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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 24 (Nuova Serie), dicembre 2014

Percorsi di storia economica

Per una geografia storico-economica. La Germania (Parte terza: dalla crisi del 1929 alla seconda guerra mondiale)

Abstract

La Germania risentì in maniera particolarmente grave della situazione di crisi che si stabilì a livello internazionale dopo il 1929, in quanto il suo governo non soltanto non pose in essere misure anticicliche di tipo espansivo, ma addirittura operò in modo da aggravare la recessione in atto. Il pessimo andamento dell'economia favorì l'ascesa al governo di Hitler, il quale per consolidare il proprio consenso puntò a rilanciarla varando un ampio programma di investimenti pubblici, finanziato tramite l'espansione del debito. La volontà di sfruttare la ripresa per realizzare il riarmo del paese indusse inoltre il regime nazista a sottoporre l'economia a uno stretto controllo statale, in modo da poterne orientare l'evoluzione nel senso voluto. Entrambi questi obiettivi - ripresa economica e riarmo - furono centrati; ma lo scatenamento della seconda guerra mondiale si ritorse contro la Germania, che uscì dalla guerra non soltanto sconfitta, ma anche notevolmente impoverita.

1. La crisi dei primi anni trenta

2. La politica nazista di rilancio dell'economia

3. Altri aspetti della politica economica nazista

4. L'economia di guerra

5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. La crisi dei primi anni trenta

Nella conclusione del precedente articolo avevamo osservato come la politica di restrizione del credito e dell'emissione di valuta posta in essere a partire dal 1923 dal governo di Weimar, frenando la crescita degli investimenti e dei consumi, avesse impedito il riassorbimento della massiccia disoccupazione generata dalla smobilitazione dell'esercito, nonché come tale situazione avesse reso instabile il quadro politico, ponendo le premesse per la successiva affermazione del nazismo. I guasti procurati da tale politica divennero ancora maggiori all'inizio degli anni trenta, quando per un verso essa divenne ancora più severa e per l'altro la grande crisi finanziaria apertasi in America nell'autunno 1929 determinò anche in Germania un notevole peggioramento della congiuntura economica.

Il fatto che in presenza d'una grave crisi economica si sia avuta l'accentuazione d'una politica monetaria e creditizia restrittiva può apparire paradossale; la ricostruzione che dà Irmler (1988) delle vicende di quel periodo offre comunque di esso una spiegazione. Secondo tale studioso, la crisi economica determinò il ritiro dei capitali collocati in Germania da parte degli investitori internazionali, i quali costituivano una quota molto alta dei depositi bancari tedeschi. Dal momento che la legge bancaria prescriveva che almeno il 40 per cento dei biglietti e delle obbligazioni circolanti dovesse essere coperto in oro o divise estere, la Reichsbank (ossia la banca nazionale) fu obbligata a reagire alle forti perdite valutarie che gli istituti tedeschi avevano subito ponendo dei limiti alla creazione di moneta per via creditizia da parte dei medesimi. Ciò fu fatto in principio adottando severe restrizioni del credito e successivamente rendendolo nuovamente libero, ma accrescendone notevolmente il costo (tramite l'elevazione dei tassi d'interesse). In questo modo, però, al venir meno degli investimenti esteri si aggiunse la rarefazione di quelli dell'imprenditoria nazionale.

La stretta creditizia causò inoltre una lievitazione del valore del marco: la Germania, che appena un decennio addietro aveva sperimentato una crescita abnorme dell'inflazione, a partire dal 1930 venne così a trovarsi in una situazione di deflazione. Questa fece sorgere un ulteriore problema per l'economia, consistente nella rivalutazione del marco rispetto alle altre divise che essa provocò. Tale rivalutazione fu accentuata dal fatto che parallelamente si ebbe una perdita di valore della sterlina, causata dalla decisione del governo britannico - presa nel 1931 - di abbandonare la convertibilità in oro della propria moneta. L'alterazione dei rapporti di cambio peggiorò la competitività di prezzo dei manufatti tedeschi, compromettendone la capacità di reggere la concorrenza straniera: sorse così un ulteriore fattore di crisi, che accelerò il degrado della situazione economica.

