Il Presidente

Iniziative culturali

Umberto Zanotti Bianco di Gennaro Sasso
Discorso pronunciato alla cerimonia di commemorazione nel 40° anniversario della scomparsa di Umberto Zanotti Bianco.
Palazzo Giustiniani, 11 novembre 2003

Quando, conclusasi la battaglia di Filippi, si soffermò sul feretro di Bruto, il suo grande nemico vinto, Marc'Antonio pronunziò un breve discorso, che Shakespeare rese come nessun altro avrebbe potuto. Fra tutti i congiurati Bruto era il più nobile. Gli altri avevano agito per odio e per invidia del grande Cesare. Lui soltanto nel nome e nel segno della virtù, per l'interesse pubblico e il bene comune si era unito alla loro schiera. Ma Marc'Antonio aggiunse anche che con tale armonia gli elementi si erano uniti nella sua persona che, sorgendo sul suo sepolcro, la natura stessa avrebbe potuto compiacersene e dire: questo fu un uomo.

Questa scena shakespeariana mi tornava spesso alla mente quando nei mesi scorsi, leggevo gli scritti di Umberto Zanotti Bianco: quelli (pochi) che già conoscevo, e gli altri (i più) che non conoscevo e via via mi rivelavano il profilo di un personaggio in ogni senso straordinario, certo fra i più rari e notevoli che l'Italia abbia prodotto nel secolo ventesimo. La scena shakespeariana tornava a visitarmi non per dar luogo a un paragone. Era piuttosto l'idea che in Bruto gli elementi si fossero intrecciati nella più alta armonia a suggerire che anche in Zanotti Bianco la personalità era risultata dall'incontro e dall'accordo di qualità diverse, molto diverse, che non è frequente vedere risolte in unità. Chi ha molti talenti corre il rischio della dispersione se, senza riuscire a trovare il punto della sintesi, cerca di coltivarli tutti. Ma ai suoi molti talenti Zanotti seppe dare, fin dall'inizio, un vigoroso orientamento unitario. E per questo la sua opera mi richiamò, senza sforzo, quel mirabile logos epitaphios shakespeariano.

Questo destino, molteplice e sintetico, si determinò subito in Zanotti. Si potrebbe dire: fin dalla nascita. Se a metterlo al mondo furono un padre piemontese e una madre inglese, il luogo fisico della sua nascita non fu il Piemonte, non fu l'Inghilterra: fu Creta, l'isola di Minos e della più antica civiltà greca. Sì che, sarà stato certamente un caso che, almeno di nascita essendo greco, con Paola Zancani Montuoro egli si dedicasse, da giovane, agli scavi archeologici e, fra le altre cose, alla ricerca, alla foce del Sele, del santuario di Heraion. Sarà un caso; che, osservato alla luce dei risultati, assume tuttavia quasi il colore, non dirò dell'ananke, ma di qualcosa non di meno come una predestinazione. D'altra parte, se fu un archeologo, destinato a scoperte importanti, Zanotti fu assai più che un archeologo.

La nascita bilingue lo dispose ad apprendere con facilità altri idiomi; e il possesso, presto conseguito, di questo vario e ricco strumento linguistico fu subito messo al servizio della sua passione del molteplice: una passione che dell'apprendimento delle lingue fu, forse, piuttosto la causa che non la conseguenza, e che in lui fu comunque passione di un molteplice, non solo culturale, ma, lato sensu, umano, fatto cioè di persone, di situazioni, di problemi, di dolori, di sofferenze: di tutto quello, insomma, che in lui accendeva e acuiva la capacità di comprendere e di agire, senza far conto dei pericoli, infranto fin dall'inizio il filo della mondana prudenza, e senza, soprattutto, mai accettare che potessero darsi situazioni nelle quali, per disperate che fossero o sembrassero, non potesse farsi qualcosa di buono.

Nel 1923, a Salvemini, che per un momento aveva ceduto a un moto rabbioso di pessimismo, aveva scritto: "la materia da lavorare è dura, scontiamo con questa incoscienza delle classi dirigenti, con questa leggerezza generale degli spiriti, con questa amoralità degli uomini il bel sole di cui avevi nostalgia a Londra. Non esplodere: scherzo! E non sei certo tu che hai bisogno di parole animatrici... tu che ogni tanto fissi dei termini di tempo al rinsavimento italiano al di là dei quali giuri di gettare l'anima al diavolo e che alla prima occasione d'agire ti ritrovi, nonostante tutti i giuramenti, a perseguire, senza ombra di incertezza, le tue idealità".

