A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Dichiarazioni sulla battaglia di Mentana
Nell'ambito dello "Speciale" del 2020, dedicato alla ricorrenza del 150° anniversario della breccia di Porta Pia, abbiamo dato evidenza ad alcuni significativi documenti parlamentari - oggi accessibili anche in internet - del decennio che va dal 1861 al 1870: i discorsi di Cavour alla Camera nel numero di febbraio, un disegno di legge accompagnato dall'Indirizzo al Santo Padre di Bettino Ricasoli nel numero di aprile, e nel mese di giugno la relazione del sen. Imbriani al disegno di legge presentato da La Marmora per il trasferimento della capitale a Firenze a seguito della Convenzione di settembre del 1864.
In questo numero proponiamo invece uno sguardo sulle reazioni politiche suscitate da un momento controverso del percorso verso il completamento dell'unificazione nazionale: la battaglia svoltasi presso Mentana nel 1867. Anche in questo caso il testo del discorso riportato, pronunciato dal generale Luigi Federico Menabrea nell'assumere la presidenza di un nuovo Gabinetto, è disponibile in internet grazie ai progetti di digitalizzazione degli Atti parlamentari.
Per chi volesse inoltre approfondire con le numerose pubblicazioni disponibili sull'argomento nel Polo bibliotecario parlamentare, consigliamo di interrogare il catalogo http://opac.parlamento.it con una ricerca per soggetto: "Mentana (battaglia, 1867)" per i record della Biblioteca del Senato e "Battaglia di Mentana <1867>" per la Biblioteca della Camera.
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Il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, avvenuto nel 1865, ha rallentato ma non arrestato il movimento che già dalla nascita del Regno d'Italia ne voleva Roma come centro politico e amministrativo. L'anno 1866 vede uscire le truppe francesi dallo Stato pontificio - in ossequio alla Convenzione di settembre del 1864 - e il Regno d'Italia acquisire nei propri territori, a seguito della terza guerra d'indipendenza, Mantova, il Veneto e parte del Friuli.
La guerra ha inoltre riacceso, grazie alla vittoria nella battaglia di Bezzecca, il prestigio personale acquisito nel tempo da Giuseppe Garibaldi, che in diverse occasioni pubbliche sollecita una sollevazione in Roma. Nonostante la posizione del governo rappresentato da Urbano Rattazzi, che invita al rispetto degli accordi di non aggressione allo Stato pontificio presi con l'alleato francese (il quale per di più aveva giocato un ruolo importante per l'Italia nella guerra da poco conclusa), e nonostante l'arresto di Garibaldi, che pur condotto a Caprera riesce tuttavia a tornare in breve in azione, a partire dall'ottobre del 1867 l'alto Lazio diventa teatro di scontri a fuoco.
Il re Vittorio Emanuele II, in un proclama sulla Gazzetta Ufficiale n. 294 del 27 ottobre 1867, prende le distanze dalle «schiere di volontari» che hanno preso le armi e «violato le frontiere dello Stato» (pag. 1), ribadendo davanti all'intera Europa la fedeltà ai propri impegni. Nondimeno, solo due giorni dopo, per ordine di Napoleone III le truppe francesi sbarcano nuovamente a Civitavecchia in supporto a quelle pontificie, dispiegandosi attorno a Roma. L'avventura garibaldina si chiude nella prima settimana del novembre 1867 a nord della città, in uno scontro presso Mentana, con la vittoria dell'esercito pontificio.
La stessa Gazzetta Ufficiale che aveva pubblicato il proclama del Re riportava anche la notizia dell'insediamento di un nuovo governo a seguito delle dimissioni di Rattazzi. L'incarico di formare il nuovo Gabinetto era stato in quei giorni affidato a Luigi Federico Menabrea, deputato sin dal 1848 e senatore del Regno dal 1860, militare di carriera che aveva già ricoperto numerosi incarichi politici e diplomatici oltre che scientifici, e che adesso assumeva anche il ministero degli Affari esteri e della Marina. Una delle sue prime dichiarazioni pubbliche si trova in un comunicato del 30 ottobre (indirizzato ai rappresentanti diplomatici del Re ma pubblicato tra le "Ultime notizie" a pagina 2 nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 1° novembre 1867) che espone le posizioni del Governo e ne esprime il rispetto per il diritto internazionale.
