Il Senato subalpino di Torino (1848-1860)
La nascita del Senato subalpino venne sancita dallo Statuto Albertino, emanato da Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo del 1848. Esso modificò profondamente la forma di governo sino ad allora vigente nel Regno di Sardegna, avviando l'esperienza monarchico-costituzionale.
Lo Statuto prevedeva un sistema bicamerale, fondato su una Camera elettiva (la Camera dei Deputati) e un Senato composto da membri nominati a vita dal Re. Questi poteva scegliere i senatori - senza limite di numero - nell'ambito di 21 categorie elencate dallo Statuto, tra cui, ad esempio, gli Arcivescovi e i Vescovi dello Stato, i deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio, i Ministri di Stato, gli Ambasciatori, i Primi Presidenti ed i Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, l'Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, gli Ufficiali e gli Intendenti Generali, i Consiglieri di Stato, i membri della Regia Accademia delle Scienze, ovvero coloro i quali, in ragione del censo, pagassero una certa quota di tributi annui, nonché chi avesse illustrato la Patria 'con servizii e meriti eminenti'. Grazie all'applicazione di tale norma, vennero chiamati a far parte del Senato del Regno, nel corso del tempo, insigni personaggi della cultura italiana come Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi, Giosuè Carducci, Benedetto Croce, Guglielmo Marconi e Giovanni Gentile.
Oltre all'appartenenza a una delle 21 categorie e all'età minima (40 anni), erano richiesti altri requisiti, detti impliciti perché non menzionati dallo Statuto: la cittadinanza del Regno, il godimento dei diritti civili e politici, il sesso maschile ed il requisito generico della dignità, ovvero l'assenza di precedenti penali ed una regolare condotta civile, morale e politica.
Va poi ricordato che per norma statutaria facevano parte di diritto del Senato i principi della famiglia reale, che vi entravano al compimento del ventunesimo anno d'età, sebbene acquisissero il diritto di voto solo dopo aver compiuto 25 anni.
A differenza della Camera, che provvedeva ad eleggere autonomamente il proprio Presidente ed i propri Vice-Presidenti, al Senato essi erano, per dettato statutario, nominati dal Re. Il primo presidente del Senato subalpino fu il conte cuneese Gaspare Coller, presidente di cassazione, nominato il 3 aprile del 1848.
Lo Statuto fu l'unica carta costituzionale concessa degli Stati preunitari che sopravvisse alla 'restaurazione' del 1849; la sua vigenza si estese progressivamente al resto della penisola italiana, sino a divenire la costituzione del Regno d'Italia, solennemente proclamato con la legge n. 4671 del 17 marzo 1861.
Sulla carta lo Statuto istituiva una monarchia costituzionale pura, nella quale, cioè, il Governo era nominato dal Re e rispondeva solo a lui. Da subito, peraltro, il Governo fu indotto a cercare il sostegno politico della Camera elettiva. Tale processo evolutivo, che ebbe in Cavour il suo più autorevole protagonista, segnò il passaggio ad una monarchia costituzionale di tipo parlamentare, fondata sull'istituto della "fiducia". Nel delicato gioco di equilibri - in costante evoluzione - che coinvolgeva la Corona, il Governo e la Camera, il Senato, specialmente nelle prime legislature, giocò un ruolo decisamente conservatore, in difesa delle prerogative reali, dando luogo anche a episodi di forte contrasto con la Camera elettiva.
Per attenuare le tensioni e garantirsi l'appoggio anche del Senato, il Governo fece allora ricorso alla nomina di senatori a sé favorevoli in gran numero: le cosiddette "infornate". Occorre ricordare, infatti, che, sebbene la competenza a nominare i nuovi senatori rimanesse sempre di formale spettanza del Re, si verificò anche in questo campo un progressivo svuotamento del potere regio, stavolta a vantaggio del Governo, le cui proposte di nomina il Re si limitava il più dei casi a sottoscrivere. Cavour, nei suoi otto anni di Governo, fece nominare ben 158 senatori.
Per quanto riguarda la funzione legislativa, lo Statuto prevedeva che essa fosse esercitata collettivamente dalle due Camere e dal Sovrano, che vi provvedeva attraverso il potere di sanzione. Anche qui, peraltro, la prassi vide un progressivo indebolimento del potere regio. Le attribuzioni legislative della Camera alta non differivano formalmente da quelle della Camera elettiva, se non per il fatto che le leggi relative all'imposizione di tributi o all'approvazione dei bilanci dovevano essere esaminate prioritariamente dalla Camera dei deputati.
