A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Speciale: A 150 anni dalla breccia di Porta Pia
I discorsi di Cavour alla Camera dei deputati nel marzo 1861
Lo "Speciale" del 2020 è dedicato alla ricorrenza del 150° anniversario della breccia di Porta Pia con cui l'esercito piemontese, guidato dal generale Raffaele Cadorna, il 20 settembre del 1870 entrò in Roma, che l'anno seguente sarebbe diventata la capitale dell'Italia unita.
L'episodio rappresenta un culmine della complessa "questione romana" nata con i moti risorgimentali e giunta a compimento con i Patti Lateranensi del 1929.
Ripercorreremo cronologicamente questo lungo periodo articolandolo in 6 tappe, una per ogni fascicolo dell'anno, con la prospettiva di attingere alle ricche collezioni storiche del Polo bibliotecario parlamentare e di presentare documenti parlamentari, spesso già noti, ma che negli ultimi anni sono stati messi a disposizione di un pubblico più vasto sui siti internet istituzionali grazie ai progetti di digitalizzazione in corso.
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La questione romana è oggetto del primo dibattito di un certo rilievo nelle sedute iniziali del Parlamento del neo-nato Regno d'Italia (VIII legislatura dal Regno di Sardegna). Già sul finire del marzo 1861, infatti, nell'Aula presieduta da Urbano Rattazzi, il deputato Rodolfo Audinot presenta alla Camera dei deputati un'interpellanza sul tema, articolata in tre quesiti. Vi si sostiene che «l'Italia ha bisogno di Roma, perché Roma è la capitale naturale d'Italia […]; è l'espressione più alta dell'unità e dell'indipendenza della nazione»; si domandano al Presidente del Consiglio notizie sulle «trattative tentate alla Corte romana», su quelle possibili con altri Paesi - stante il principio di «non intervento degli stranieri nelle cose d'Italia» proclamato da Francia e Inghilterra - e infine si chiede di conoscere i «principii direttivi intorno alla soluzione del grande problema presentato dal potere temporale e dallo spirituale d'Italia» (Regno d'Italia, Camera dei deputati, seduta del 25 marzo 1861, p. 280-284).
Cavour, Presidente del Consiglio, risponde con un discorso (p. 284-289), ripreso poi a due giorni di distanza, che sintetizza efficacemente la situazione; ne riportiamo ampi passaggi, in trascrizione letterale dagli Atti parlamentari pubblicati sul Portale storico della Camera dei deputati: https://storia.camera.it/.
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Il discorso del 25 marzo 1861
«Signori deputati, l'onorevole deputato Audinot con parole gravi ed eloquenti, quali si addicevano all'altezza dell'argomento che egli ha preso a trattare avanti a voi, anziché rivolgere al Ministero interpellanze su fatti speciali, vi ha fatto una magnifica esposizione della questione di Roma. [...] L'attuale discussione non poteva, né doveva essere ristretta allo scambio di poche spiegazioni; poiché la questione di Roma è posta sul tappeto, ragion vuole che essa sia trattata in tutta la sua ampiezza.
Ma, o signori, [...] mi sia lecito il ricordarvi che l'attuale questione è forse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione di Roma non è soltanto di vitale importanza per l'Italia, ma è una quistione la cui influenza deve estendersi a 200 milioni di cattolici sparsi su tutta la superficie del globo; è una quistione la cui soluzione non deve solo avere un'influenza politica, ma deve esercitarne altresì una immensa sul mondo morale e religioso [...].
L'Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa […]. Ma, finché la questione della capitale non sarà definita, vi sarà sempre motivo di dispareri e di discordie fra le varie parti d'Italia. [...]
La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.
Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato. [...] Convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d'Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all'Europa, affinché chi ha l'onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall'intiera nazione. [...]
Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d'Italia. Ma qui cominciano le difficoltà del problema, qui comincia la difficoltà della risposta che debbo dare all'onorevole interpellante.
Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni. Noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre, senza che la riunione di questa città al resto d'Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d'Italia e fuori d'Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l'indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l'autorità civile estenda il suo potere all'ordine spirituale.
Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andar a Roma, senza porre in pericolo le sorti d'Italia.
Quanto alla prima, vi disse già l'onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni di Europa, di voler andar a Roma malgrado l'opposizione della Francia.
Ma dirò di più: quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l'unione di essa al resto d'Italia, se ciò dovesse recar grave danno ai nostri alleati.
Noi, o signori, abbiamo contratto un gran debito di gratitudine verso la Francia. Io non intendo certo che siano applicabili alle relazioni internazionali tutte le strettissime regole dì moralità che debbono regolare i rapporti individuali, tuttavia vi sono certi principi di morale che le nazioni stesse non violano impunemente. [...]
Quando noi abbiamo invocato nel 1859 l'aiuto francese, quando l'Imperatore acconsentì a scendere in Italia a capo delle bellicose sue schiere, egli non ci dissimulò quali impegni ritenesse di avere rispetto alla Corte di Roma. Noi abbiamo accettato il suo aiuto, senza protestare contro gl'impegni che ci dichiarava di avere assunti; ora, dopo avere ricavati tanti benefizi dall'accordata alleanza, non possiamo protestare contro impegni che fino ad un certo punto abbiamo ammessi.
Ma dunque, mi si obbietterà, la soluzione della questione di Roma è impossibile.
Rispondo: se noi giungiamo [...] a far sì che la riunione di Roma all'Italia non faccia nascere gravi timori nella società cattolica [...]; se noi, dico, giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l'unione di Roma all'Italia può farsi senza che la Chiesa cessi d'essere indipendente, credo che il problema sarà quasi sciolto.
Non bisogna farsi illusione: molte persone di buona fede, non animate da pregiudizi ostili all'Italia, e nemmeno alle idee liberali, temono che, quando Roma fosse unita all'Italia, quando la sede del Governo italiano fosse stabilita in Roma, quando il Re sedesse sul Quirinale, temono, dico, che il pontefice avesse a perdere molto e in dignità e in indipendenza [...]
Se questi timori fossero fondati, se realmente la caduta del potere temporale dovesse trar seco necessariamente questa conseguenza, io non esiterei a dire che la riunione di Roma allo Stato d'Italia sarebbe fatale non solo al cattolicismo, ma anche all'Italia [...].
Io credo dover esaminare da tutti i lati la sollevata questione, quella cioè degli effetti che la riunione di Roma all'Italia avrà sulla indipendenza del potere spirituale del pontefice.
La prima cosa che io debbo fare si è di esaminare se ora veramente il potere temporale assicuri al pontefice una effettiva indipendenza.
In verità, se ciò fosse, se il potere temporale guarentisse ora, come nei secoli scorsi, l'indipendenza assoluta del pontefice, io esiterei molto a pronunziare la soluzione di questo problema. Ma, o signori, possiamo noi, può alcuno affermare con buona fede che il potere temporale del pontefice, qual è ora costituito, conferisca alla sua indipendenza? No certamente, quando si vogliano considerare le condizioni attuali del Governo romano con ispirito di imparzialità.
Nei secoli scorsi, quando il diritto pubblico europeo non conosceva quasi nessun altro titolo giuridico di sovranità che il diritto divino; quando i sovrani erano considerati come proprietari assoluti dei paesi che costituivano il loro dominio; quando i vari Governi d'Europa rispettavano questo principio, oh! io intendo che, pel pontefice, il possesso di alcune provincie, di uno Stato di qualche estensione fosse una garanzia d'indipendenza. In allora questo principio era accettato, od almeno subito dalle popolazioni stesse; quindi, volendo o non volendo, simpatico od antipatico che loro fosse quel governo, lo accettavano, lo subivano; perciò io non esito a riconoscere che sino al 1789 il potere temporale fu pel pontefice una garanzia d'indipendenza.
