A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Speciale: La politica e la parola. I seminari della Biblioteca
Intervento di Luca Serianni
Continuiamo nel nostro "Speciale" del 2019 a dare spazio al seminario - ospitato dalla Biblioteca, su impulso del Sen. Zavoli, già Presidente della Commissione per la biblioteca e per l'archivio storico - dal titolo La politica e la parola.
Dopo i contributi di Carlo Galli, di Luciano Canfora e di Ernesto Galli Della Loggia, pubblichiamo ora l'intervento di Luca Serianni, linguista, filologo e già professore di storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma.
Il testo è la trascrizione dell'intervento.
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Resto anch'io sul terreno della lingua della politica in Italia facendo qualche considerazione sul modo in cui è cambiata durante gli anni della nostra Repubblica. Una prima considerazione banale: se noi leggiamo o riascoltiamo un qualunque intervento dal 1948 fino agli anni Settanta ed oltre abbiamo immediatamente la percezione di quale sia la parte politica che lo pronuncia.
Perché ci sono parole molto marcate alcune delle quali, ad esempio 'proletario', non si sentono proprio più (si sente tutto sommato poco anche un'altra parola che era caratteristica della lingua della sinistra, ossia 'lavoratore'). D'altro canto, una parola caratteristica della destra come 'patria' è stata rivalutata e valorizzata dal Presidente della Repubblica Ciampi al punto ch'egli ha persino ripristinato la sfilata del 2 giugno, questo evento così simbolico per celebrare le forze armate e in generale il senso della patria.
Questa modificazione per cui oggi - in realtà non da oggi, ma da diversi anni - abbiamo difficoltà a collocare un politico in un segmento destra/sinistra - per usare le immagini classiche - si accompagna anche a una progressiva caduta della componente formale scritta, e dunque del prestigio del politico in quanto tale, nonché a una corrispondente espansione del parlato.
Quest'ultimo fenomeno è stato descritto dal linguista ed esperto di comunicazione Giuseppe Antonelli con una immagine efficace: si è passati dal paradigma della superiorità - ossia un politico chiede fiducia perché sa di più e dunque ci si può fidare di lui come mediatore della volontà del popolo - al paradigma del rispecchiamento - il politico è uno di noi e parla proprio come l'elettore più ingenuo, meno colto e più sprovveduto.
Possiamo riconoscere alcuni momenti di questo passaggio ricordando alcune svolte significative. Parliamo ad esempio della Prima Repubblica, un'espressione che in realtà non mi piace affatto perché nel nostro caso - a differenza della Francia - si tratta di categorizzazioni mutuate; il nostro sistema infatti è rimasto uguale, non siamo passati da un sistema parlamentare a un sistema presidenziale, come appunto nel caso della Francia.
Comunque, per comodità, nella Prima Repubblica chi si era mosso nel senso di attivare nella sua comunicazione politica modi del discorso parlato era Pietro Nenni; a lui risale per esempio l'espressione destinata a grande fortuna 'stanza dei bottoni' nonché 'vento del Nord', che in Nenni faceva riferimento alla lotta partigiana, ma che è poi stata ripresa dalla lega di Bossi negli anni Novanta in tutt' altra direzione.
Una svolta da questo punto di vista era stata rappresentata da Marco Pannella a cui risalgono parole come 'ammucchiata' e 'sceneggiata', parole non inventate da lui, ma da lui usate in riferimento a certi costumi politici. Questi modi di dire di Pannella ci dicono già tanto sul fatto che il politico perdeva fin da allora - parliamo veramente di molti anni fa - quel carisma di affidabilità e differenziazione rispetto al pubblico, agli elettori. Del resto, anche usare un'immagine come quella di 'pubblico' mostra in qualche modo la pervasività della politica come spettacolo.