L'articolo 36 dello Statuto prevedeva inoltre che il Senato si costituisse, con decreto del Re, in Alta Corte di Giustizia per giudicare i crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, nonché i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati. In tali casi il Senato non si configurava quale organo politico, ma giurisdizionale. Il primo e più famoso caso fu il processo svolto dal Senato nei confronti dell'ammiraglio Persano, sconfitto nella battaglia di Lissa.
La sede del Senato subalpino era lo storico Palazzo Madama di Torino. Porta d'ingresso alla città in epoca romana, il complesso divenne fortezza nel Medioevo, per poi essere trasformato in castello all'inizio del Quattrocento. Nel 1637 la Madama Reale Maria Cristina di Francia, vedova di Vittorio Amedeo I di Savoia e reggente del ducato in nome del figlio Carlo Emanuele II, decise di stabilirvi la sua dimora. Da allora in poi il Palazzo assunse la denominazione con la quale è a tutt'oggi noto, divenendo la residenza ufficiale delle madame reali.
Meno suggestiva dell'aula della Camera a Palazzo Carignano, l'aula del Senato era tuttavia solenne e si rifaceva al modello neogotico ed allungato della Camera dei Lords, inaugurata a Londra nel 1847. Se, in generale, tale sistemazione ottenne l'approvazione del pubblico e dei giornalisti, molti senatori se ne lagnarono, soprattutto in ragione della poca luminosità dell'aula, della pessima acustica, nonché degli scompensi termici del grande salone, adiacente allo scalone juvarriano di accesso.
Il Senato del Regno a Torino (1860-1865)
Con l'annessione della Lombardia nel luglio 1859 e con quelle scaturite - e ratificate tramite plebisciti - dalla 'Spedizione dei Mille', il Regno di Sardegna ampliava i suoi confini, sino a divenire il fulcro del nuovo stato unitario.
Il Senato del Regno si venne dunque configurando quale evoluzione di quello subalpino. In effetti, furono le nove grandi infornate effettuate dal terzo ministero Cavour ed avvenute tra il 23 gennaio 1860 e il 7 febbraio 1861 - a ridosso, cioè, dell'inaugurazione, il 18 febbraio, dell'ottava legislatura, la prima del Regno d'Italia - a mutare definitivamente la fisionomia della camera alta da subalpina in italiana. Si trattò di un processo che allargò la presenza delle varie rappresentanze regionali in modo non proprio omogeneo e che avvenne seguendo la scansione temporale delle annessioni: oltre a nuovi senatori piemontesi, entrarono nell'ordine rappresentanti lombardi, emiliani, romagnoli, toscani, marchigiani, umbri, napoletani e, infine, siciliani. Si trattò complessivamente di 128 nuovi senatori, che si aggiungevano ai precedenti 91 componenti. Con l'allargamento della rappresentanza parlamentare si intendeva legittimare l'ampliamento del regno di fronte alle potenze straniere, ma anche vanificare i mai sopiti tentativi democratici di convocare un'assemblea costituente.
Il Senato del Regno continuò a riunirsi nella sede che aveva sino ad allora ospitato le riunioni del Senato subalpino: il grande salone quadrato degli Svizzeri, collocato al primo piano del Palazzo Madama di Torino.
Il Senato del Regno a Firenze (1865-1871)
Il trasferimento della capitale del Regno a Firenze era stato deciso dai due rami del Parlamento tra il 18 novembre e i primi giorni del dicembre 1864, a garanzia degli accordi recati dalla Convenzione di Settembre, stipulata lo stesso anno con la Francia di Napoleone III, ed ebbe luogo nel febbraio del 1865.
La Camera dei deputati venne ospitata nel salone dei Cinquecento a Palazzo della Signoria, mentre il Senato trovò la sua sede nel Teatro Mediceo edificato all'interno dei contigui Uffizi, collegati attraverso un cavalcavia costruito su via della Ninna. La scelta della sede in cui ospitare la camera alta fu la più controversa: da un lato, perché vi era chi preferiva che anch'essa si riunisse a Palazzo Vecchio, nella Sala dei Dugento, ovvero a Palazzo del Podestà; dall'altro, perché la scelta degli Uffizi accentuò il contrasto tra le decisioni governative e le esigenze della città, anche per la distruzione del teatro cinquecentesco del Buontalenti.
Il trasferimento non fu indolore: il risentimento di Torino, infatti, non si esaurì nei tumulti del 21 e 22 settembre 1864, ma tornò a manifestarsi tra il 25 e il 28 gennaio dell'anno seguente.