Il governo cercò di compensare gli effetti negativi della rivalutazione del marco praticando dei tagli alle retribuzioni contrattuali, ma naturalmente questi ebbero delle ricadute sulla capacità di consumo delle classi lavoratrici, che si sommarono a quelle derivanti dalla rarefazione della massa monetaria. Effetti similari ebbero i forti tagli agli stipendi degli impiegati statali e gli incrementi di imposte che nel contempo furono posti in essere, nel tentativo di mantenere in pareggio il bilancio dello stato (il cui equilibrio era minato dal calo delle entrate fiscali che la crisi stava determinando). In verità, alla riduzione di salari e stipendi fece fronte, in conseguenza della svalutazione, una caduta dei prezzi dei beni di consumo; ma questa compensò solo parzialmente il calo delle retribuzioni. Albers (1988) riferisce difatti che fra il 1928 e il 1932 i redditi da lavoro diminuirono del 38 per cento, mentre i prezzi calarono solo del 18.

Anche la decisione di reagire alla crisi comprimendo il potere d'acquisto di buona parte della popolazione può apparire sorprendente; ma ancora Albers (1988) spiega come nella dottrina economica del tempo non avesse ancora trovato spazio l'idea - che proprio in quegli anni Keynes stava maturando - che toccasse allo stato colmare il vuoto di domanda del settore privato: l'unico punto di riferimento che avevano i governanti era pertanto la teoria economica neoclassica, secondo la quale il mercato aveva la capacità di riprendersi autonomamente dalle crisi.Egli rileva inoltre come il governo fosse indotto a difendere a tutti i costi i propri attivi commerciali e a seguire una politica finanziaria molto sorvegliata dal fatto che sulla bilancia dei pagamenti e sui conti pubblici tedeschi gravava ancora il peso delle riparazioni di guerra: solo nel corso del 1932, a seguito della Conferenza di Losanna, la Germania ottenne finalmente l'annullamento di questi pagamenti, concessole dai paesi vincitori del conflitto proprio in considerazione delle condizioni in cui era precipitata la sua economia.

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2. La politica nazista di rilancio dell'economia

Nel 1933 l'avvento al potere del Partito Nazionalsocialista segnò l'abbandono della politica di rigore finanziario e monetario. Il nuovo regime volle difatti consolidare il consenso di cui godeva affrontando con decisione la questione della disoccupazione, la cui riduzione divenne così l'obiettivo principale dell'azione governativa. Secondo quanto scrive Thamer (1993), a tale azione arrise in tempi rapidi un pieno successo: già nel 1936 la produzione industriale aveva superato i massimi livelli raggiunti prima della crisi e s'era stabilita una situazione di piena occupazione. Questo risultato fu ottenuto in parte tramite una politica di forti investimenti pubblici e in parte tramite l'incoraggiamento di quelli dell'imprenditoria privata, cui furono accordati incentivi e sgravi fiscali. Gli investimenti pubblici riguardarono inizialmente tanto il settore militare, quanto alcuni ambiti civili (quali l'edilizia e le infrastrutture viarie); a partire dal 1935, però, i primi presero il sopravvento, in modo da consentire il rapido riarmo che le mire espansionistiche del regime rendevano necessario. Naturalmente, anche queste spese militari contribuirono alla ripresa dell'economia; una volta che quest'ultima fu conseguita, tuttavia, la politica di riarmo finì per costituire un peso più che una fonte di benefici, in quanto il persistente assorbimento di risorse e manodopera da parte dell'industria militare limitò le possibilità di espansione delle produzioni di beni di consumo.