Siamo ormai nella X legislatura del Regno d'Italia. E proprio in occasione della presentazione del nuovo Gabinetto, nella seduta della Camera dei deputati del 5 dicembre del 1867, il presidente del Consiglio entrante pronuncia un discorso che, tanto più per la circostanza che lo ospita, espone le linee programmatiche del suo dicastero, spiega l'atteggiamento tenuto nel difficile frangente appena trascorso (anche con un espresso richiamo alla Convenzione di settembre, posta a fondamento delle successive azioni), ripercorre i punti salienti della "questione romana".
Il resoconto stenografico della seduta (che riportiamo qui di seguito pressoché integralmente, rispettando la grafia del testo originale nel caso di espressioni oggi desuete) è consultabile sul portale storico della Camera, mentre sul sito del Senato, dove il nuovo Governo espone il suo programma poche ore dopo nella stessa giornata, si trovano per ora gli indici dell'attività in Senato di Menabrea. Nel discorso in Senato, che sostanzialmente ripercorre quanto detto alla Camera, il nuovo Presidente del Consiglio pone ancora maggiore enfasi sullo spirito di sacrificio di chi ha accettato di «far parte del Ministero in queste gravi contingenze», non obbedendo che «ad un solo sentimento: quello cioè di provvedere all'Amministrazione dello Stato in un momento in cui era circondato da gravi pericoli»; e conclude con l'auspicio «di trovare in questo recinto, che fu sempre primo a secondare il Governo ogni qual volta ha inalberato la bandiera dell'ordine, [...] di trovare valido appoggio» per la «ristorazione del principio d'autorità» (si cita da Rendiconti del Parlamento italiano. Discussioni del Senato del Regno, X Legislatura, Sessione del 1867-1868, Secondo periodo, 2. ed. ufficiale riveduta, vol. II, pp. 456-459).
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Comunicazioni e dichiarazioni politiche del Ministero
Prima che il Parlamento riprenda i suoi lavori mi permetterà la Camera di esporre le circostanze le quali ci portarono al reggimento della cosa pubblica, e di rendere ragione dei nostri atti, e di dichiararvi quali sono gli intendimenti della presente amministrazione.
Io rammenterò brevemente come, in seguito ai tentativi fatti dalle bande di volontari contro lo Stato pontificio, la Francia, per porvi un termine, avesse deciso d'intervenire.
Nello stesso tempo il Ministero Rattazzi rassegnava le sue dimissioni.
Veniva il generale Cialdini incaricato di comporre un nuovo Gabinetto. Intanto il generale Garibaldi, allontanatosi da Caprera, varcava il confine pontificio.
In questo frattempo il generale Cialdini, non essendo riuscito a formare un nuovo Ministero, il Re volle affidarmi questo grave incarico. Ed io mi vi accinsi, mentre si sperava che la Francia, che aveva sospesa la spedizione stata deliberata, non avrebbe mandate le sue truppe nello Stato pontifìcio. Ma la nostra accettazione ebbe luogo al momento in cui giunse la fatale notizia, che le schiere francesi erano partite e che stavano per isbarcare a Civitavecchia.
Io, o signori, non ho d'uopo di molto insistere sopra le condizioni del paese in quei tristi momenti. Basta, o signori, che le richiamiate alla mente per comprendere agevolmente che gli uomini che hanno voluto associarsi a reggere la cosa pubblica in quei gravi frangenti hanno dato prova di devozione al Re ed al paese. E questo lo dico altamente per rispondere ad ogni insinuazione che avesse potuto farsi riguardo ai sentimenti che ci hanno animati nell'assumere il potere. Basti il dire che nell'interno del paese era nata la sfiducia e lo sconforto, che il principio di autorità era scosso. I partiti si agitavano, gli uni per inalberare una nuova bandiera, gli altri per ristaurare ordini di cose che sono spariti per sempre, altri spinti da odii, altri partiti ancora agognando nuovi governi. Intanto l'esercito era scomposto, la Francia era irritata contro di noi, e nessuna alleanza efficace si poteva avere in quei solenni momenti. Noi però avevamo accettato. In quei frangenti avemmo la notizia che era ferma intenzione del Governo francese d'intervenire. Immediatamente stimammo nostro dovere di fargli sapere che, qualora le sue truppe fossero sbarcate a Civitavecchia, anche noi avremmo varcato il confine.