Ma ora, o signori, questo diritto pubblico è mutato; quasi tutti i governi civili riposano sul principio del consenso o tacito od esplicito delle popolazioni. [...]
Io so che alcuni [...] fautori del potere temporale, dicono: ma è egli impossibile che il pontefice con riforme, con concessioni faccia scomparire l'antagonismo [...], possa conciliarsi quel popolo sul quale impera? [...]
Questi, signori, sono in un assoluto errore; chieggono al pontefice quello che il pontefice non può dare, perché in lui si confondono due nature diverse, quella di capo della Chiesa e quella di sovrano civile; ma si confondono in modo che la qualità di capo della Chiesa deve prevalere a quella di sovrano civile [...], se il dominio temporale è stato dato al pontefice per assicurare la indipendenza della sua autorità spirituale. [...]
Ora, quando domandate al pontefice di fare alla società civile le concessioni richieste dalla natura dei tempi e dal progresso della civiltà, ma che si trovano in opposizione ai precetti positivi della religione, di cui egli è sovrano pontefice, voi gli chiedete cosa che egli non può, non deve fare. Se assentisse a siffatta domanda, egli tradirebbe i suoi doveri come pontefice, cesserebbe di essere rispettato come il capo del cattolicismo. Il pontefice può tollerare certe istituzioni come una necessità; ma non può promulgarle, non può assumerne la responsabilità, non può dar loro l'autorità del suo nome. [...]
Quindi, o signori, io credo non esservi verità più dimostrata di quella che ogni riforma nel governo temporale è impossibile. Ciò essendo, lo stato attuale di antagonismo fra la popolazione e il Governo non può cessare; e, non potendo esser rimosso, egli è evidente che il potere temporale non è una garanzia d'indipendenza pel pontefice.
Ciò chiarito, mi pare che i timori dei cattolici dovrebbero dileguarsi; se ora il papa non è veramente indipendente, se questo potere temporale non è per lui una garanzia, essi dovrebbero essere ormai molto meno teneri di questo potere temporale, di questa fallace garanzia.
Ma io penso che, a convincere pienamente questa parte eletta del cattolicismo, sia necessario di provare che il papa sarà molto più indipendente, che potrà esercitare la sua azione in modo molto più efficace, quando, abbandonata la potestà temporale, avrà sancito una pace duratura coll'Italia sul terreno della libertà. [...]
Noi riteniamo che l'indipendenza del pontefice, la sua dignità e l'indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercè la separazione dei due poteri, mercè la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa.
Egli è evidente, o signori, che, ove questa separazione sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile; quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l'indipendenza del papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, poiché non sarà più vincolata dai moltiplici concordati, da tutti quei patti che erano, e sono, una necessità finché il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre alla potestà spirituale, l'autorità temporale. [...] Epperciò la sua autorità, lungi dall'essere menomata, verrà a crescere assai più nella sfera che sola le compete.
[...] Bensì mi si dirà: come assicurerete questa separazione, questa libertà che promettete alla Chiesa? A parer mio essa si può assicurare in modo efficacissimo; la Chiesa troverà garanzie potenti nelle condizioni stesse delle popolazioni italiane, nelle condizioni stesse del popolo che aspira all'onore di conservare in mezzo a sé il sommo capo della società cattolica.
I principii di libertà da me accennati debbono, o signori, essere inscritti in modo formale nel nostro Statuto, debbono far parte integrante del patto fondamentale del nuovo regno d'Italia.
Ma non è questa, a mio avviso, la sola garanzia che la Chiesa può ottenere; la maggior garanzia sta nell'indole, nella condizione stessa del popolo italiano. Il popolo italiano è eminentemente cattolico, il popolo italiano non ha mai voluto distruggere la Chiesa, ma volle solo che fosse riformato il potere temporale. Tali furono le opinioni dei più grandi, dei più arditi pensatori di tutti i secoli in Italia; [...] tutti vollero la riforma del potere temporale, nessuno la distruzione del cattolicismo.
