di Maurizio Calvesi
Palazzo Madama, dal 1871 sede del Senato italiano, ha nella sua storia una tradizione di mecenatismo davvero straordinaria, se pensiamo ai nomi che a questa storia sono legati: a cominciare da Giovanni de' Medici che lo eresse nel 1503, figlio di uno dei più splendidi mecenati del Rinascimento, Lorenzo il Magnifico, e mecenate lui stesso, più tardi, come pontefice romano di un'epoca d'oro (Leone X). Il palazzo passò poi ad Alessandro de' Medici, signore di Firenze, ritratto dal Pontormo e dal Vasari; alla sua morte fu abitato dalla vedova, "madama" (donde il nome) Margherita d'Austria, e successivamente dal cardinale Francesco Bourbon del Monte, che ospitò, protesse e "lanciò" un pittore non qualsiasi, nientedimeno che Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Né la tradizione fu rinnegata quando il palazzo assunse la sua nuova, prestigiosa destinazione, considerando che Cesare Maccari ebbe l'incarico di eseguire, nel 1880, i solenni affreschi della sala d'onore, nella volta (l'Italia tricolore) e alle pareti dove rievocò il Senato dell'antica Roma. Ciò peraltro richiama alla memoria che, se il mecenatismo non può identificarsi con Roma, questa fu però la città che vide all'opera lo stesso Mecenate.
Aretino, Mecenate; fiorentini i Medici; ambasciatore del Granduca di Toscana il cardinal Del Monte. Che Amintore Fanfani, Giovanni Spadolini e Marcello Pera, ovvero i moderni Presidenti del Senato più sensibili all'arte e alla cultura siano l'uno aretino, l'altro fiorentino e il terzo lucchese, può apparire (chi scrive lo riconosce, anche se non è nella sua intenzione) un accostamento adulatorio e fuor di proposito. Però è vero che tra i politici italiani, come poi tra ogni altra categoria, soprattutto i toscani appaiono animati da un particolare amore verso l'arte e la cultura. Si tratta comunque di tre Presidenti di diverse appartenenze politiche, non è infatti l'appartenenza politica che determina o condiziona la cultura, quella cultura di cui la vita politica e la gestione delle cose pubbliche hanno, effettivamente, un così vivo bisogno.
Una pagina ricca di promesse
L'iniziativa del Presidente Pera di ospitare nel palazzo del Senato una serie di opere d'arte dovute ad autori viventi, apre una pagina ricca di promesse; non solo si addice al prestigio della sede (e direi anche dell'alta carica, di una statura che non appaia soltanto morale e isolatamente gerarchica, ma tesa a un rapporto, a un dialogo con le forme più nobili e simbolicamente rappresentative del fare); ma essa risulta propizia, per la sua parte, anche ai destini stessi, quanto mai precari, dell'arte.
L'arte è morta, si torna oggi a dire, si torna oggi a leggere. Benché possa apparire davvero attuale, è un antico lamento, la cui origine risale non già, come erroneamente si crede, ad Hegel (che della morte dell'arte non ha mai parlato, ma solo di una sua potenziale evoluzione verso la filosofia); bensì alla Naturalis Historia di Plinio. Qui (34° libro) lo scrittore latino affermava appunto che l'arte, agli inizi del III secolo precristiano, "era morta", cioè a quella data che per noi segna semplicemente la fine dell'arte classica e l'avvento dell'ellenistica. (Ma poi, dice Plinio, "era risorta": nei freddi e accademici neoclassicismi alessandrini, attici ed augustei di cui tesseva l'elogio).
Occorrerà attendere il Rinascimento, in realtà, per veder rifiorire una forma di così eletto classicismo, come il fidiaco; ma puntualmente, ai primi segni di una sua estinzione, questa viene scambiata per un irreparabile arresto. Dopo l'età di Michelangelo, identificato con il culmine del "progresso" artistico, Giorgio Vasari credette che, l'arte, non potesse che conoscere una parabola discendente, dunque in qualche modo mortale. Era invece un processo di trasformazione, verso il Manierismo e il Barocco.