Ad avvertire i problemi vivi della realtà e a condividere le altrui sofferenze non si perviene se le doti che sono in noi non siano coltivate allo scopo di metterle subito alla prova delle cose. Di questa disposizione, anzi di questa autentica vocazione alla concretezza, Zanotti non tardò a prendere coscienza. Mazzinianamente, e in questo atteggiamento è la radice della grande amicizia che, appunto, lo legò a Gaetano Salvemini, il pensiero in lui cercava l'azione. L'ideale, le vie e i mezzi della realizzazione. La sola ipotesi che il pensiero restasse pensiero, e l'ideale, ideale, era per lui causa di sofferenza morale. Zanotti detestava e temeva le torbide atmosfere delle anime belle, lo spasimo e la sofferenza che si ripieghino con compiacimento su se stessi e non sappiano trovare in sé le ragioni del loro proprio superamento nell'azione.

Nato nel 1889, in una famiglia cattolica, Zanotti aveva solo diciassette anni quando, a Vicenza, con alcuni giovani amici, entrò in contatto con Antonio Fogazzaro, del quale aveva fra le altre cose, letto, non solo Il Santo, il romanzo, come lo si è definito, del modernismo cattolico, ma anche le Ascensioni spirituali, ossia il testo nel quale il cristianesimo e la sua varia spiritualità erano messi a confronto con la scienza e, soprattutto, con il darwinismo. Dall'incontro nacque un carteggio, del quale solo una parte, purtroppo al quanto esigua, è sopravvisuta; ma sufficiente tuttavia a far intendere che se, per un verso, la disposizione al ritrovamento dei valori dell'interiorità e dell'incessante scrutinio della coscienza gli era passata dentro, ed era cosa sua, non altrettanto potrebbe dirsi dell'altra disposizione fogazzariana, quella inclinante al misticismo dell'eros e ai congiunti spasimi e tormenti che ne derivavano al sentire religioso. Da quest'ultima disposizione, e dal decadentismo che le stava dentro, quant'era deciso ad approfondire l'altra, Zanotti si tenne lontano, lui che i drammi della coscienza intendeva bensì viverli, ma per orientarli verso la prassi, non per farne un gorgo dal quale uscire fosse impossibile.

Quando era ancora molto giovane, e già aveva scoperto la sua vocazione di intellettuale volto alla prassi, oltre Fogazzaro, Zanotti lesse Tolstoj; e fu affascinato, anzi conquistato, dal suo filantropismo sociale, dal suo ripudio dell'egoismo, della forza, e, più che mai, della violenza, dal suo pacifismo.

Fu una lettura che, accanto a quella di Mazzini, lo segnò per la vita. Ciò non gli impedì, quando anche per l'Italia suonò l'ora della grande avventura mondiale, di scegliere la parte degli interventisti, vivendone in prima persona le relative scelte. Si arruolò, perché non era uomo che potesse non tradurre in azione quel che gli si agitava nel pensiero. Combatté, fu gravemente ferito, e, dopo sei interventi operatori resi necessari dalle gravi ferite riportate, rimase vivo. Ma fu un miracolo; e quando, convalescente, fu ospite nella casa di Leopoldo Franchetti, con il quale si era proficuamente legato condividendo con lui la passione per le questioni del Mezzogiorno, lì dovette vivere due grandi, sconvolgenti, tragedie. Quella determinata dalla rotta di Caporetto, e l'altra, provocata da questa, e segnata dal suicidio di Franchetti: episodio terribile anche per il significato simbolico che assumeva nella storia di un uomo che aveva dedicato la vita a rendere più forte l'unità del Paese, e ora non reggeva al dolore che gli derivava dal vederla di colpo messa in forse da eserciti nemici vittoriosi che minacciavano di dilagare nella pianura padana e di distruggere per sempre l'opera del Risorgimento.

Conviene a questo punto, perché sul serio aiuta a penetrare nel profondo della coscienza zanottiana, leggere le pagine che, nella rievocazione che più tardi fece della vita e dell'opera di Leopoldo Franchetti, Zanotti dedicò a una conversazione avuta con lui in un giorno del 1914 sul tema, che all'improvviso il suo interlocutore gli aveva proposto, se fosse lecito, in difesa della patria, compiere azioni delittuose.

Sia pure con grande sofferenza, al quesito Franchetti aveva risposto di sì, che si potesse e dovesse, niente essendo l'individuo a paragone della patria. Con nettezza, senza alcuna esitazione, Zanotti invece aveva risposto di no, che né si poteva né si doveva. "Il paese siamo noi", gli aveva detto. "Corrompendoci non corrompiamo forse l'organismo di cui facciamo parte? Le nostre azioni individuali non lasciano sempre un'impronta nell'universale? Contrariamente a ciò che pensano i più, mi pare che siamo assai più colpevoli se deroghiamo dal nostro codice morale nella vita pubblica che non nel segreto àmbito della nostra vita personale".