E non credete, signori, che questo fosse un atto vano. Esso era anzi fondato sul sentimento del nostro diritto, diritto che ognuno sarà per riconoscere. Dal momento che la Convenzione del 1864 poneva, per così dire, sotto la garanzia mutua della Francia e dell'Italia la Santa Sede, dal momento che una delle due potenze si era creduta in grado d'intervenire sul territorio pontificio, egual diritto doveva competere a noi. Ebbene, signori, [...] le nostre truppe passarono la frontiera. Forti del nostro diritto, noi credevamo che quest'atto, se non era riconosciuto officialmente, sarebbe stato considerato nel suo giusto valore.
E con questo, signori, non si voleva far atto ostile alla Francia, nè al Governo pontificio, poiché ognuno sa in quale condizione era il nostro esercito, e come non potesse certamente sostenere una lotta; poiché sui confini pontifici sopra lo sviluppo di circa 300 chilometri noi non avevamo in quel momento più di 15.500 uomini, dei quali tutto al più 12mila combattenti, ripartiti in più corpi. Dunque non era certamente con questa truppa che si poteva pensare a muover guerra alla Francia. Ma, come dico, malgrado la insufficienza delle nostre forze, eravamo forti del nostro diritto, epperciò siamo entrati nel territorio pontificio. Fummo inoltre a ciò spinti dal desiderio manifestato da quelle popolazioni, le quali domandavano la protezione dell'esercito nazionale contro alcuni disordini che si erano commessi al tempo dell'invasione: fu anche nostro intendimento di dar campo ai volontari che avevano preso parte a quel moto, di udire più facilmente la voce del Re che aveva parlato col proclama del 27 ottobre.
Qui, o signori, vi debbo rammentare questo proclama: esso fu fatto nei momenti che ho descritto, ed aveva per iscopo non solo di richiamare il paese all'osservanza dei patti, ma anche di sconoscere un'invasione che portava una bandiera diversa dalla nostra [...].
Annunziammo pure che i comitati di soccorso per l'insurrezione sarebbero stati sciolti, e la parola fu da noi mantenuta. Fummo d'avviso che quest'atto fosse necessario per far cessare e togliere que' centri, dai quali l'agitazione poteva facilmente propagarsi nel paese.
Malgrado gl'inviti che ripetutamente si fecero al generale Garibaldi che comandava i volontari per rimoverlo da una lotta la quale si riteneva non atta a condurre a risultamenti felici, tuttavia egli volgeva le sue colonne verso Tivoli, allorquando, le sue forze attaccate a Mentana, dovettero soccombere.
Dopo questa per i volontari fatale giornata, questi rientravano nel territorio dello Stato, e con essi il generale Garibaldi. I volontari erano disarmati ed il generale Garibaldi era arrestato.
Di quest'atto il Ministero è pronto a renderne conto; egli era autorizzato dalla legge, la quale vieta che forze armate non dipendenti, non autorizzate dal Governo varchino il confine, mettendo lo Stato in pericolo di una guerra contro una potenza straniera.
[...] Si conosce l'influenza che il generale Garibaldi può esercitare sulle masse. In questi momenti dolorosi in cui si trova il paese, certo la sua presenza avrebbe potuto cagionare dei perturbamenti che sarebbero stati rincrescevoli per tutti. Era dunque necessario che il Governo provvedesse a che non fosse turbata la pubblica tranquillità.