Per sostenere l'espansione della spesa pubblica, lo stato si procurò nuove risorse tramite cospicue emissioni di titoli di debito. In parte, questi titoli furono normali obbligazioni pubbliche: Thamer (1993) rileva ad esempio che il governo drenò ingenti somme dai depositi dei clienti degli istituti bancari e assicurativi proprio imponendo a questi ultimi l'acquisto di tali obbligazioni. Albers (1988), tuttavia, pone in risalto anche il ruolo assunto dalle emissioni di cambiali da parte di vari enti statali appositamente creati (istituti di credito speciale, enti pubblici di altra natura, società di diritto privato). La scelta di affidarsi in notevole misura a questo sistema di finanziamento è spiegata dall'autore con la necessità di aggirare i persistenti limiti posti alla creazione di moneta creditizia da parte del sistema bancario: non potendo ottenere dalle banche la totalità delle risorse di cui necessitava per riavviare lo sviluppo, il governo decise di procurarsene una parte autonomamente, mettendo in circolazione una sorta di seconda valuta di propria creazione, costituita per l'appunto dalle cambiali degli enti che aveva fatto sorgere a tale scopo.

Il ritorno a una politica di espansione - seppur mascherata - della circolazione monetaria, in linea di principio, non era privo di rischi, in quanto avrebbe potuto ristabilire una situazione di elevata inflazione. Secondo Irmler (1988), questi potenziali effetti inflazionistici furono tuttavia contenuti, inizialmente perché l'elevato tasso di disoccupazione svolse una funzione di calmiere dei salari e successivamente in virtù del controllo governativo cui furono sottoposti i prezzi e gli stessi salari.

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3. Altri aspetti della politica economica nazista

Lo studio di Thamer (1993) indaga anche altri aspetti della politica economica nazista. Uno di essi consistette nel controllo cui fu sottoposto il commercio con l'estero. L'obiettivo di conseguire una relativa autarchia, che avrebbe reso il paese meno vulnerabile alla riduzione degli scambi che un nuovo conflitto condotto su larga scala avrebbe determinato, indusse il governo a limitare le importazioni, limitandole ai beni indisponibili o non disponibili in quantità sufficiente all'interno. L'interscambio con l'estero fu inoltre orientato in maggior misura verso l'Europa sud-orientale, a scapito del commercio oceanico; in questo modo si ridusse il danno suscettibile di derivare da un blocco navale. Questa politica ebbe delle ricadute positive sul fronte economico, in quanto consentì di riportare in attivo la bilancia commerciale; ma non fu priva di costi e comunque non sempre ebbe successo. Essa ad esempio comportò la sostituzione di risorse minerarie nazionali ad altre estere anche quando le prime erano di più costosa estrazione e d'inferiore qualità, come pure la produzione di surrogati anch'essi più costosi delle materie prime che sostituivano (carburanti, caucciù, fibre tessili sintetiche). Inoltre la produzione agricola interna rimase sempre inferiore alla domanda, anche a causa della carenza di manodopera che si determinò nelle campagne per effetto dello sviluppo industriale.

Per rendere possibile la sostituzione di beni nazionali ad altri importati anche quando ciò risultava antieconomico, per assicurarsi che per l'acquisto dei secondi fossero privilegiati paesi raggiungibili via terra e per garantire all'industria bellica la priorità nelle forniture, il governo pose in essere un'estesa opera di pianificazione, che ridusse notevolmente l'autonomia decisionale dell'imprenditoria nazionale. Lador-Lederer (1959)indica quale strumento fondamentale di questa politica la costituzione di cartelli di imprese, ossia di accordi fra le medesime volti a stabilire comuni linee d'azione. La creazione di cartelli non costituiva una novità per l'industria tedesca: come abbiamo spiegato nel precedente articolo, molte aziende vi avevano fatto volontariamente ricorso sin dal tardo Ottocento, per ridurre la concorrenza in seno ai settori in cui operavano. In epoca nazista, tuttavia, a farli sorgere fu lo stato, che si attribuì pure poteri di controllo e d'intervento sul funzionamento dei medesimi. Lador-Lederer (1959) menziona anche un altro strumento cui il regime fece ricorso per rafforzare la propria presa sull'economia: la costituzione di imprese pubbliche, deputate a svolgere quelle attività scarsamente remunerative in cui la presenza dell'imprenditoria privata risultava modesta (quali la produzione di acciaio a partire da minerali nazionali poveri di ferro o quella di benzina sintetica). Tali imprese furono anche coinvolte nella formazione di cartelli, in modo da accrescere ulteriormente l'influenza del governo su di essi.

