A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Percorsi di storia economica
Per una geografia storico-economica. I paesi nordici (Parte quarta: dal 1970 a oggi)
Abstract
Successivamente al 1970 l'evoluzione delle economie nordiche ha risentito delle principali congiunture negative che si sono determinate a livello internazionale (da quella innescata dalla crisi petrolifera del 1973 a quella generata dalla crisi finanziaria del 2008). Pur in maniera discontinua, tuttavia, esse hanno continuato a progredire; e in particolare s'è avuto un avanzamento delle nazioni più arretrate (la Finlandia e l'Islanda), le quali si sono così avvicinate agli elevati livelli di benessere propri degli altri paesi dell'area.
6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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· Gli anni settanta
Il progresso economico della Danimarca subì una duratura battuta d'arresto negli anni settanta. Come riferiscono Borioni e Christiansen (2015), Chiesa Isnardi (2015) e Winding (1997), il paese risentì fortemente della crisi petrolifera scoppiata nel 1973: nel corso del decennio la disoccupazione andò infatti aumentando e si ripropose il problema del saldo negativo della bilancia dei pagamenti. Come spiegato nell'articolo precedente, tale problema si presentava in modo ricorrente, in quanto l'insufficiente sviluppo dell'industria faceva sì che la crescita dei consumi della popolazione si traducesse in misura notevole in una crescita delle importazioni; ora però a tale fattore si aggiungeva l'elevato prezzo del petrolio, il cui acquisto pure determinava la fuoriuscita di risorse dal paese. L'inedito contributo offerto dalle importazioni energetiche allo squilibrio dei conti con l'estero obbligò l'esecutivo a esercitare un controllo ancora più stretto su quelle di prodotti finiti; per questa ragione esso dovette rinunciare al tentativo, che inizialmente aveva posto in essere, di contrastare la crisi sostenendo i consumi.
Per compensare questa perdita di risorse il governo fu inoltre costretto a ricorrere al prestito estero. La crescita del costo del danaro che si verificò a livello internazionale nel corso del decennio, tuttavia, rese assai onerosi gli interessi che il paese doveva corrispondere ai suoi creditori, ragion per cui l'accensione di tali prestiti finì per diventare un'ulteriore causa di fuoriuscita di capitali. Difatti verso il 1980, quando le politiche d'austerità adottate avevano riportato pressoché in pareggio la bilancia commerciale (ossia l'interscambio di merci), la bilancia dei pagamenti risultava ancora squilibrata, proprio per effetto delle rate dei pagamenti dovuti dalla Danimarca ai soggetti esteri con cui s'era indebitata.
Il generale incremento dei tassi d'interesse si manifestò anche all'interno del paese, facendo sorgere ulteriori problemi. Esso difatti agì come disincentivo al compimento d'investimenti, in quanto gli imprenditori cercarono di limitare il più possibile l'accensione di debiti; e precipitò in una condizione di serie difficoltà finanziarie chi fra di essi s'era indebitato nella fase precedente. Questo fu il caso dei produttori agricoli, che all'inizio degli anni settanta, in previsione delle maggiori opportunità di profitto che avrebbe fatto sorgere per essi l'ingresso della Danimarca nella CEE (poi avvenuto nel 1973), avevano diffusamente preso in prestito danaro per modernizzare le proprie attività e aumentare così la produzione.
· Dagli anni ottanta a oggi
Sul piano politico gli anni ottanta furono segnati dalla fine della tradizionale egemonia socialdemocratica: in quella fase, infatti, il paese fu retto da governi di larga coalizione e a guida conservatrice. Tali governi affrontarono le difficoltà finanziarie del paese frenando l'indicizzazione dei salari all'inflazione (in modo da contrastare quest'ultima), riducendo la spesa pubblica, anche mediante tagli ai servizi sociali (al fine di contenere l'indebitamento dello stato) e incrementando ulteriormente i tassi d'interesse (nel tentativo di attrarre capitali dall'estero e migliorare così la bilancia dei pagamenti). Queste misure, tuttavia, danneggiarono l'economia e fecero aumentare la disoccupazione, dal momento che il contenimento dei salari e della spesa pubblica colpiva i consumi e l'incremento del costo del denaro frenava gli investimenti.