Qui debbo ritornare signori, all'occupazione fatta dalle nostre truppe sul territorio pontificio, e sono lieto di dire che queste truppe furono ovunque accolte con riconoscenza dalle popolazioni e diedero l'esempio dell'ordine, della disciplina e del rispetto. In quel breve soggiorno che fecero in quelle provincie, v'inspirarono il rispetto e la fiducia.
Ma dopo il fatto di Mentana, dopo che lo Stato pontificio più non apparendo in pericolo pel fatto delle bande che lo avevano invaso, era cessata perciò la necessità di una occupazione qualsiasi di una potenza estranea al Governo della Santa Sede, immediatamente dopo, spontaneamente (con forza) noi abbiamo dato l'ordine alle nostre truppe di ritirarsi.
Quest'atto era dettato da varie considerazioni; la prima era quella di non lasciare nessun pretesto alle truppe francesi di rimanere lungamente nel territorio pontificio, dopo che le nostre truppe ne fossero uscite. La seconda ragione era quella d'impedire che si perpetuasse l'occupazione e venissero altre truppe a rinforzare quelle che erano già entrate: poiché, o signori, è bene che sappiate che erano sbarcate colla prima spedizione due divisioni, e che una terza stava sul punto di partire da Tolone, quando si seppe a Parigi che noi avevamo ritirate le nostre truppe: allora il contrordine di partenza fa dato, ed alcuni giorni dopo fu spiccato l'ordine, che attualmente si eseguisce, di sgombrare Roma. [...]
Io debbo eziandio parlarvi, o signori, di un decreto, col quale il Governo del Re stabiliva che una somma di 50.000 lire sarebbe destinata ai feriti nei combattimenti avvenuti sul territorio pontificio. Questa disposizione [...] fu dettata dal semplice sentimento di umanità [...].
Dunque [...] il Governo prese una grande risoluzione. [...] I meno colpevoli nei tentativi fatti contro lo Stato pontificio furono certamente quelli che impugnarono le armi e passarono i confini.
Alcuni di essi sono rientrati, e l'atteggiamento delle popolazioni avrà loro dimostrato che esse, prima di tutto, vogliono l'ordine e la quiete, per potere attendere al lavoro ed allo sviluppo della ricchezza pubblica.
Convinti, o signori, che nulla potrà riuscirne, se non che del bene pel paese, abbiamo proposto al Re, che ha accettato, un'amnistia pei fatti accaduti. Questo decreto d'amnistia venne firmato questa mattina, ed è concepito nei seguenti termini:
«È concessa amnistia agli autori e complici dei reati d'invasione del territorio pontificio, commessi nei decorsi mesi, salva l'azione penale per qualunque altro reato.»
Sono così esclusi anche i delitti contro la sicurezza interna dello Stato.
Vengo, o signori, attualmente a discorrere della quistione romana. (Movimenti di attenzione)
Consentirete, o signori, che io sia molto discreto sopra questo argomento, inquantochè esso è attualmente entrato nella via diplomatica, per cui è necessario avere al riguardo la massima riserva.
Io non parlerò dei desiderii ripetutamente espressi da tutte le popolazioni del Regno; ma soltanto per dimostrare, specialmente all'estero, come cotesta questione abbia bisogno di una soluzione, credo opportuno di fare un semplice cenno di una condizione materiale, che ne farà sentire maggiormente l'urgenza.
Signori, l'Italia ora costituisce un solo regno, dalle Alpi fino all'estrema Sicilia. Questo fu il desiderio di tanti secoli, il risultamento di lunghi sacrifizi. L'Italia è, sarà e deve essere; e, malgrado i tentativi che si possano fare per distruggerla, noi teniamo per certo che essa resisterà; e se mai per qualche istante una potenza, che io però non credo che esista, volesse o potesse soffocare quell'unità, questa risorgerebbe più grande, e nelle agitazioni sue potrebbe compromettere la pace d'Europa, e forse anche gl'interessi più elevati della coscienza umana. (Benissimo!)
Dunque l'Italia è e sarà. Ma esaminiamo, o signori, la sua condizione topografica.
