ostilità alla sua autonomia e al suo dinamismo, fino a negare la probità del suo stesso muoversi liberamente nello spazio. Ma a questa tutela non tutte accondiscesero, non tutte durarono nell'acquiescenza a cui le si voleva incardinate per vocazione. E queste donne irregolari, queste 'donne fuori', per così dire, sono le protagoniste dell'ultimo, breve ma intenso, lavoro di Maria Serena Mazzi, dal titolo Donne in fuga: vite ribelli nel Medioevo (Il Mulino, 2017), che, dopo i precedenti suoi Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento (Il Saggiatore, 1991) e Come rose d'inverno (Comunicarte, 2004), e quasi a supplemento tematico scritto ad accrescimento di quel caposaldo ricostruttivo e metodologico costituito dalla Storia delle donne in Occidente diretta da Georges Duby e Michelle Perrot (Laterza, 1990-1992: il secondo volume è dedicato al periodo medievale), aggiunge un altro accurato tassello alle ricerche sulla storia della condizione femminile, secondo lo stile di ricerca e le modalità di trattazione che alla studiosa, professoressa ordinaria di Storia medievale, sono consueti: quelli di un umanesimo induttivo, che investiga, con penetrante partecipazione, le persone e i loro casi, per giungere agli istituti collettivi, sociali, giuridici e religiosi, in cui esse si muovono e che straordinariamente affrescano di minuti e vividi dettagli attraverso le loro singolari vicende.
A tale ricostruzione, di larghi contesti, Mazzi lavora con un approccio che si mostra estremamente originale per l'utilizzo di un procedimento, per così dire, al negativo: fuga, infatti, è trasgressione, allontanamento contraddittorio da una norma o da una condizione imposta, e sempre sofferta, che spinge ad una percorrenza solitaria, ma autonoma, vitale e creativa, originariamente intellettuale, poi anche inevitabilmente geografica (esistono spazi anche nella propria mente), altrove dalla propria distopia. Così, le quasi cento figure di donne, che scorrono davanti ai nostri occhi per la testimonianza dell'autrice, non solo si impongono ciascuna in tutto lo spessore esistenziale dei loro casi, ma gettano contemporaneamente una luce intensa sulla norma collettiva che questi casi ha prodotto quali suoi momenti individuali di crisi, di rottura o di rifiuto: una sequenza di incontri con vicende che sono personali, dunque, ma non irrelate, e che, con forza di esempio, rappresentano ciascuna quasi un dantesco paradigma della realtà storica e delle dinamiche sociali in cui sono state vissute.
Le storie raccolte da Mazzi punteggiano la geografia di tutta Europa lungo lo svolgersi del basso Medioevo: non soltanto italiane, dunque, e qui in prevalenza toscane ed emiliane (regioni dove la studiosa ha peraltro insegnato a lungo), ma analogamente francesi, tedesche, fiamminghe, inglesi, svedesi, spagnole. Poche sono "viaggi di libertà" fortunati, la più parte sono ribellioni fallite, o terminate in riconduzioni forzate e in castighi talvolta feroci, o approdate in luoghi peggiori di quelli lasciati alle spalle o diversi dai ricercati. Su tutte pesa una grande parzialità delle fonti, sia perché chi trasmette (per iscritto) ha quasi esclusivamente mano d'uomo, sia perché, vale in generale e ancor di più per le donne, si trasmette intenzionalmente solo in presenza di privilegio sociale o di santità.
Facendo fronte a queste limitazioni, l'autrice ha condotto un attento ed empatico lavoro di distillazione della voce femminile da versioni che la rappresentano sì, ma in forme non autentiche e spesso non favorevoli; contemporaneamente, si è aperta un difficile percorso indiretto alla ricerca della testimonianza ancor più tenue delle appartenenti ai ceti umili, trovandone eco nelle carte di quell'amministrazione o di quel tribunale, civile o religioso, con cui esse si trovarono, nella loro stessa condizione di 'fuggitive' dalla norma, a doversi confrontare. Mazzi studia i loro passi scegliendo, accortamente, come terreno, e come punto di partenza dei loro percorsi di allontanamento, stati sentiti come socialmente 'regolari', che comportavano tuttavia un'adesione e una permanenza coatta al loro interno e, come risposta, un'alta soglia di disponibilità e di adattamento individuale. Nel fare ciò, la studiosa tiene d'occhio e registra, con grande penetrazione, anche le profonde perturbazioni che tale allontanarsi scatena sul piano del tessuto delle relazioni familiari e collettive, già in origine di per sé stesso spesso sconvolto. Distribuiti tra il sacro e il profano, questi stati sono categorizzabili: sono l'ortodossia teologica, il matrimonio e l'ordine religioso (con la pratica diffusa, tra le classi medio-alte, delle unioni sponsali e delle monacazioni forzate e precoci) e le diverse forme di asservimento socio-economico.