La situazione prese a migliorare verso la metà del decennio, grazie alla diminuzione dei tassi d'interesse negli altri paesi (che rese possibile far scendere quello interno) e all'avvio dell'estrazione di petrolio dai giacimenti scoperti nel Mare del Nord (che ridusse le importazioni energetiche). Si ebbe così una ripresa dell'economia. Ancora una volta, però, l'espansione dei consumi sopravanzò quella della produzione interna e ripropose il problema d'un'eccessiva crescita delle importazioni, rendendo necessario il ritorno alle politiche d'austerità. Per il resto del decennio e anche per tutti gli anni novanta, pertanto, la Danimarca tornò a essere caratterizzata, com'era stato prima del trascorso periodo di crisi, dall'alternarsi di periodi di sviluppo e di raffreddamento dell'economia. Nel complesso, comunque, questo ventennio rappresentò una fase di rinnovato progresso per il paese, giacché nel lungo periodo si consolidarono delle tendenze positive, quali il calo della disoccupazione e il miglioramento dello stato dei conti pubblici. Questa evoluzione sostanzialmente favorevole dell'economia danese si è confermata negli anni più recenti, sicché oggi tale paese può vantare un elevato livello di benessere diffuso e altre caratteristiche tipiche delle nazioni maggiormente progredite, come il possesso di tecnologie e infrastrutture avanzate.
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· Gli anni settanta
Anche per la Svezia, secondo Borioni (2005) e Chiesa Isnardi (2015), gli anni settanta costituirono un periodo di notevoli difficoltà. A partire dall'inizio del decennio essa fu scossa da un'ondata di scioperi, volti in parte a strappare al padronato migliori condizioni economiche, ma in parte anche a manifestare al governo lo scontento per la forte pressione fiscale. Gli incrementi del costo del lavoro che furono determinati da queste tensioni sociali causarono a loro volta lo stabilirsi d'un elevato tasso d'inflazione. La tendenza inflazionistica fu poi accentuata dalla crisi petrolifera del 1973. L'impennata del costo del petrolio e il più generale incremento del costo delle importazioni (dovuto alla crescita dei prezzi che stava interessando anche gli altri paesi) accrebbe la fuoriuscita di risorse dal paese; questa avrebbe dovuto essere compensata da un analogo incremento dell'acquisizione di risorse estere e quindi da una crescita delle esportazioni, la quale tuttavia non poté determinarsi. Infatti in quegli anni l'industria svedese perse competitività sul mercato internazionale, scontando la crescita del costo del lavoro e l'ulteriore incremento della pressione fiscale che all'epoca si verificarono. La bilancia dei pagamenti andò pertanto squilibrandosi.
A far crescere la pressione fiscale era proprio la perdita di competitività dell'industria, che imponeva al governo di sostenere le imprese statali in crisi e determinava incrementi della disoccupazione che facevano crescere la spesa sociale. Intorno alla metà del decennio prima il governo socialdemocratico e poi quello conservatore che gli succedette cercarono di rompere questo circolo vizioso, intervenendo proprio sul fronte della fiscalità: tuttavia il tentativo di rilanciare i consumi riducendo alcune imposte, effettuato in una situazione di tendenziale incremento della spesa pubblica, comportò una crescita dell'indebitamento dello stato. Ciò condusse dopo breve tempo all'accantonamento di questa politica di sgravi fiscali. A partire dal 1976 si ebbero invece delle ripetute svalutazioni della corona, finalizzate anch'esse a sostenere l'industria nazionale (rendendo le esportazioni più competitive e i beni d'importazione più cari).