Tra le provincie meridionali e le altre esiste un piccolo Stato che occupa il cuore, direi, dell'Italia, quel punto in cui convergono le principali comunicazioni fra il nord ed il sud. Ed in quello Stato si trova la città la più illustre del mondo, la città che è la gloria d'Italia ed alla quale si riferisce la pagina più grande della sua storia. Questo Stato è lo Stato pontificio, e quella città è Roma.
Ebbene, signori, questo piccolo Stato è un ostacolo alle rapide comunicazioni che debbono esistere fra le varie provincie del regno; è un ostacolo grave, e bisogna dire che se quel Governo si prestasse a rendere le comunicazioni meno difficili, forse l'inconveniente che ne deriva sarebbe più sopportabile; ma, al contrario, vediamo che agli ostacoli naturali se ne aggiungono degli altri. Le comunicazioni con Roma sono più difficili di quello lo siano le comunicazioni dell'Italia coi paesi stranieri, e si può dire che Roma è più isolata dall'Italia di quello che lo sia qualunque altra capitale. (Segni di approvazione)
[...] È naturale, signori, che tutta l'Italia risenta vivamente gl'inconvenienti di una tale condizione di cose e che protesti vivamente contro la medesima, pronunziando la parola Roma [in corsivo nel testo]. Ciò è naturale.
Io domando: se Parigi fosse in mano d'una potenza estera, degl'Inglesi, per esempio, e tutto il resto della Francia avesse un Governo nazionale, che cosa farebbero le provincie della Francia che sono attorno a Parigi? Farebbero come noi. (Bravo! Benissimo!)
Dunque non si venga sempre ad accusare l'Italia di essere rivoluzionaria, perché aspira a quello stato di cose che le è naturale. (Vivi segni di approvazione)
In sullo scorcio del medio evo l'invenzione della stampa fece la più grande rivoluzione nella mente umana; ma nel nostro secolo vi sono altre invenzioni che hanno fatto una rivoluzione, direi, materiale, fìsica, e sono il telegrafo e le strade ferrate, e queste invenzioni fanno sì che tutti i popoli, i quali hanno la medesima origine e la medesima lingua, i medesimi interessi tendono ad agglomerarsi. L'Italia non può sfuggire a questa legge inesorabile. (Bravo! Bene!)
Ma, signori, qui si presenta un'altra questione, ed è la questione del pontefice, il capo supremo della Chiesa cattolica. Quel capo non può avere altra sede che a Roma, perché è là l'origine del cattolicismo, è là che vi sono tutte le sue tradizioni.
Dunque il sommo pontefice deve stare a Roma.
E non crediate, o signori, che quella potenza, che è debole materialmente, non sia forte per altri riguardi. Sì, signori, quella potenza nella sfera della sua azione è grande e forte. D'altronde noi apparteniamo ad una nazione essenzialmente cattolica, ed il nostro primo dovere è di rispettare il capo supremo della religione della grande maggioranza dei nostri concittadini.
In conseguenza, non è colla forza nè colla violenza che si può andare a Roma; ogni tentativo, quand'anche riuscisse momentaneamente, non potrebbe avere duraturo successo; ma è con altri mezzi che bisogna andarvi. Ed io dirò che il Parlamento nazionale, nella celebre seduta del 27 marzo 1861, ben lo riconosceva e lo dichiarava; e possiamo dire che coloro i quali hanno varcato il confine pontificio per andare a mano armata a Roma, hanno violato il voto del Parlamento.
Ed infatti, o signori, mi basta ricordare le parole del conte di Cavour:
«Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d'Italia. [...] Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni, noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre, senzachè la riunione di questa città al resto d'Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d'Italia e fuori d'Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l'indipendenza vera del pontefice venga a menomarvisi. Noi dobbiamo andare a Roma senza che l'autorità civile estenda il suo potere all'ordine spirituale.»
Ebbene, o signori, questi risultati erano accennati dal grande statista, nè si possono ottenere colla forza, bensì colla moderazione, e la nazione raggiungerà il suo intento tanto più rapidamente, quanto più noi ci mostreremo potentemente organizzati e forti all'interno ed inspireremo fiducia all'estero, facendo rispettare il principio di autorità per cui rimanga convinto il pontefice che egli non ha bisogno di andare a chiedere aiuto e protezione all'estero, ma che egli deve trovare la sua principale ed efficace protezione nell'Italia. (Bravo!)