All'indomani delle nuove manifestazioni torinesi del 30 gennaio 1865, il sovrano decise di non prorogare ulteriormente la partenza per Firenze, che ebbe infatti luogo il 3 febbraio. Accolto festosamente dalla città, il sovrano suggellò la scelta della nuova capitale rendendo omaggio a Gino Capponi, il più illustre tra i senatori toscani.
Gabrio Casati, che il Re nominò presidente dell'assemblea il 18 novembre 1865 e che avrebbe svolto tale funzione per l'intero quinquennio fiorentino, nel discorso di insediamento volle ricordare insieme Torino e Firenze, la vecchia capitale, ancora ferita, e la nuova, non ancora avvezza al nuovo ruolo attribuitole.
Non mancarono, anche in questo caso, le polemiche circa la funzionalità dei locali scelti quale sede del Senato: critiche vennero mosse, ad esempio, alla decisione di allocare la sala delle adunanze all'ultimo piano della Galleria, vissuta come una beffa ai danni dei più anziani senatori, costretti ad affrontare uno scalone di ben novantasette gradini. Sede sotto tutti i profili scomoda, con locali ristretti e inadeguati alla macchina del Senato regio, essa quasi suggeriva il primato della camera elettiva, cui era riservata la maestà del palazzo del Comune, che la tradizione del ducato mediceo aveva trasformato nel Palazzo della Signoria.
Il Senato del Regno a Roma (1871-1947)
Il trasferimento della capitale a Roma era avvenuto nel febbraio del 1871. Ma fu solo nell'autunno di quell'anno che il Senato venne ospitato - con una curiosa coincidenza - in un palazzo omonimo di quello lasciato a Torino, il Palazzo Madama, dove ancor oggi ha sede il Senato della Repubblica.
La famiglia reale si sistemò al Quirinale e la Camera dei deputati a Montecitorio. Soluzioni destinate a restare definitive, nonostante le reiterate proposte di Francesco Crispi di riunire in un unico edificio entrambi i rami del Parlamento. Il Senato del Regno non avrebbe più abbandonato la sede prescelta per i cento anni della sua durata, fino alla soppressione formale dell'organo, avvenuta il 21 novembre del 1947 per cedere il passo al nuovo ed elettivo Senato repubblicano.
La scelta del palazzo non fu semplice. Venne all'uopo istituita una commissione di senatori che vagliarono le diverse possibilità: il palazzo della Consulta, la Sapienza, la Cancelleria, il palazzo del Collegio Romano. Prevalse però l'opzione favorevole a Palazzo Madama. Ciò rese necessaria un'ampia rimodulazione degli spazi interni: nell'area del cortile, su progetto dell'ingegner Luigi Gabet, venne realizzata l'aula, ove il Senato del Regno si riunì per la prima volta il 28 novembre 1871 sotto la presidenza del senatore Torrarsa.
Durante il successivo decennio l'originaria struttura del palazzo conobbe ulteriori modifiche: nel 1888 venne edificato un nuovo corpo di fabbrica in cui collocare la biblioteca (oggi la biblioteca del Senato ha una nuova prestigiosa sede nel Palazzo della Minerva, accanto al Pantheon). Risale, invece, al 1925 la destinazione e l'adattamento al Senato di un edificio fronteggiante piazza Sant'Eustachio, sino ad allora appartenuto alle istituzioni francesi. Tra il 1926 ed il 1930 venne intrapresa la demolizione e la ricostruzione del vicino Palazzo Carpegna (attuale sede delle Commissioni permanenti), in seguito anch'esso assegnato al Senato e quindi inserito nel complesso dei suoi edifici.
Una volta trasferito a Roma, il Senato del Regno continuò a svolgere il ruolo che aveva già acquisito, quale elemento di bilanciamento e compensazione rispetto alla Camera elettiva.
Non mancarono contrasti e discussioni in merito al ruolo costituzionale del Senato: in tal senso, nel 1876 l'ascesa al potere della Sinistra approfondì il solco già esistente tra le due camere, delle quali la più conservatrice era di certo il Senato. Tale frattura si era già manifestata nel Parlamento subalpino durante il governo Cavour, il quale, a tal proposito, aveva più volte ripetuto che all'impulso motore della Camera faceva da contraltare la forza moderatrice dell'Assemblea vitalizia. Già a quell'epoca era emersa l'esigenza di riformare il Senato al fine di renderlo rappresentativo delle forze vive e reali del paese; esigenza che divenne sempre più fortemente sentita all'indomani della riforma elettorale del 1882. Negli anni successivi l'argomento venne reiteratamente affrontato, senza però giungere ad alcun mutamento.