Infine una "età dell'oro" sembrerà risorgere con il neo-classicismo e i classicismi romantici dell'Ottocento. Ma al primo nascere, con il dagherrotipo, della fotografia, gli accademici francesi si misero le mani tra i capelli e gridarono alla morte dell'arte. Ed ecco poi di nuovo che, entrata in crisi la tradizione con i modernismi, nei primi anni del Novecento il sospetto di morte tornò ad affacciarsi, equivocando le formulazioni di Hegel, e indirettamente lo attesta un'acuta esclamazione di Umberto Boccioni: "L'arte non è finita, come i vaporosi sentimentali gridano: si trasforma".
Ma più le nuove ricerche vitalmente si affermavano, più i nostalgici perseveravano nel compianto dell'arte ormai defunta, finchè la convinzione della sua morte non si fece strada, con diverse motivazioni, anche tra i sostenitori dell'avanguardia, come Giulio Carlo Argan, ed è storia recente, di pochi decenni or sono.
A causare, nei secoli, queste lamentazioni furono pensieri diversi: Plinio identificava l'arte con il classicismo, Vasari la vedeva assunta in una crescita paragonabile a quella di un organismo naturale, dove alla pienezza della maturità non poteva che seguire la decadenza; in Francia fu l'avvento della fotografia a far temere per le sorti della pittura, poi fu la nascita delle avanguardie, poi fu, con Argan, l'idea che l'arte facesse corpo con l'artigianato e fosse quindi destinata insieme a perire.
Oggi si torna nuovamente a parlare di morte dell'arte, per le prevaricazioni del mercato sugli effettivi valori degli artisti, o per alcune forme in bilico fra arte ed etnografia, o per l'abuso di materiali di scarto, o per il prevalere della fotografia, o per alcuni abnormi sconfinamenti nello spazio, o per i buoi squartati sotto formalina.
Arte marginalizzata, ma anche dilatata
Tutto vero, ma l'arte non credo sia morta, anche se è vero che è marginalizzata in un mondo dove non può ambire a svolgere più la funzione comunicativa che svolse nel corso dei secoli, un mondo che elabora un quotidiano sovrappiù di immagini per mezzo dell'obbiettivo, della macchina da ripresa, del video, del computer, immagini di più immediata e percettivamente incisiva, invasiva presenza.
Marginalizzata, dunque; ma al tempo stesso dilatata nei suoi confini, anche per riflesso di quelle decuplicate tecniche dell'immagine, di quell'ampia circolazione sui mercati, di quelle moltiplicate modalità espressive che le esplorazioni delle avanguardie escogitarono l'una dopo l'altra segnalandole quali altrettanti traguardi, e che oggi si squadernano come un campionario di intercambiabili possibilità.
Chiuso un ciclo, la situazione si è in qualche modo rovesciata: mentre le avanguardie si inseguivano in un continuo superamento di se stesse, lungo un percorso che additava di volta in volta un'unica, predominante se non esclusiva direzione di ricerca (o "tendenza"), oggi l'arresto di questo processo ha provocato un allineamento di tutte le possibilità espressive, quel ricco campionario di cui dicevo. E nella nuova ampiezza di raggio che le ricerche artistiche (espressive, comunicative, testimoniali, di denuncia) hanno a disposizione c'è un ampio spazio per la pittura (e la scultura) come tecniche tradizionali che non possono considerarsi superate. Perché l'arte si fonda appunto su tecniche e non su tecnologie, non insegue le finalità pratiche di un progresso che richieda un aggiornamento dei mezzi, non è uno strumento utilitario che debba via via uniformarsi alle opportunità della tecnologia.
L'idea che l'arte debba aggiornarsi sulle tecnologie, e che quindi il video o la fotografia non rappresentino soltanto nuove possibilità espressive, ma direzioni obbligate di ricerca, è un'idea ingenua che non tiene conto dei diversi, insostituibili risultati che una tecnica "antica" consente di ottenere, rispetto a quelli perseguibili con l'obbiettivo o il monitor, il diverso tipo di risposta, e di ricchezza, percettiva che un impasto pittorico ci dà a confronto del più nudo "documento" fotografico, o del deconcentrato sguardo posato su una "installazione".