Dunque, o signori, in questa via si deve restare, nè mi estenderò più lungamente sopra questo argomento, perchè ognuno di voi sa come tutte le potenze di Europa sono convocate ad una conferenza per trattare l'ardua questione, ed io non vorrei con una mia parola compromettere e pregiudicare nessuno dei gravi interessi che l'Italia sarà chiamata a difendere e che il Ministero attuale saprà tutelare.
Dopo, o signori, di avervi parlato dei nostri atti ed avere dato alcuni cenni sopra la questione importante politica che si agita attualmente per l'Italia, cioè la questione romana, è d'uopo che io chiami la vostra attenzione sopra le cose nostre interne.
Io discorrerò prima di tutto dell'esercito.
L'esercito era scomposto; e noi abbiamo creduto fosse di buona politica, e nello stesso tempo di buona amministrazione, di fare sì che alcune divisioni fossero sempre tenute mobilizzate all'esempio di quanto si fa presso tutte le altre potenze nostre vicine.
Questo non sarà di un aggravio sensibile pel bilancio; ma nello stesso tempo ci porrà in grado di provvedere ai pericoli che fossero per nascere da qualunque parte.
L'esercito, o signori, merita tutta la vostra attenzione, e soprattutto dopo gli esempi avuti in questi ultimi tempi, in cui, sebbene potesse avere qualche ragione di sentirsi sconfortato, cionondimeno non si ebbero a notare nè atti d'indisciplina nè d'insubordinazione, ma anzi esso fece prova della più incrollabile disciplina e di affetto al Re ed alla patria.
Vi ricorderò, o signori, i funesti momenti in cui alcune provincie dello Stato erano travagliate ed infestate dal morbo asiatico; allora chi diede i più segnalati esempi di abnegazione e di carità? Fu l'esercito. [...]
Io chiamerò eziandio la vostra attenzione sulle finanze.
Voi sapete, o signori, che la finanza fu sempre e giustamente l'oggetto delle grandi preoccupazioni del Parlamento. Per certo gli ultimi fatti accaduti non valgono a migliorarne le condizioni, poiché, oltre le spese che originarono, hanno necessariamente alterate coll'agitazione le sorgenti del lavoro ed in conseguenza quelle della ricchezza pubblica. [...]
Ma, signori, se noi vogliamo ristorare le finanze e mantenere gl'impegni dello Stato, bisogna introdurre nelle amministrazioni tutte le economie e le semplificazioni che sono necessarie.
[...] Ma, signori, per meglio ristorare le finanze c'è anche una cosa a fare, ed è anzi tutto di mantenere l'ordine nell'interno per favorire lo sviluppo del lavoro e della produzione in tutti i modi, e specialmente in maniera più adatta alle condizioni fisiche d'Italia, aiutandolo con una conveniente istruzione primaria, che è quella che addimostra all'uomo i mezzi di valersi del suo ingegno per isviluppare la ricchezza ed il suo benessere.
[...] Noi, signori, andremo risolutamente nella via che ci siamo tracciata, non ci lascieremo smuovere dalle minaccie, non saremo commossi dalle ingiurie, non risponderemo alle provocazioni, ma tenderemo nettamente al nostro scopo, perchè noi abbiamo una sola linea, un solo principio, quello del dovere.
Ora, in questo momento noi facciamo, o signori, appello a tutti coloro che vogliono l'ordinamento del paese, che vogliono che rinasca all'interno quel rispetto e quella fiducia che è necessaria anche per ispirare il rispetto all'estero. Epperciò noi domandiamo loro uno schietto e sincero aiuto, nello stesso modo che vogliamo che sieno a noi amici, come noi lo saremo sinceramente ad essi. Qui, signori, possiamo dire che chi non è con noi, è contro di noi; qui non abbiamo che un solo pensiero, noi vogliamo stringerci attorno alla bandiera della monarchia per salvare l'Italia dai pericoli che la circondano da ogni parte.