È categorizzabile, per contro, anche la condizione di chi da questi stati 'regolari' si allontana, incontrando esiti illeciti o diffidenza e riprovazione sociale. Sul terreno religioso, si va dalla "stravaganza" delle spiritualità estatiche all'eresia, individuale come di gruppo, per finire alla stregoneria. È interessante notare come nel trascendentale, nella Parola d'Altro, la donna medievale trovi spazio e giustificazione per la propria manifestazione discorsiva, accettabile tuttavia solo all'interno del misticismo; come l'eresia femminile sia una concentrazione di emancipazioni diverse: infrazione intellettuale e teologica; trasgressione del parlare reso in pubblico e nella dimensione itinerante; evasione propria, fatta di latitanza e di travestimento; vita senza tutele e, per contro, capace della facoltà di organizzare reti e modalità relazionali diverse; e come, infine, la stregoneria porti la sfida femminile sul piano del controllo della verbalità creatrice e della trasmissione sapienziale.
Sul terreno delle istituzioni, le "malmaritate" evadono da matrimoni infelici secondo forme, possibilità, o anche capitolazioni, diverse strettamente legate alla classe sociale di appartenenza (talvolta, l'ingresso in un istituto di carità, ai cui intenti, una mistione tra riabilitazione e penitenza, alcune cercheranno di nuovo di sottrarsi); dai rigori non scelti della vita claustrale, invece, si fugge per lo più dentro il convento, con la secolarizzazione dei comportamenti (nell'apostrofare comune, l'associazione è con il meretricio) o l'appropriazione di una carismaticità pastorale prettamente maschile, sul piano individuale come di intere comunità. Qui è interessante notare come matrimonio e chiostro, entrambi segreganti, possano essere percepiti ciascuno come l'unica via praticabile di fuga dall'altro, messa in atto giocando disperatamente le proprie povere carte sul tavolo di due giurisdizioni diverse, ove possibile prima dell'ingresso forzoso in una delle due; o come spesso la scelta autonoma della donna rispetto all'uno o all'altro stato venga sanzionata dalla famiglia di origine con la 'reclusione' nel suo opposto (diversi casi riguardano le vedove). Vengono, poi, le serve (un'attenzione speciale è per la condizione delle casate) e le schiave, spinte altrove da una vita insostenibile di abusi e braccate dalla partecipazione collettiva alla loro ricattura; da ultimo il meretricio, audace ed impudente sia che si spinga in libertà tra spazi pubblici interdetti o cerchi uscita dai bordelli per i debiti contratti con un tenutario violento.
I quattro capitoli in cui il libro si struttura (I. Uscire dai limiti; II. Nella buona e cattiva sorte; III. Recluse; IV. Via dai padroni) si snodano dunque agilmente nell'indagine di queste categorie sociali attraverso una ricca galleria di ritratti veri. Alcune delle figure presentate sono dotate di una nitida identità e, talvolta, di una notorietà che ha attraversato i secoli: come l'inglese Margery Kempe, che, sposata con un uomo non scelto, dopo essersi condotta in perfetta osservanza di ciò che da lei ci si aspettava, partoriti quattordici figli e assecondato il marito, si porrà in definitiva sequela delle proprie visioni mettendosi in viaggio, separandosi dalla famiglia e rischiando nel mondo sul filo dell'eresia, tra pubblica diffidenza ed emarginazione. Altre sono vite generate senza identità, a loro riassegnata da una domanda antica: Maddalena fu deposta agli Innocenti di Firenze priva di segni di riconoscimento, ma venne annotata insieme al nome dei potenti Cerretani, come figlia di una serva abusata, e, semplice voce di registro, entrò e uscì dall'istituto, inconciliabile ad ogni affido. Altre invece sono frammenti anonimi di esistenze inghiottite: la monaca che si getta dall'alto di un monastero, e non sappiamo, ma forse avvertiamo, il perché; o la giovane schiava mora trovata impiccata nella cucina della casa padronale a Genova, di cui nulla conosciamo, se non il suo corpo eloquente, frustato e battuto. O ancora gruppi in movimento: come le catare francesi nel loro pellegrinare evangelizzatore e poi nella latitanza nei boschi, per evitare le stragi e le condanne al rogo; o, infine, come le prostitute in fuga da una Ferrara appestata di inizio Trecento, libere e audaci ("uscire dal bordello, trovare un varco meno custodito nella cerchia muraria, arrampicarsi e correre via, tutte insieme per la pianura desolata intorno alla città") contro l'ordinanza estense che le voleva rinchiuse in nome della pubblica sanità. È l'immagine, che resta accesa negli occhi, con cui questa ricerca, paziente e appassionata, dopo centottanta pagine ricche di spunti intellettuali e di pietà, si chiude, avendo testimoniato chi, in un lontano passato che molto da vicino ci parla, ha cercato libertà, a conti fatti, dalla propria condizione di donna, uscendo nel mondo o rompendo muri con la mente ed esercitando fino in fondo il diritto alla propria franca, o disperata, ostinazione.