E tuttavia questa idea, benché ingenua, tende pericolosamente a farsi strada, incoraggiata da un mercato miope ed ingordo. Ma è da queste semplificazioni che l'arte, per sopravvivere, deve guardarsi, per conservare quell'ampiezza di raggio che ha ormai conquistato e, con essa, la possibilità di far fronte a diverse richieste, tanto del gusto quanto della funzione.
Rinnovare il piacere della pittura
Un museo, ad esempio, o un salone d'industria, o un ufficio di rappresentanza, potranno scegliere un'installazione; una mostra potrà optare per la comunicazione fotografica, o per il racconto di un video, a metà strada tra il cinema, la televisione e la sala di esposizione. Ma un'altra mostra, un altro museo, potranno rinnovare il piacere della pittura.
Quest'ultima è stata la scelta del Presidente Pera, ed è indubbiamente la sola che si addice, oltre che alla tipologia stessa dei locali, a un palazzo così onusto di storia, e al tempo stesso così coinvolto nell'attualità, come la pittura è aperta all'attualità ma è anche carica di memorie.
Pittura dunque, pittura per lo più figurativa, giacché l'astrattismo non è stato che una di quelle direzioni obbligate che il corso delle avanguardie ha di volta in volta additato, e che ora si ritrovano allineate, ma forse con il vantaggio, per la pittura figurativa, di essere (paradossalmente) più nuova e attraente rispetto all'indigestione di astratto che abbiamo fatto nei decenni passati.
Pittura, e scultura; ovviamente lo stesso discorso vale per la scultura, che ha poi di per sé una maggior stabilità di persistenza, né è stata mai insidiata più di tanto da nuove tecniche come l'oleografica. Pittura e scultura allineate sul fronte di una rinnovata e decomplessata cultura del figurativo, del tutto esente dai condizionamenti ideologici di epoche trascorse e lontani "realismi", aperta a un' ambizione di poesia.
Se dovessi dire, per ogni categoria, quali di questi artisti prediligo, farei i nomi, per la pittura, di Piero Guccione e per la scultura di Giuliano Vangi, e poi di un pittore che è anche scultore, Sandro Chia. Tutti splendidamente rappresentati, questi eccellenti testimoni della persistente vita dell'arte.
Chia, con il suo talento originalissimo ma imbevuto di cultura, ha centrato una condizione emblematica della figura post-moderna, tra naiveté e ironia, tra citazione e freschezza di racconto, tra apparente semplicità e costruzione mentale, in un cocktail di sapori attinti ai maestri del Novecento. Nel grande dipinto che ha intitolato Trionfo della Ragione, scena tipica della sua scanzonata drammaturgia, un pino alla Carrà divide l'immagine esultante della donna, che occhieggia ai volumi spigolosi di Picasso, dal cavallo impennato tra le cui zampe esplodono dei mulinelli futuristi, mentre il cavaliere rovesciato innalza una face di simbologia rinascimentale. Così Chia convoca la storia della pittura al suo sdrammatizzante festino, e ne fa la tavolozza di un nuovo affresco.
I volumi sgualciti e forti delle due offerenti intorno al tavolo, o del patetico, inedito angelo che resta tale solo a metà, avendo perduto un'ala, sono poi tra le forme più intelligenti ed espressive della scultura di oggi.