Nel corso del decennio si delineò pertanto un quadro decisamente negativo, in quanto connotato da generale stagnazione economica, crisi dell'industria (in particolare dei comparti tessile, siderurgico e cantieristico), forte aumento della disoccupazione, inflazione, elevata pressione fiscale, cedimento del cambio e crescita del debito pubblico.
· Gli anni ottanta
Gli anni ottanta si aprirono con una svolta nella politica governativa: al fine di contenere la spesa pubblica, furono varati dei tagli allo stato sociale e alle sovvenzioni di cui godevano alcuni rami dell'industria, come il tessile. Ciò tuttavia provocò il rinfocolarsi delle tensioni sociali: si ebbe difatti una nuova serie di scioperi, cui i datori di lavoro risposero attuando delle serrate. In questo difficile contesto fu necessario fare ancora ricorso, per sostenere l'economia, alla svalutazione della corona.
Nel 1982 le elezioni premiarono nuovamente i socialdemocratici, i quali avevano presentato un programma di riforme molto avanzato, che prevedeva l'accesso dei lavoratori alla proprietà delle aziende. L'ostilità degli imprenditori a questa prospettiva si tradusse, dopo la loro vittoria, in una massiccia fuga di capitali, alla quale il nuovo governo reagì dapprincipio con un'ulteriore svalutazione: questa difatti da un lato riduceva il potere d'acquisto della corona sulle piazze finanziarie estere (e quindi la convenienza degli investimenti oltreconfine) e dall'altro, avvantaggiando l'industria nazionale, accresceva le opportunità di profitto in patria (e quindi fungeva da incentivo al compimento di investimenti al suo interno). In seguito tuttavia il governo accantonò il proprio progetto originario, sostituendo all'obiettivo della partecipazione azionaria dei dipendenti quello della cogestione delle imprese: nel 1984 venne infatti stabilito, di concerto con gli imprenditori e i sindacati, che i primi avrebbero destinato una quota dei propri profitti alla costituzione di fondi, da gestire congiuntamente ai secondi e da utilizzare per fini di ricerca e sviluppo e di riqualificazione della manodopera. Il consenso degli imprenditori fu ottenuto assicurando loro una politica di moderazione salariale.
A metà del decennio la congiuntura internazionale prese a migliorare, consentendo un'evoluzione positiva anche della situazione interna. Per favorire ulteriormente la ripresa, proprio nel 1985 la banca centrale operò una liberalizzazione del settore del credito, che nell'immediato stimolò gli investimenti. Con il rilancio dell'economia nazionale venne meno la necessità di ricorrere a una misura sostanzialmente protezionista, quale era stata la svalutazione della moneta; all'opposto, in seno alla classe politica si cominciò a considerare la possibilità di allacciare più stretti rapporti economici con gli altri paesi europei, facendo entrare la Svezia nella CEE.
· Dagli anni novanta a oggi
L'inizio degli anni novanta vide la Svezia affrontare una nuova fase di crisi, innescata dal peggioramento della congiuntura internazionale, ma resa più grave dagli attacchi speculativi che interessarono la sua valuta. Per evitare una caduta del valore della corona, infatti, si rese necessario portare i tassi d'interesse a livelli altissimi, scoraggiando così il ricorso al credito. Si determinò per tali ragioni un quadro pesantemente negativo, segnato dal calo della produzione industriale, dalla crisi del settore finanziario, dalla fuga dei capitali dal paese e da una forte crescita della disoccupazione. In questa difficile contingenza si ebbe una nuova vittoria dei conservatori, i quali cercarono di contenere gli effetti della crisi sul bilancio pubblico tramite una politica di privatizzazioni e di tagli all'assistenza sociale, in modo da aumentare le entrate e ridurre le spese dello stato. La corona fu inoltre svalutata, abbandonando così la linea della difesa a tutti i costi del suo valore.