E, postosi il problema del perché Franchetti si fosse risolto a proporre quel punto di vista, aveva cercato di guardare nel profondo della sua formazione culturale, e lì aveva trovato lo "sgomento" che nella sua coscienza insorgeva di fronte a "tutte le astrazioni" della metafisica, il "risoluto agnosticismo in cui - in materia di religione - si rinchiudeva la sua intelligenza. 'Quod super nos, nihil ad nos'. La sua cultura che aveva sempre, volutamente, schivati i problemi finali, lo aveva lentamente murato nel mondo della natura". Dopo di che, sebbene lo ammirasse profondamente, e avesse per lui autentica devozione, non si astenne, nel giudicarlo, dalla severità. "L'ammirazione per gli uomini migliori delle generazioni che ci hanno preceduto non deve impedirci di constatare la presenza in essi di quei germi di decadenza morale, la cui esplosione nelle generazioni seguenti sembrerebbe altrimenti un fenomeno improvviso, isolato, difficile a spiegarsi". Quando scriveva queste parole, Zanotti pensava al gesto tragico con il quale Franchetti aveva posto fine alla sua vita. Ne aveva pietà, ma dall'averlo compiuto non poteva assolverlo. Nella purezza della sua coscienza religiosa, non poteva ammettere che la patria stesse al di sopra del dovere morale; che, come scrisse, la "città terrena" potesse "sostituire la città di Dio".

Zanotti era convinto che a quel che la coscienza imponeva non si potesse derogare, a essa contrapponendo i tempi, i luoghi, le circostanze specifiche, - quello che egli chiamava "storicismo" e che sempre condannò. L'aveva condannato, al tempo della rivoluzione d'ottobre, quando la "necessità delle cose" era stata invocata da Trotzsky a giustificazione delle durezze rivoluzionarie. Lo condannò più tardi, anche questa volta senza appello, e con la sua tranquilla, sicura, nettezza, quando quella necessità se la vide contrapporre dai fascisti proclamanti che la libertà doveva cedere di fronte alle esigenze dei tempi e alla marcia trionfalmente obiettiva delle cose. Non c'era infatti per lui necessità che potesse andar sopra alla coscienza, e alla libertà che non ne è che un sinonimo. Alla coscienza, e alla libertà, Zanotti credeva come alla ragione ultima delle cose: di quella soltanto, e della libertà, riteneva che ci si dovesse mettere al servizio, senza timore che per questo si potesse e dovesse incontrare la morte.

A deciderlo per la causa dell'intervento era stato il suo mazziniano amore per i popoli oppressi, per le nazionalità negate; per quella varia, frastagliata, composita umanità che l'Impero austro-ungarico teneva unita in un vincolo che era tuttavia quello, non della libertà, ma dell'oppressione.

Alla realtà dell'Oriente europeo Zanotti aveva del resto da tempo volto il suo interesse, che perciò era vivo in lui ben prima che la guerra del 1914-1918 scoppiasse e immettesse il mondo nella "grande fornace" in cui molte cose si sarebbero per sempre consumate e bruciate, altre avrebbero in profondità mutato il loro volto. Questo interesse si era dapprima, e cioè a partire dal 1907-1908, manifestato (e Zanotti era allora poco più che un ragazzo) nei confronti della Russia; che rimase poi sempre, e cioè fino al termine della sua vita, un suo grande problema. Nella grande cultura di quell'immenso paese, nei suoi scrittori e pensatori, aveva guardato a fondo. Li aveva letti, studiati, ne aveva promossa la conoscenza attraverso molte iniziative, anche editoriali: basti pensare alla collana "La giovane Europa", che egli diresse presso le Edizioni della "Voce", e nelle quali vide la luce, in lingua italiana, nel 1919, I precursori della Rivoluzione russa di Anna Kolpinskaja. Ma in Russia era stato di persona nel 1922 quando la Rivoluzione era ai suoi inizi e già si annunziava la drammatica deriva autoritaria, che egli cercò di comprendere nelle sue ragioni, ma con realismo, senza ipocrisie e senza morbide indulgenze, fedele sempre alla sua idea della libertà , che non sopporta di essere mai messa da parte.