Questa riforma è un desiderio ardente dell'Italia, ma, quando esso sarà compiuto, io oso affermare che nessun popolo sarà più tenero, più tenace dell'indipendenza del pontefice, dell'assoluta libertà della Chiesa. Questo principio di libertà, io lo ripeto, è conforme all'indole vera della nostra nazione ed io porto fiducia che, quando le condizioni nostre siano prese ad attento esame dai più caldi fautori dell'indipendenza della Chiesa, essi saranno costretti a riconoscere la verità di quanto ho già proclamato, e dovranno ammettere che l'autorità del pontefice, l'indipendenza della Chiesa saranno molto meglio assicurate dal libero consenso di 26 milioni di Italiani, che da [...] truppe valorose ed amiche, ma pur sempre straniere.
[...] Ci è lecito di nutrire fiducia che, quando le nostre intenzioni saranno chiaramente conosciute e giustamente apprezzate, le disposizioni della Corte di Roma potranno modificarsi e piegarsi a più miti consigli. [...] Se, per circostanze fatali alla Chiesa e all'Italia, l'animo del pontefice non si mutasse, e rimanesse fermo nel respingere ogni maniera di accordo? Ebbene, o signori, non per ciò noi cesseremo dal proclamare altamente i principii che qui ora vi ho esposti, e che mi lusingo riceveranno da voi favorevole accoglienza; noi non cesseremo dal dire che, qualunque sia il modo con cui l'Italia giungerà alla città eterna, sia che vi giunga per accordo o senza, giunta a Roma, appena avrà dichiarato decaduto il potere temporale, essa proclamerà il principio della separazione, ed attuerà immediatamente il principio della libertà della Chiesa sulle basi più larghe. Quando noi avremo ciò operato; quando queste dottrine avranno ricevuto una solenne sanzione dal Parlamento nazionale; quando non sarà più lecito di porre in dubbio quali siano i veri sentimenti degl'Italiani; quando sarà chiaro al mondo che essi non sono ostili alla religione dei loro padri, ma anzi desiderano e vogliono conservare questa religione nel loro paese, che bramano assicurarle i mezzi di prosperare e di svilupparsi abbattendo un potere, il quale fu un ostacolo non solo alla riorganizzazione d'Italia, ma eziandio allo svolgimento del cattolicismo, io porto speranza che la gran maggioranza della società cattolica assolverà gl'Italiani, e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione, in mezzo alla quale esso risiede.
[...] Io nutro fiducia che, [...] sarà dato alla stessa generazione di aver risuscitato una nazione, e d'aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa, la di cui influenza è incalcolabile: d'avere cioè riconciliato il papato coll'autorità civile; di avere firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione ed i grandi principii della libertà. Si, io spero, o signori, che ci sarà dato dì compiere questi due grandi atti, i quali certamente tramanderanno alle più lontane posterità la benemerenza della presente generazione italiana».
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Il discorso del 27 marzo 1861
Il dibattito avviato con le interpellanze di Audinot prosegue brevemente dopo il discorso di Cavour e riprende il giorno successivo con gli interventi degli onorevoli Pepoli, Gioachino, Torelli e Bon Compagni: quest'ultimo presenta anche un suo voto motivato per la riunione della città di Roma all'Italia, seguito dalle Risoluzioni proposte dai deputati Greco e Ricciardi (rispettivamente per proclamare Roma capitale e - più moderatamente - per esprimere «questo desiderio concorde della nazione»), nonché dagli interventi più cauti e critici dei deputati Ferrari e Bertolani. In questa occasione Cavour interviene brevemente per scongiurare la chiusura della discussione, proposta dall'on. Gallenga con la motivazione che gli argomenti stavano diventando più accademici che politici, sostenendo per contro che la questione «è una delle più gravi che possano occupare un Parlamento» (Regno d'Italia, Camera dei deputati, seduta del 26 marzo 1861, p. 310).