Ancora più deciso fu il controllo che lo stato assunse della forza lavoro: a tale riguardo, Albers (1988) spiega come sin dal 1933 fosse stata sancita la fine dei sindacati e dell'autonomia contrattuale delle parti sociali. Agendo in tal modo, il regime divenne in grado di decidere in piena autonomia le condizioni di lavoro e in particolare - come s'è già accennato - le dinamiche salariali. I lavoratori pagarono un prezzo elevato per questa trasformazione: oltre al blocco dei salari fu loro imposto, come ricorda Thamer (1993), il divieto di sciopero e il principio dell'obbedienza assoluta a un capo-fabbrica. Dobbiamo tuttavia altresì rilevare, riprendendo ancora Albers (1988), che il regime assicurò loro la certezza dell'occupazione e una sostanziale stabilità del costo della vita nel corso degli anni, oltre a notevoli miglioramenti dei servizi assistenziali e previdenziali. Questi benefici favorirono la formazione d'una solida base di consenso verso il regime in seno alle classi lavoratrici.

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4. L'economia di guerra

Lo scoppio del secondo conflitto mondiale impose alla Germania, come agli altri paesi, di riorganizzare la propria economia in funzione dello sforzo bellico. Sia Aldcroft (2004) che Thamer (1993) rilevano tuttavia che il governo cercò di ritardare il più possibile la mobilitazione totale, ossia la piena subordinazione della vita economica e sociale alle necessità del conflitto, evidentemente nell'intento di evitare un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione tale da far venir meno il consenso di cui godeva il regime. Si rinunciò pertanto a riconvertire le industrie di beni di consumo in industrie militari e a finanziare la guerra mediante forti accrescimenti delle imposte, puntando invece a massimizzare lo sfruttamento dei paesi occupati, tramite forniture forzate di materie prime, di risorse finanziarie e finanche di manodopera (milioni di deportati e prigionieri di guerra furono obbligati a lavorare nelle campagne e nelle fabbriche). Non mancò, comunque, un potenziamento dell'industria bellica già operante sul territorio tedesco: questa beneficiò di significativi progressi sotto il profilo del grado di concentrazione, della modernità delle tecniche in uso e dell'efficienza organizzativa, che si rifletterono sulla sua capacità produttiva.

Nell'ultima fase della guerra, tuttavia, l'apparato industriale costituito per questa duplice via subì un grave decadimento. La sua dipendenza da materie prime estere - che la produzione di surrogati sintetici non era valsa a risolvere - fece sì che quando l'area sottoposta al dominio tedesco prese a contrarsi si verificasse anche una riduzione delle forniture di cui le imprese necessitavano. Inoltre l'esasperato sfruttamento delle industrie dei paesi occupati finì per determinare una perdita di efficienza delle medesime, la quale ridusse l'apporto ch'erano in grado di offrire. Infine, i massicci bombardamenti alleati danneggiarono gravemente molte fabbriche e vie di comunicazione.

Alla fine del conflitto l'economia tedesca era pressoché paralizzata. L'apparato industriale, malgrado le distruzioni subite, era ancora assai esteso; ma doveva essere riconvertito dalle produzioni militari a quelle civili. Inoltre v'era penuria di materie prime e anche di forza lavoro, in ragione delle ingenti perdite di vite umane - e in particolare di maschi in età lavorativa - che il paese aveva subito, cui l'immigrazione di tedeschi provenienti dai territori assegnati ad altri stati riusciva solo in parte a rimediare. La politica di potenza del Terzo Reich, che aveva finalizzato la ripresa industriale all'espansionismo militare, era così sfociata in una disfatta non soltanto sul piano bellico, ma anche su quello economico.

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5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Per una geografia storico-economica. La Germania (Parte terza).Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.

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