Il Presidente: Interventi in Assemblea e in occasioni istituzionali

In memoriam Giovanni Agnelli

28 Gennaio 2003

Onorevoli senatori, la vita del senatore a vita Giovanni Agnelli ha questo di caratteristico e unico: che rispecchia la biografia della Nazione, dai suoi difficili esordi unitari fino ad oggi.

All'origine è il nonno Giovanni sr., senatore del Regno, alla cui educazione Giovanni jr. viene affidato dopo la scomparsa tragica del padre Edoardo nel 1935, quando il nipote ha solo 14 anni. Questo rapporto consente al giovane Agnelli una serie di contatti che avranno una funzione battesimale per la formazione della sua personalità.

Entra in contatto con la Torino sabauda, la città dove l'unità nazionale era maturata e dove era ben salda la tradizione del vecchio Piemonte.

Entra in contatto con l'atmosfera non solo italiana ma anche europea che si respira in quella città, dove le migliori classi dirigenti avevano da tempo maturato la convinzione che solo agganciando l'unità d'Italia all'evoluzione europeo-occidentale si sarebbe modernizzato il giovane Paese.

Entra in contatto con la Fiat, in quei tempi eroici della sua nascita e dei conflitti di classe che spinsero Piero Gobetti a notare come essi fossero sintomo di una necessaria maturazione del Paese, senza la quale nessun esperimento di moderno liberalismo sarebbe stato neppure concepibile.

Infine, sempre grazie al nonno, convinto che si dovesse superare quanto ancora di provinciale - ancorché di sanamente provinciale - vi fosse nella prima fase di vita della fabbrica, il giovane Giovanni Agnelli, nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, entra in contatto con gli Stati Uniti. Qui egli prese diretta conoscenza degli uomini, degli affari e dei modelli di gestione e organizzazione dell'industria americana, che la Fiat aveva già fatto largamente propri a partire dalla prima guerra mondiale e dei quali la grande fabbrica di Mirafiori, da poco inaugurata, costituiva la realizzazione più avanzata.

È grazie a questi contatti che nasce quel senso istituzionale, non solo nel pensiero ma anche nei comportamenti e nello stile, poi dalle cronache sbrigativamente definito "regale", che fu il tratto più tipico della personalità di Giovanni Agnelli. Senso istituzionale poliedrico, perché per Agnelli istituzione fu la famiglia, ma istituzioni furono la Fiat, Torino, l'Italia, l'Europa, gli organismi internazionali. E senso istituzionale domestico e cosmopolita al tempo stesso, di chi sapeva che la fabbrica avrebbe dovuto agire in un contesto assai più vasto del raggio di azione degli stabilimenti.

Questo senso istituzionale fu messo all'opera e fu consolidato quando Giovanni Agnelli lavorò all'ombra di Vittorio Valletta, che a tutti gli effetti, dopo il nonno, può considerarsi il suo secondo maestro. La Fiat di Valletta segnò un'ulteriore tappa verso l'adeguamento al moderno e l'apertura al mercato internazionale del nostro sistema industriale. È in questo periodo che la sorte della Fiat si lega allo sviluppo dell'Italia, fino a coinciderne per una buona parte. Lasciata la vecchia elitaria Balilla, a bordo delle popolari Topolino, Seicento e poi Cinquecento, si compì una decisiva trasformazione sociale della quale la fabbrica torinese rappresentò uno dei principali elementi propulsivi. Nacquero una nuova coscienza di classe e un ampio ceto medio attento al benessere personale e, per questo, non disposto a perderlo.

L'avvento di Gianni Agnelli alla guida della fabbrica di famiglia, prima con la carica di amministratore delegato nel 1963, poi nel 1966 con quella di Presidente tenuta per trenta anni fino al 1996, quando divenne infine Presidente onorario, coincise con una fase assai ardua. Con la fine degli anni Cinquanta e il Mercato Economico Comune la sfida internazionale non fu più eludibile. Il rallentamento della crescita e la maggiore competizione sullo stesso mercato interno resero la fabbrica meno protetta e più esposta. Venne allora concepito ed attuato quel processo di decentramento della struttura del gruppo Fiat che ne modificava l'originario modello centralistico e piramidale.

Le maggiori difficoltà, proprio a cavallo di questo mutamento organizzativo, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, e poi in modo deciso con l'autunno caldo del 1969, vennero dalla esplosione della conflittualità sindacale e poi del terrorismo, per cui la Fiat, una volta ancora, tornò ad essere l'epicentro e il simbolo di una epocale trasformazione sociale.