Tuttavia, è solo nella successiva seduta del 27 marzo che Cavour riprende la parola per un più lungo e articolato discorso, che fa riferimento ai molti interventi che lo precedono, tra cui due voti motivati: quello del deputato Petruccelli il quale, considerando «che il possesso di Roma, come capitale d'Italia, è una necessità d'ordine e di salute pubblica», chiedeva al Presidente del Consiglio «di esprimere all'imperatore Napoleone ed al Gabinetto inglese il voto che si lasci all'Italia risolvere direttamente colla Corte pontificia la discordia nazionale»; e quello del deputato Levi, che invitava «a provocare che cessi l'occupazione straniera in Roma, ed a presentare quelle leggi che verranno a costituire su salda e libera base lo Stato ed emanciparlo da ogni altra autorità» (Regno d'Italia, Camera dei deputati, seduta del 27 marzo 1861, p. 317).
Da questi ed altri spunti Cavour prende le mosse per il suo discorso:
«Esaminati i tre ordini del giorno di ieri, e i due ordini del giorno d'oggi, mi pare che concorrano tutti nel pensiero finale; tutti sono concordi nel volere che si acclami Roma come capitale d'Italia, che si solleciti il Governo ad adoperarsi, onde questo voto universale abbia il suo compimento. Ma siami concesso di dichiarare che, tanto per la forma, quanto per la sostanza, nessuno di quei voti motivati riassume, a mio giudizio, in modo più conciso e più preciso dell'ordine del giorno Bon Compagni le idee espóste così lucidamente dall'onorevole interpellante, accolte senza riserva dal Ministero, e che furono tanto favorevolmente ascoltate da questa Camera.
[...] io ripeto che il proclamare la necessità per l'Italia di avere Roma per capitale non solo è cosa prudente ed opportuna, ma è condizione indispensabile del buon esito delle pratiche che il Governo potrà fare per giungere alla soluzione della questione romana. [...]
Non intendo che la Camera, votando l'ordine del giorno del deputato Bon Compagni, cioè acclamando Roma per capitale d'Italia, obblighi nel primo giorno che Roma sarà libera di partire immediatamente per andare a sedere in non so qual palazzo di Roma.
Egli è evidente che il trasferimento della capitale, quando possa farsi, dovrà essere l'oggetto, non solo di una determinazione del Ministero, ma di un voto del Parlamento. Non è in facoltà del potere esecutivo di trasferire la capitale del regno [...].
La quistione della possibilità di differire per lungo periodo di tempo il trasferimento della capitale a Roma, essendo stata sollevata, mi credo in obbligo di aggiungere un solo argomento [...] della natura di quelli che i matematici dicono ad absurdum, il quale consiste nel supporre verificata l'ipotesi dei nostri avversari e quindi dedurne le conseguenze.
Per dimostrare quali conseguenze funeste potrebbero nascere, se il trasferimento della capitale in Roma non si operasse subito che gli ostacoli insurmontabili, che esistono in ora, saranno scomparsi, io suppongo quell'epoca già venuta, e Roma riunita all'Italia, ma non fatta la sua capitale.
Io non posso a meno di prevedere che, finché la questione [...] fosse tenuta in sospeso per motivi anche di qualche importanza, ma non supremi, l'Italia tutta sarebbe in uno stato di agitazione e di lotta. Vi sarebbe una lotta vivissima fra coloro che vogliono andar a Roma immediatamente e coloro che vorrebbero ancora differirne il traslocamento della capitale; [...] meglio sarà quanto più presto si potrà andare a Roma; ben inteso, senza mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, senza rendere più malagevole l'ultima fase del risorgimento italiano, senza sconvolgere il Governo; ben inteso, infine, che questo trasferimento si faccia con tutta quella gravità e ponderatezza che un affare così grande richiede. [...]
Ormai, o signori, mi pare che la questione dell'indipendenza del sovrano pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede [...].
Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l'assenso dei cattolici di buona fede su questo punto.
Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al sommo pontefice, e gli diciamo: Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; [...] ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti [sic], noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato.
I vostri amici di buona fede riconoscono [...] che il potere temporale quale è non può esistere. Essi vengono a proporvi delle riforme, che voi qual pontefice non potete fare; vengono a proporvi di promulgare degli ordini, nei quali vi sono dei principii che non si accordano colle massime, di cui dovete essere il custode; [...] essi vi chieggono quello che non potete dare, e siete costretto a rimanere in questo stato anormale di padre dei fedeli, obbligato a mantenere sotto il giogo i popoli con delle baionette straniere, oppure ad accettare il principio di libertà, [...] nel paese dove il cattolicismo ha la sua sede naturale.
A me pare, o signori, essere impossibile che questo ragionamento, questa proposta fatta con tutta sincerità, con tutta lealtà non venga favorevolmente accolta.
[...] Noi crediamo che si debba introdurre il sistema della libertà in tutte le parti della società religiosa e civile; noi vogliamo la libertà economica; noi vogliamo la libertà amministrativa; noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza; noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento dell'ordine pubblico; e quindi, come conseguenza necessaria di quest'ordine di cose, noi crediamo necessario all'armonia dell'edifizio che vogliamo innalzare, che il principio di libertà sia applicato ai rapporti della Chiesa e dello Stato.
[...] Queste verità saranno accolte dalla pubblica opinione, e, senza poter prevedere il tempo che si richiederà, onde queste opinioni acquistino una potenza irresistibile, io penso non farmi illusione dichiarando che in un secolo, in cui anche nel mondo intellettuale si fa uso della locomotiva, queste idee non tarderanno ad essere generalmente accolte. [...]
Io spero che, realizzate queste due condizioni, convinti i cattolici, ottenuto il concerto colla Francia, vi sarà modo d'intendersi col santo padre. Io non voglio prevedere il caso dell'impossibilità dell'accordo [...]. Comunque poi sia, o signori, egli è evidente che, onde raggiungere questo scopo così importante e glorioso, è necessario che il Governo sia investito di tutta la maggior forza morale possibile. Egli è per ciò che io mi permetterei di fare appello ai vari autori degli ordini del giorno deposti sul banco della Presidenza, ordini del giorno che, a quanto mi pare , non differiscono fra loro nella sostanza, e li pregherei di accettar tutti l'ordine del giorno proposto dal deputato Bon Compagni, che in termini così precisi, così espliciti acclama Roma come capitale dell'Italia; e dichiara che, nello stesso tempo che Roma si riunisce all'Italia, si deve assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del pontefice, e che bisogna assicurare la piena, l'assoluta libertà della Chiesa, e riconosce nello stesso tempo la necessità del concerto colla Francia.
Se dunque i vari ordini del giorno proposti dagli onorevoli preopinanti non si scostano da questo nella sostanza, non dividiamoci su questioni secondarie e massime su questioni di forma; riuniamoci tutti in un solo concetto, in un solo pensiero. Votate, o signori, quest'ordine del giorno, per darci la forza di vincere le difficoltà che vi abbiamo indicate; votatelo unanimi, e con ciò ci sarà forse dato di conseguire in un non lontano avvenire uno dei più gran risultati che siansi mai verificati nella storia dell'umanità, di conseguire la riconciliazione del papato e dell'impero, dello spirito di libertà col sentimento religioso. Io confido, o signori, nell'unanimità dei vostri voti».
Di lì a poco, il dibattito si conclude. Il Presidente Rattazzi invita a esprimersi sul voto proposto dal deputato Bon Compagni, emendato dal deputato Regnoli, così formulato: «La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confidando che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia congiunta all'Italia, passa all'ordine del giorno». La Camera approva «alla quasi unanimità».
La questione romana sarà dibattuta in Parlamento ancora per diversi giorni, ma la formula "Libera Chiesa in libero Stato" era ufficialmente posta all'attenzione internazionale.