Sebbene, dunque, rimanesse una camera non rappresentativa, il Senato riuscì a mantenere un ruolo autonomo rispetto alla camera elettiva, pur consapevole che soltanto questa poteva negare la fiducia all'esecutivo. E ciò fu possibile sia per il prestigio dei suoi membri, che per l'attenzione posta dai presidenti nel difenderne le prerogative. Dal canto suo, la camera elettiva mostrò sempre attenzione al Senato, mostrandosi incline ad accettare soluzioni di compromesso che evitassero il sorgere di insanabili conflitti. Il Governo continuò ad assicurarsi l'appoggio della Camera alta - tanto più dopo l'instaurazione del regime fascista - con il sistema delle "infornate": tra le più cospicue, si ricordano quelle del 1890 e del 1929, ma anche e soprattutto le 211 nomine del 1939 - in non casuale coincidenza con la trasformazione della Camera dei deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni - che portarono alla quasi completa fascistizzazione della Camera alta. Anche il Senato fu dunque coinvolto dalla crisi che investì l'istituto parlamentare durante il fascismo. Nondimeno, rimasero a Palazzo Madama coraggiose voci dissenzienti, come quelle di Albertini, Ruffini, Casati, Bergamini, Einaudi e Croce.
Il Senato della Repubblica (dal 1948 ad oggi)
Con il decreto legislativo n. 48 del 24 giugno 1946, emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri De Gasperi quale Capo provvisorio dello Stato pochi giorni dopo il referendum del 2 giugno, che aveva trasformato l'Italia in Repubblica ponendo fine alla monarchia sabauda ed eletto l'Assemblea Costituente incaricata di redigere la nuova Costituzione, fu disposta la 'cessazione delle funzioni' del Senato vitalizio con effetto a partire dal giorno successivo. Ma fu solo con la legge costituzionale n. 3 del 14 novembre 1947 che l'Assemblea costituente dichiarò definitivamente sciolto il Senato del Regno.
Con il mutamento della forma di stato consequenziale all'esito del referendum istituzionale e le prime elezioni a suffragio realmente universale, l'Assemblea Costituente si trovò ad affrontare la mai sopita questione del ruolo da attribuire alla seconda assemblea parlamentare. In realtà, in quella sede si pose in primo luogo la questione della scelta tra un Parlamento monocamerale o bicamerale. Al timore che con il primo si sarebbe potuto scivolare nella dittatura di assemblea, si replicava giudicando inutile dar vita a un doppione della Camera. Scartate le ipotesi di differenziare il tipo di rappresentatività, il progetto di costituzione accolse il principio del bicameralismo perfetto, fondato su due camere elettive, parimenti rappresentative e dotate dei medesimi poteri. Tale progetto in Assemblea fu aspramente criticato e sottoposto invano a varie proposte di emendamento, molte delle quali volte a codificare la supremazia della Camera dei deputati sull'altro ramo del Parlamento.
Una volta accolto il criterio paritario, la maggiore difficoltà affrontata dai costituenti riguardò la decisione relativa alle modalità di composizione di quella che il progetto di Costituzione definiva 'Camera dei senatori'. A tal proposito, si volle che anche la seconda Camera fosse rigorosamente basata sul sistema elettivo e si escluse ogni sua subordinazione rispetto all'altro ramo del Parlamento. A parte l'esiguo numero dei membri nominati o di diritto, le sole differenze con l'altra camera riguardavano il numero dei componenti, la durata (5 anni per la Camera e 6 per il Senato: le rispettive elezioni avrebbero dovuto quindi essere sfalsate), i requisiti per l'elettorato attivo e passivo ed il sistema elettorale. Rispetto alla Camera, i cui seggi si vollero attribuiti su base circoscrizionale, si stabilì che il Senato fosse eletto 'a base regionale'. Si trattava di caratteristiche che intendevano distinguere il Senato dalla Camera al fine di creare un bicameralismo effettivo con due assemblee leggermente differenziate, ma dotate degli stessi poteri. Tuttavia alcuni dei pregressi criteri costitutivi del Senato quale "organo di riflessione" erano rimasti: nella maggiore età richiesta per eleggere ed essere eletti e nella presenza, ancorché minima, di senatori vitalizi.