E poi naturalmente il pensiero va a Berlusconi e al suo teatrino della politica in cui il processo è molto evidente. In merito alla forte immissione dei modelli del parlato gli esempi sono fin troppo facili, da Bossi a Grillo, ma a dimostrazione del fatto che i conti con la storia in genere non si fanno mai fino in fondo raccolgo uno spunto dell'introduzione iniziale di Sergio Zavoli in merito al fatto che il quadro si sta modificando proprio sotto i nostri occhi. Qualche giorno fa ho ritagliato dal Corriere della Sera la dichiarazione di un politico contenuta in un articolo di Dino Martirano. Ve la leggo senza dirvi prima chi è: «Ho riscontrato una disponibilità utile ad individuare profili all'altezza del ruolo. Non solo per le Presidenze, ma anche per altre figure che andranno a comporre gli Uffici della Presidenza». Dal contenuto possiamo anche risalire ma dallo stile certamente no.
Sembra un prelievo dalla Prima Repubblica e invece è un brano di una dichiarazione dell'onorevole Di Maio. Dimostrazione dunque che anche i conti che sembravano fatti, l'immissione del parlato, la destrutturazione del linguaggio politico, sono conti che vanno ogni volta riformulati o ripensati.
Nei pochissimi minuti che mi restano faccio anche una considerazione che riprende questa volta uno spunto di Luciano Canfora a proposito dei nomi dei partiti. Il processo per cui i nomi dei partiti sono nomi che non fanno alcun riferimento alla storia politica è un processo in realtà che risale abbastanza indietro nel tempo, almeno ai secondi anni Novanta, quando c'è stata una fioritura - in senso proprio, 'vegetale' - rispetto a una fase iniziale in cui l'unico partito che aveva un riferimento vegetale era il partito repubblicano con la sua edera. Poi sono fioriti il girasole e la margherita, oltre alla quercia. La quercia evoca un'immagine positiva legata alla solidità e che può essere un valore trasversale, mentre la margherita, il girasole tanto meno, no. Però sono segni che mi paiono significativi di una perdita di significanza della politica in quanto tale. Per non parlare di sigle; cito ad esempio sigle della fine degli anni Novanta: "Lista Dini", "Patto Segni". Qui si fa già riferimento a un nome e non a una linea politica: il "Patto Segni" o la "Lista Dini" ci dicono che c'è un personaggio politico a cui quella lista fa riferimento e, nel caso poi della "Lista Dini", essa si caratterizza ancora di più come una organizzazione di tipo elettorale.
L'ultima considerazione che faccio è che, in questa progressiva destrutturazione di un linguaggio politico come tale - linguaggio politico riconoscibile in base a una certa visione del mondo - c'è anche un passaggio significativo da formulazioni più tipiche della destra a formulazioni più tipiche della sinistra. E naturalmente viceversa. Faccio solo un esempio di qualche anno fa: c'è un'espressione che nasce in ambiente di centrodestra, «bisogna che il governo non metta le mani nelle tasche degli italiani» - ce la ricordiamo tutti. Cosa c'è dietro questa espressione? Forse è abbastanza facile intuirlo: l'idea che il prelievo fiscale sia distorto e che è comunque molto meglio lasciare i cittadini il più possibile liberi di disporre delle loro entrate senza che lo Stato gravi il loro stato economico di tasse o di imposte. Però questa frase io l'ho sentita qualche anno fa anche in bocca a esponenti del centrosinistra che dovrebbero invece considerare lo strumento fiscale uno dei classici strumenti per riequilibrare le differenze. «Pagare le tasse è bello», diceva Padoa Schioppa, che non era esattamente un leninista, ma che certamente apparteneva a questa visione. Questo passaggio così significativo di slogan, di moduli, da una parte politica all'altra mi sembra un altro elemento che ci fa vedere quanto il linguaggio politico nel corso degli anni si sia destrutturato.
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Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Luca Serianni. Percorso bibliografico nelle collezioni del Polo bibliotecario parlamentare. Si suggerisce inoltre la ricerca nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.