A metà del decennio ebbe inizio la ripresa, che diede origine a una nuova fase di sviluppo proseguita anche dopo il 2000. La ritrovata dinamicità dell'economia nazionale consentì il riassorbimento del debito pubblico formatosi nella fase precedente e anche una riduzione del tasso di disoccupazione, sebbene non si tornasse alla situazione di piena occupazione che aveva caratterizzato il ventennio di forte espansione del dopoguerra. Una novità di questo periodo è stata costituita dall'ingresso del paese nell'Unione Europea, deciso in seguito a un referendum tenuto nel 1995: le sue relazioni economiche con gli altri stati del continente si sono così rafforzate. Successivamente i maggiori partiti hanno caldeggiato anche l'adesione alla moneta unica, ma un ulteriore referendum tenutosi nel 2003 ha avuto esito negativo (al pari di quello danese di tre anni prima), imponendo perciò la rinuncia a tale progetto.
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Dalla ricostruzione offerta da Chiesa Isnardi (2015) delle vicende economiche della Norvegia emerge come tale paese abbia seguito un percorso radicalmente diverso da quello delle nazioni prima esaminate: per esso, difatti, gli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta costituirono una fase di sviluppo, mentre la seconda metà di quest'ultimo decennio fu un periodo di crisi. Ciò si spiega col fatto che, mentre l'economia della Danimarca e della Svezia dipendeva dall'andamento delle attività produttive, successivamente al 1970 quella norvegese fu strettamente legata all'estrazione di idrocarburi. Difatti all'inizio degli anni settanta ebbe inizio lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas naturale scoperti nel Mare del Nord. Queste risorse procurarono alla Norvegia notevoli benefici diretti (grazie anche all'elevato prezzo del greggio in quel decennio) e in più consentirono la nascita d'un'industria petrolchimica nazionale, contribuendo così grandemente al progresso economico della nazione. Dopo il 1985, però, la repentina discesa del prezzo del petrolio determinò l'insorgere d'una grave crisi, in quanto non soltanto diminuirono gli introiti che la sua vendita procurava, ma si ebbe anche una caduta del valore dei titoli azionari e degli immobili (i cui prezzi negli anni precedenti erano andati sempre più aumentando) e una crisi del sistema bancario, il quale dovette essere sostenuto dall'intervento dello stato. Questa difficile contingenza si protrasse a lungo, ma fu comunque superata: dopo il 2000 l'economia andò infatti riprendendosi. Il mutato quadro economico rese possibile l'attuazione di piani d'investimento, i quali riguardarono non soltanto il sempre trainante settore petrolifero, ma anche l'agricoltura; così come resero possibile un potenziamento dei servizi sociali (nell'ambito dell'istruzione e della sanità). La ritrovata tendenza positiva è stata però frenata, nell'ultimo decennio, dalle ricadute che la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha avuto sull'intera economia mondiale.
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Stando a quanto riferisce Berend (2008), negli anni settanta anche la Finlandia risentì della crisi petrolifera, ma riuscì a riaversi e a riprendere il percorso di sviluppo che aveva intrapreso dopo la seconda guerra mondiale. Una nuova fase di difficoltà, tuttavia, era destinata a presentarsi con il crollo dell'Unione Sovietica. Negli anni della guerra fredda la Finlandia aveva sfruttato la propria neutralità per stabilire forti relazioni commerciali con tale paese: la fine del comunismo, tuttavia, determinò l'apertura di quel vasto mercato alle nazioni occidentali e quindi il venir meno della posizione privilegiata detenuta al suo interno dagli esportatori finnici. In ragione di tale evento, nei primi anni novanta l'industria finlandese si trovò obbligata a operare una profonda riconversione, in modo da potersi porre in competizione con le più progredite economie occidentali e poter recuperare a Ovest gli sbocchi commerciali perduti a Oriente. Questa riconversione ebbe pieno successo: in pochi anni il paese assunse una posizione di preminenza in alcuni settori ad alta tecnologia e la sua crescita riprese a un ritmo tale che alla fine del XX secolo il suo reddito pro capite era divenuto superiore a quello svedese. Una storia industriale di particolare successo fu quella della Nokia, un'azienda attiva da tempo nel settore dell'elettronica di consumo, che negli anni novanta puntò con decisione sulla telefonia mobile: nel 2000 le sue vendite all'estero rappresentavano oltre il 30 per cento del valore delle esportazioni nazionali. Un ruolo decisivo, per lo sviluppo di questa come di altre imprese finlandesi, fu sostenuto dagli investimenti di operatori esteri, che apportarono loro i capitali necessari al finanziamento dei processi di ristrutturazione ed espansione produttiva.