Con la terza disposizione transitoria della Costituzione si decise che, per la prima legislatura repubblicana, vi sedessero come senatori di diritto, accanto a quelli elettivi, i deputati alla Costituente che fossero stati presidenti del Consiglio o di Assemblee legislative, che avessero fatto parte del disciolto Senato, che in epoca prefascista fossero stati eletti almeno due volte, che nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926 fossero stati dichiarati decaduti per aver partecipato alla 'secessione aventiniana', ovvero avessero scontato la pena della reclusione per almeno cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato. Il Senato della prima legislatura repubblicana operò, quindi, quasi da sutura tra la classe politica prefascista e i nuovi ceti parlamentari.
Fin dal 1953 l'equiparazione tra le due assemblee si è andata accentuando con la parificazione della durata, dapprima realizzata in via di fatto con gli scioglimenti anticipati del Senato nel 1953 e nel 1958 (in coincidenza con le scadenze della Camera) e poi anche formalmente con la modifica costituzionale del 1963. Un'equiparazione che viene scrupolosamente rispettata anche nell'alternanza che scandisce la presentazione dei governi al Parlamento ai fini della richiesta della fiducia, ovvero dei documenti che sostanziano la manovra annuale di finanza pubblica. Una parità che, in realtà, non ha identificato in tutto le due assemblee. Se l'una può talvolta apparire come doppione dell'altra, così come i dibattiti che vi si svolgono, la circostanza per cui è sovente il caso di disegni di legge che incontrano favori, resistenze e, quindi, sorti diverse nelle due assemblee, sembra confermare che l'esistenza di una seconda camera pariordinata non comporta necessariamente un inutile dispendio di tempo per l'approvazione dei provvedimenti, quanto piuttosto la possibilità di un riesame approfondito degli stessi.
Il Senato riunisce, in tal modo, la tradizionale funzione di organo di riflessione che aveva sin dal passato, con la piena legittimità popolare che lo inserisce a pieno titolo nel grande filone della moderna democrazia rappresentativa.
Il palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica
La storia dell'attuale sede del Senato inizia sul finire del XV secolo, sotto il pontificato di Sisto IV, nei tempi in cui Roma da borgo medievale si apprestava a divenire una città moderna. Il terreno in cui sorge Palazzo Madama - sul quale, all'epoca, erano ancora visibili vestigia romane e torri medievali - era appartenuto per quasi cinque secoli ai monaci farfensi. Questi lo cedettero al governo francese che, a sua volta, donò al vescovo Sinulfo parte del terreno compreso fra la torre dei Crescenzi e le Terme di Alessandro, sul quale venne fondato il nucleo originario del Palazzo. L'edificio venne portato a compimento nel 1505 dal cardinale Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro Papa Leone X, che ne fece la sede romana dell'influente famiglia ed uno dei centri di irradiamento della cultura umanistica. Vi soggiornò spesso Caterina de' Medici, futura regina di Francia e illustre protagonista della scena politica europea del ventennio successivo alla morte del marito Enrico II, avvenuta nel 1559. Ma colei che doveva legare il suo nome al Palazzo fu Margherita d'Austria che, rimasta vedova del primo marito Alessandro de' Medici, sposò in seconde nozze Ottavio Farnese e soggiornò a lungo nel Palazzo: fu allora che esso assunse il nome che ancor oggi conserva.
Con la decadenza politica dei Medici e l'estinzione della casata, il Palazzo passò ai Lorena e, più tardi, a Papa Benedetto XIV, che ne fece la sede del governo pontificio. Nel 1849 Pio IX vi trasferì il Ministero delle Finanze e del Debito Pubblico (senza escluderne la direzione del Lotto: l'estrazione dei numeri aveva luogo sulla loggia esterna), nonché le Poste Pontificie. In quell'occasione vennero intrapresi diversi lavori di restauro e, nel febbraio del 1853, si tenne la cerimonia di inaugurazione dei nuovi uffici. Ma la storia dello Stato della Chiesa volgeva ormai al tramonto e di lì a poco meno di un ventennio il Palazzo avrebbe ospitato il Senato del Regno d'Italia.
Nell'immaginario popolare la storia delle donne i cui soprannomi sono valsi a designare i due palazzi di Roma e Torino si intreccia e confonde, tanto da aver fatto talora credere all'esistenza di un'unica 'Madama' per le due città. Come si è visto, si tratta in realtà di due distinte figure, che incarnano epoche e realtà profondamente diverse: da un lato, la Madama di Roma Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V, che riporta alla memoria il Rinascimento, l'influenza dei Medici e i legami di quella famiglia col papato e l'impero; dall'altro, la Madama di Torino Cristina di Francia, che incarna il periodo in cui, circa un secolo dopo, il ducato di Savoia visse una fase di stretta soggezione alla Francia.