Il decalogo dell'Italia educata e civile, Pian dei Giullari, Firenze
4 Agosto 2002
Cari amici, avevo preparato un intervento scritto, ma poiché per me leggere - compreso, anzi direi soprattutto, leggere le cose che ho scritto personalmente - è una delle tante forme di costrizione della mia libertà a cui faccio fatica ad abituarmi, preferisco anche stavolta, incoraggiato particolarmente dall''ambiente e dal clima amichevole, parlare sulla base di alcune note che ho preparato.
Intanto, grazie. Grazie a tutti voi che siete intervenuti, grazie agli studenti che in queste stanze hanno lavorato e che tra poco saranno premiati, grazie a chi opera per la Fondazione Spadolini, ai collaboratori di Nuova Antologia, ai ricercatori, agli studiosi. Ma grazie soprattutto all''amico professor Cosimo Ceccuti, custode materiale e intellettuale della eredità di Giovanni Spadolini, memoria di cultura e di affetti, instancabile promotore di benemerite iniziative nel campo della cultura storica di cui Spadolini fu protagonista.
Sarebbe bello potessi cominciare con un ricordo personale. Non ne ho, purtroppo. Ma ricordi e debiti intellettuali, sì, ne ho e mi sono cari.
Nelle mie interminabili letture giovanili, fameliche e notturne - perché il giorno la vita aveva voluto che dovessi destinarlo ad altri compiti - Giovanni Spadolini ha rappresentato per me un punto di riferimento, assieme a pochi altri che mi piace ricordare, perché ad essi sarò sempre grato, per avermi iniziato all''educazione intellettuale e per avermi evitato, a me giovane così acerbo, sbandamenti che mi sarebbero costati percorsi più tortuosi. Mi riferisco a Rodolfo Mondolfo, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Norberto Bobbio, Luigi Einaudi, Guido Calogero. Qualcuno oggi li studia ancora, li legge, li usa, se ne serve?
Eppure uomini come questi devono essere ricordati, e comunque io li ricordo, per alcune rare virtù, così rare - e lo dico con rammarico - nell''Italia di oggi, anche in quella democratica e liberata a cui essi contribuirono, che si fa fatica a pensare come avrebbero potuto adattarvisi.
Da Spadolini e da questi uomini io ho raccolto una sorta di decalogo, il decalogo di un''Italia educata e civile o di una "Italia in attesa", come l''ho chiamata commemorando non molto tempo fa a Torino, proprio uno di essi, Mario Pannunzio. Permettetemi di ricordarle, in primo luogo a me stesso, le voci di questo decalogo.
Primo. Competenze profonde. Questi uomini erani versati, e dettero contributi originali, nei campi della storia, della filosofia, dell''economia, del diritto. Non erano, genericamente, intellettuali, erano, in primo luogo studiosi, che, anche parlando in pubblico, lasciavano l''impronta del loro specifico sapere. E se anche entravano, come entravano, essendo talvolta uomini politici, in questioni che erano lontane dai loro interessi primari, quell''impronta tuttavia si avvertiva e si lasciava apprezzare.
Secondo. Rigore intellettuale. Questo è capacità di trovare soluzioni non verbali a problemi e capacità di vederne tanto i presupposti quanto le conseguenze immediate. Tutti sanno quanto ciò sia difficile, soprattutto per quanto attiene alle questioni politiche: saper scorgere qual è la sostanza di un problema, da quali fattori dipende e che cosa può comportare una soluzione anziché un''altra, è dote che richiede esperienza, acume e, appunto, rigore d''intelletto.
Terzo. Spiccata propensione al confronto. Nel mondo delle idee, ci si muove così: opponendo argomento ad argomento. E quegli uomini quest''arte della contrapposizione degli argomenti - l''arte della dialettica praticata da Socrate e poi teorizzata da Aristotele - la sapevano usare al meglio e condire spesso con ciò che la rende non solo efficace e suadente ma anche sapida, ora condita con l''ironia, ora col gusto polemico, ora anche con spirito sarcastico (si pensi a Rossi!), ma sempre gustoso, accattivante, illuminante e soprattutto civile.
Quarto. Spirito laico. E qui bisogna ancor oggi capirci, tanta è la confusione esistente anche fra i laici. Essere laico non significa professare valori diversi da chi è credente, bensì - come diceva Calogero in una garbata polemica con don Sturzo - professare una morale autonoma e non eteronoma, foss''anche quella eteronoma a base teologica, secondo il grande insegnamento di Kant. Insomma, essere laici vuol dire condividere, il più delle volte, con i credenti lo stesso insieme di valori, ma dare ad essi giustificazione, fondazione, o argomentazione, non basate su precetti divini o trascendenti, ma umani e mondani. Ed è qui che, appunto cade il grande insegnamento di Kant, come egli lo espresso soprattutto ne La religione entro i limiti della sola ragione: se anche un Dio mi rivelasse i suoi comandamenti morali, starebbe a me decidere che quelli sono comandamenti morali, e quindi starebbe alla mia responsabilità individuale (donde l''autonomia) applicare alla mia vita tali comandamenti. Tutto il contrario di chi oggi crede che essere laico significa aderire a morali diverse da quelle comuni.