Alle vicende finlandesi più recenti accenna Chiesa Isnardi (2015), rilevando come la nuova crisi mondiale abbia coinvolto anche tale paese. L'autrice peraltro sottolinea come esso ne sia risultato penalizzato meno di altri: i progressi compiuti nel quindicennio precedente al 2008, che l'hanno fatto uscire dalla sua tradizionale condizione di arretratezza, non sono dunque andati perduti, sebbene la sua economia abbia perso parte del proprio slancio, avendo risentito non soltanto della crisi, ma anche di una sempre più accesa competizione internazionale (esemplare ancora una volta il caso della Nokia, che negli anni più recenti ha ceduto ai propri nuovi rivali importanti quote di mercato).
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È sempre Chiesa Isnardi (2015) a offrire un'ampia trattazione dell'evoluzione dell'economia islandese. Come già negli anni cinquanta, una questione di grande rilevanza fu costituita dalla tutela delle risorse ittiche. Nel 1972 e poi nel 1975 il governo stabilì unilateralmente l'estensione a 50 e poi a 200 miglia marine del limite delle proprie acque territoriali, in modo da accrescere gli spazi riservati ai propri pescherecci. Ciò fece riesplodere il conflitto con gli inglesi e suscitò pure la contrarietà dei tedeschi. La contesa fu risolta definitivamente nel 1977, in seguito a una trattativa fra le parti interessate, ma grazie anche alla decisione della CEE di stabilire a propria volta un limite di 200 miglia per le acque territoriali dei propri membri.
Un altro evento significativo fu rappresentato dalla crisi energetica del 1973, la quale accentuò le difficoltà economiche che già sussistevano dalla fine degli anni sessanta. Il paese dovette subire una forte crescita dell'inflazione; la sua moneta, inoltre, si svalutò in misura tale da imporre nel 1979 la sua sostituzione con una nuova valuta. La crisi economica fu inoltre causa di ripetute agitazioni sociali. Questa situazione di difficoltà si protrasse sino agli anni ottanta. Nel corso di quel periodo, tuttavia, l'economia andò conoscendo una forte diversificazione, che pose le basi per la sua successiva ripresa. L'agricoltura assunse un'inedita importanza, affiancandosi alla tradizionale attività di allevamento degli ovini, grazie alla produzione di ortaggi e frutta in serre riscaldate tramite l'energia geotermica. Anche l'industria beneficiò di un'espansione, sempre in virtù del ricorso a tale fonte di energia. Il miglioramento delle comunicazioni rese inoltre possibile lo sviluppo del turismo. I maggiori introiti fiscali generati da tale sviluppo, infine, consentirono il rafforzamento dei servizi sociali, dal quale derivò anche la creazione di nuove opportunità d'impiego nel settore pubblico. Questa fase espansiva ha subito però una forte battuta d'arresto nel 2008, quando anche l'Islanda è risultata gravemente colpita dalla crisi finanziaria mondiale. La situazione che si è allora determinata ha avuto ripercussioni non soltanto sull'economia, ma anche sullo stato delle finanze pubbliche, in quanto le banche nazionali in difficoltà sono state oggetto di salvataggi pubblici, la cui onerosità ha provocato un'impennata del debito pubblico. Negli anni successivi il paese ha comunque beneficiato d'una ripresa, alimentata da un ulteriore incremento dei flussi turistici.
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6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Per una geografia storico-economica. I paesi nordici. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca. Contiene la bibliografia completa dei quattro articoli di approfondimento pubblicati relativi ai paesi nordici. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.