Lo scultore Giuliano Vangi è invece l'ultimo, in ordine di tempo, grande esponente di un'antica tradizione italiana riattualizzata nel moderno. Nella biblioteca di pertinenza del Senato in piazza della Minerva, è stata collocata una sua splendida figura di donna, dalle tese, lucide superfici metalliche, il cui gioco di volumi racchiude nell'astrazione di solidi geometrici la pienezza pulsante della vita. L' altra scultura collocata in un'aula del palazzo è invece tanto avvincente quanto sorprendente nel suo fisso impatto ieratico. Incarna, senza ricorso a simboli esteriori, un'allegoria dell'Italia, colonnare come la Fortezza, virtù il cui simbolo è la colonna; ma il volto delicato, attento; verginale e quasi timido.Lo incapsula un purissimo cilindro, accentuato in altezza quasi oltre il limite della verosimiglianza, comunicando alla figura una idealizzante, placida spinta ascensionale; nel tronco (un autentico tronco d'albero lavorato) le braccia appena accennate si incorporano misteriose, come se, a un loro schiudersi, potessero rivelare l'intima magia del corpo.
Di Guccione ho sempre ammirato il prodigio pittorico delle marine: quel respiro d'azzurro depositato sulla tela. Un processo di sublimazione interviene nella sua pittura ad operare la fusione, a una comune temperatura, tra diversi moti dell'animo, accenti di dolcezza anche felice o, talvolta, di latente sofferenza, nella compartecipata essenza di poeticità e tensione all'alto. Non è per un gioco di parole che a questa fusione di sentimenti in un comune anelito venga a corrispondere un modo della pittura che è connotabile con lo stesso termine: quel modo che Guccione è arrivato a possedere attraverso i lunghi anni di un continuo inoltrarvisi, dagli impianti più linearmente scanditi, dapprima, di uno spazio-luce, equazione di cui i due esponenti sono poi venuti trovando una sempre più serrata identità.
Nuove tendenze figurative
Non pospongo certo a nessuno, né tanto meno posso dimenticare, il mio grande amico Mario Schifano, che con la sua armonia dolcemente beatle di colori ha acceso i momenti più gioiosi della mia vita di critico, facendoli poi declinare nell'ancor più colorata ma per me amara rappresentazione di un cupio dissolvi a cui ho dovuto assistere impotente. Di Guccione, è stato l'opposto; l'opposto della sua pausa contemplativa, nel volubile dinamismo di un pennello che appoggiava velocemente e con elegante negligenza, a fronte della meditata sapienza dell'altro.
Luciano Ventrone, con le sue luminose e respiranti nature morte, riporta il nostro pensiero al Caravaggio, al prototipo della celeberrima Canestra dell'Ambrosiana: la quale fu eseguita proprio negli anni in cui il pittore operava per Francesco Del Monte. Anzi, si è a lungo creduto che la Canestra fosse stata donata proprio da costui al fondatore dell'Ambrosiana, sulla base di lettere che parlavano appunto di un dono, dono che ritardava a causa di qualcuno che non si decideva a consegnare l'oggetto da donare, tanto da far perdere la pazienza al reverendo ambasciatore del Granduca di Toscana. Colui che faceva perdere la pazienza fu senz'altro identificato, dal Longhi, nell'impertinente Merisi, e di conseguenza l'oggetto da donare nella Canestra, che così sarebbe pervenuta a Milano. Toccò a chi scrive di trovare, in archivio, che l'oggetto era in realtà un orologio, e che era l'orologiaio a mettere a dura prova la cardinalizia pazienza ; ma al dipinto è rimasta sempre incollata l'aura di Del Monte; e quindi, proprio, di Palazzo Madama.
Sarebbe ora troppo lungo descrivere uno ad uno i numerosi altri artisti trascelti, i quali (eccezion fatta per gli arazzi di Vedova e di Cagli, astratti, confluiti nella collezione, e di una levigata scultura di Carmelo Candiano) militano tutti nelle nuove tendenze figurative: gli appartenenti, con Guccione e Candiano, al gruppo di Scicli Franco Sarnari, Sonia Alvarez, Franco Polizzi, Salvatore Paolino, accomunati da una silenziosa religione della pittura; e ancora Alberto Abate, Carlo Bertocci, Eleonora Ciroli, Lily Salvo, Mario Fani, Livio Scarpella, Giuseppe Colombo, Mauro Reggio, ..., pittori; Novello Finotti, Alberto Mingotti, Cordelia Von den Steinen, scultori. Ma poi l'elenco è certamente destinato a ingrandirsi.