Quinto. Lucidità e chiarezza dell''esposizione. Che dote meravigliosa è questa di farsi capire, di dire chiaramente e con nettezza qual è il proprio pensiero, di scegliere una parte e difenderla, salvo ad abbandonarla quando argomenti diversi non ci abbiano convinto di tesi diverse! E quanto apprezzabile sarebbe, soprattutto in un un''epoca in cui trionfa l''arte del doppiopesismo e quella, altrettanto, deplorevole della dissimulazione e della furbizia a fin di carriera! E anche qui, si badi bene: la chiarezza dell''esposizione non è una mera questione semantica o stilistica, è una questione morale, un imperativo etico. "Scrivi chiaro!", "parla chiaro!", sono doveri verso se stessi e gli altri, i doveri della sincerità, dell''apertura al dialogo, del rispetto dell''intetrlocutore. Chi scrive chiaro rispetta se stesso, perché non inganna se medesimo deliberatamente circa le tesi che difende (egli per primo sa, se sono forti, deboli o dove e in che punto). Chi scrive chiaro inoltre rispetta gli altri, perché, esponendo il proprio pensiero, non nascondendolo dietro gerghi o linguaggi esoterici, mette l''altro in condizione di criticarlo, e perciò lo eleva al livello di sé. Ricordo Salvemini che diceva: "Scrivi in inglese, è una lingua onesta". Già, quanti oggi sanno o vogliono scrivere in inglese, e non per ragioni linguistiche?
Sesto. Senso doveroso della vita. Molti dei miei maestri avevano combattuto, in posizioni diverse, per la libertà contro il fascismo. Avevano pagato con i sacrifici, con le rinunce, con la libertà, il prezzo alle proprie idee. Avevano testimoniato. E qui mi rivolgo ai giovani. Che cos''è la vita, al di là del fatto biologico, psicologico, intellettuale? Lo dico con un''espressione che racchiude una lezione che credo di aver imparato dagli uomini che ho ricordato: la vita è strumento per una testimonianza. Togliete la testimonianza, lo scopo, il còmpito che ciascuno si dà, gli sforzi che ciascuno compie per tale còmpito, e la vita non vale più di una complessa sommatoria di cellule determinate dalle leggi della fisica e della biochimica.
Settimo. Senso etico dello Stato. Il qual senso non è, anzi è il contrario, del senso dello Stato etico. Si tratta invece di quella concezione dello Stato non invasivo, non tutorio, non censorio, non autoritario, bensì garante della libertà di ciascuno fino al limite della libertà di ciascun altro. Uno Stato né minimo né massimo, ma misurato sul metro dei diritti di libertà, civili, politici, sociali, che l''evoluzione della storia espande incessantemente.
Ottavo. Concezione mondana della storia. La storia non è meccanica di fattori o epifania di valori o teleologia di scopi o approssimazione a mète. La storia è teatro di uomini, di volpi, leoni, mostri, geni, santi, affabulatori, missionari, visionari, galantuomini e birbanti, insomma teatro dell''umanità variopinta e dispiegata in tutta la sua fenomenologia. Quella umanità che cerca un senso e di volta in volta, di tempo in tempo, ne trova uno per poi abbandonarlo e sostituirlo e trovarne un altro.
Nove. Concezione laica delle istituzioni. Queste sono la casa di tutti e un bene per tutti, e perciò luogo in cui non alberga un''insegna di parte, se non quella condivisa dai più e sui cui si fondano un popolo e una nazione, come una bandiera, una costituzione, un costume civile, una tradizione, una fede.
Dieci. Concezione non ideologica o messianica della politica. E qui ricordo proprio Spadolini, quella volta quando, rosso in volto e stizzito, come lui solo simpaticamente diventava quando sentiva offesi valori fondamentali, ad un suo avversario politico replicò: "nei paesi democratici non si va al potere, si va al governo!". E perciò, si va e si torna, a seconda del consenso. Non si va, al governo, con l''intenzione di non tornare più all''opposizione. Non si va, al governo, con la convinzione che esso è proprio e per merito proprio. Non si va, al governo, con la presunzione che, se si tornasse all''opposizione, questo sarebbe una discesa agli Inferi per tutti.
Questo è il decalogo che ho imparato da Spadolini e gli altri che ho ricordato. È il decalogo di un''Italia che non c''è più, o, come ho detto di un''Italia di cui siamo ancora in attesa.
Non mi meraviglia, considerando questo decalogo, che Spadolini dicesse di se stesso: "ho avuto tre vite e ho cercato in ognuna di riferirmi agli stessi criteri, di obbedire agli stessi princìpi". Proprio così: Spadolini fu storico, fu politico, fu giornalista. Ora Giovanni, ora Giovannone, ora Giannone, ora con la foglia di edera al posto di quella di fico, ora gioviale, ora espansivo, ora cerimonioso, ora severo, ora stizzito, ora irritato. Ma sempre lui: Giovanni Spadolini, quello che - a differenza di un suo grande concittadino che stava con i libri e si "ingaglioffava" col popolo - stava con la gente (e quanto gli piaceva a Spadolini stare con la gente!) e si metteva la vestaglia per stare in mezzo ai suoi amati libri.
La sua quarta vita Spadolini la perdé otto anni fa, il 4 agosto 1994. Ho sentito più d''uno dire che la tragedia lo colpì in modo accelerato fu dovuta ad una delusione politica. Quei cinici e meschini che così dicono non capiscono che rendono omaggio proprio al suo decalogo, proprio al suo principio della vita come testimonianza.
Valga la nostra pietà a ricordarlo. Ma valga soprattutto il nostro debito intellettuale e morale per tributargli l''onore che merita. Il Senato gli intitolerà la nuova Biblioteca. Pubblicheremo, cura di Cosimo Ceccuti, i suoi discorsi parlamentari scelti e metteremo su un CD tutta la sua attività alla Camera e al Senato. Sono atti dovuti. Ma sono ancora atti esteriori. Sta a noi, dentro, continuare la sua testimonianza.