Le crisi petrolifere degli anni Settanta misero poi in discussione lo stesso modello di sviluppo basato sull'automobile. Agnelli, nel corso di questa bufera, fu saldamente al timone dell'azienda. Cercò nuovi sbocchi su mercati più ampi, di cui resta rilevante lo sviluppo multinazionale di grandi impianti della Fiat, sia nell'Est europeo sia in America latina. Cercò nuovi partner, di cui fu emblematico il tentato accordo con la Citroen, fin dal 1967, bloccato dalle chiusure nazionaliste di De Gaulle. Cercò sistemi di relazioni industriali più moderni e migliori rapporti con i sindacati. Ci furono scontri e conflitti sociali, con molti scioperi, e ci furono reazioni, tra cui la "marcia dei quarantamila".

Le difficoltà complessive dell'industria italiana a metà degli anni Settanta determinarono Agnelli ad assumere la carica di Presidente della Confindustria dal 1974 al 1976, durante la quale egli dovette affrontare i nuovi appuntamenti imposti dall'ormai avanzata fase di internazionalizzazione e di competizione più agguerrita.

Pressoché esauriti i tempi della proiezione e anche della protezione interna, la Fiat di Giovanni Agnelli, di cui alla fine degli anni Settanta era divenuto amministratore delegato Cesare Romiti, andò incontro e superò una grave crisi che per molti versi richiama quella odierna. Alla vigilia degli anni Ottanta, per l'auto si pose il problema della dimensione del mercato, che, allora come oggi, a causa dell'allargamento, creava nuove opportunità, ma anche, a causa della concorrenza, causava nuove difficoltà. E già allora l'attività finanziaria si propose, per il gruppo, come una possibile diversificazione rispetto al prodotto primario.

Ma le difficoltà restavano, perché l'internazionalizzazione procedeva a grandi passi verso la globalizzazione.

L'ultimo decennio è stato il più difficile. L'impressione d'insieme che si ricava - solo un'impressione, però, perché gli eventi sono ancora in corso e lo spazio necessario allo storico è ad oggi insufficiente - è che l'accelerazione del processo di modernizzazione abbia impedito la possibilità di continuare a gestire, col sapiente dosaggio iscritto nel patrimonio genetico di Giovanni Agnelli e della Fiat, tradizione e modernità, difesa e apertura. Un'altra impressione - questa più documentabile - è che una fase nuova del nostro capitalismo e del nostro sistema industriale si sia aperta. Nuovi imprenditori, nuove mentalità, nuove tecnologie e neoeconomie, nuovi prodotti - compresi quelli che Giovanni Agnelli avrebbe considerato meno materiali -, si profilano all'orizzonte anche italiano. E nuove sfide, difficili perché da esse dipendono lo sviluppo, l'efficienza, la competitività del nostro Paese.

Come avrebbe reagito Giovanni Agnelli a queste sfide non si può affermare e sarebbe ingeneroso, per rispetto della sua memoria, cercare di intuire. Si può solo dire che egli aveva ben presente il problema. La sua lezione della Sala Zuccari sulla globalizzazione, che egli tenne giusto un anno fa, il 21 gennaio 2002, e che rappresenta l'ultimo suo intervento pubblico, oltre che il suo unico intervento in Senato, anche se non in Aula, è una testimonianza di questa consapevolezza. Disse, fra l'altro, in quella circostanza:

«Oggi, la compagine mondiale ha fatto sua la convinzione che si può percorrere un cammino comune, nel reciproco rispetto e nella reciproca valorizzazione. Ha fatto sua la convinzione che esiste un destino comune nel conquistare insieme l'affrancamento da ogni genere di povertà e privazione materiale e immateriale. Questa è la grande opportunità della globalizzazione. Questo è il traguardo per cui val bene spendere tutte le nostre energie morali e intellettuali».

Nel momento della massima difficoltà, ritornava con queste parole il senso poliedrico delle istituzioni di Giovanni Agnelli, la sua visione d'insieme che ne faceva al tempo stesso un imprenditore e uno statista. Il suo impegno non sarebbe venuto meno, neppure nei confronti della sua città, come testimonia la tenace volontà di presenziare, già gravemente indebolito, alla donazione della collezione di famiglia al Lingotto. Certamente, non sarebbero venute meno la dignità verso la storia sua e della sua famiglia e la consapevolezza di quanto in esse vi fosse della più complessiva storia d'Italia.

Onorevoli senatori, per credenti e non credenti il significato della vita e della morte ha questo in comune: la consegna di ciò che si è fatto come testimonianza per le generazioni future. Domani ad esse competeranno la valutazione serena dell'opera del senatore a vita Giovanni Agnelli e la sua giusta collocazione nella nostra storia. A noi oggi spettano la gratitudine per la sua opera e il cordoglio per la sua scomparsa.



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