In Russia, come nel Mezzogiorno d'Italia, Zanotti andò per capire, per conoscere, per osservare con i suoi occhi: non per trarne elementi di conferma di ideologie precostituite. Andò per ascoltare la musica, per dissonante che fosse, delle cose. E anche per questo, conforme del resto alle richieste che gli venivano dal profondo della sua coscienza, il suo interesse non restò limitato alle cose della cultura; e da questo, invece, passò subito alle questioni politiche e sociali del presente, anche perché egli sapeva bene, che, dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, la repressione zarista era stata durissima e lo stato delle cose si era fatto ancora più grave di quanto prima non fosse, sì che immane era il compito che i bolscevichi aveva di fronte.

Su tanti aspetti della cultura russa Zanotti già allora si era interrogato. Aveva, l'ho già ricordato, letto Tolstoj, e meditato su quel che insegnava per la comprensione del suo grande paese. Aveva riflettuto sul nichilismo, ed era rimasto colpito, non solo dalla distruttività e autodistruttività intrinseca a quel movimento, e della quale aveva letto in Turgen'ev e in Dostoevskij; ma anche aveva riflettuto, come scriveva in un suo appunto, sulla tendenza russa "all'astrattismo cosmico e vago, al radicalismo estremo": una tendenza profondamente radicata e che costituiva a suo giudizio un pericolo grave, non tanto per l'Europa, quanto per la Russia stessa. Ne era perciò indotto, anche in questo caso, a passare dalla diagnosi alla prognosi, a cercare, dopo aver meditato e capito, le vie dell'azione: meno solennemente, a rendersi utile a qualcuno.

In Italia aveva, in quegli anni, preso contatto con gli esuli russi che, dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, vi avevano trovato rifugio. Fu in contatto con Gorkij, partecipò al Congresso degli esuli che si tenne a Capri nel 1913, si spese senza risparmio di forze nel tentativo volto a far sì che quegli uomini sparsi un po' dappertutto in Europa superassero i loro contrasti interni e, trovata un'intesa, indirizzassero le loro grandi, potenziali energie a uno scopo comune. A Xenia Matvev, nel 1914, aveva scritto: "oh! Quante forze russe vagabonde di per l'Europa, incapaci di metter radici e di darsi interamente a un'azione che lasci traccia! Questo mi fa soffrire, soffrire perché vedo ciò che potrebbe preparare all'estero l'emigrazione russa, abituandosi a vincere le discordie interne". La domanda che aveva incontrata in Gogol, nelle Anime morte, e che aveva resa in francese trascrivendola in un suo appunto: "Russie, Russie, où course tu?, dis, réponds moi. Elle ne répond pas", - questa domanda non gli dava tregua. E per darle lui una risposta, non risparmiava energie: alle sue imprese editoriali e di varia organizzazione culturale cercava l'aiuto di chi, innanzi tutto, comprendesse le ragioni profonde che lo spingevano a tanto, e che erano tutte nel suo mazziniano interesse per le questioni della nazionalità e della libertà, i due grandi principi che avrebbero dovuto animare dall'interno le stesse istanze della rivoluzione sociale. Nazionalità significava infatti per lui libertà, democrazia, riconoscimento dell'autonomia. Non è perciò sorprendente che anche in questo caso quello che più profondamente lo capì, e con più decisione gli fu accanto, fu l'uomo con il quale divideva nello stesso tempo l'interesse e la passione per i problemi del Mezzogiorno italiano. Quell'uomo fu Gaetano Salvemini.

C'è un filo sottile, ma tenace tuttavia e robustissimo, che in Zanotti Bianco lega l'interesse per le cose russe e per le nazionalità soffocate nell'Impero austro-ungarico a quello per il Mezzogiorno d'Italia: proprio come ce n'è uno, altrettanto robusto, che connette quest'ultimo all'altro, culturale e storico, per gli scavi archeologici in Calabria e in Puglia. Era come se, in questo caso, dalle questioni del presente, che lo angustiavano e offendevano la sua coscienza di uomo civile, Zanotti fosse spinto a scendere nelle profondità del passato, a scavarvi dentro per comprendere meglio quanto lontane fossero le radici del presente, e quanto difficile fosse recarle alla luce, osservarle, risolvere le questioni delle quali testimoniavano l'antichità.

Nel dire così, nell'indicare questa possibile connessione fra l'uomo politico che, nelle forme a lui congeniali, opera nel presente, e l'archeologo che scava nel passato, occorre esser coscienti di star proponendo non più che una congettura; che concerne del resto assai più la situazione obiettiva di questo possibile incontro, di questa sotterranea solidarietà fra imprese diverse, che non la consapevolezza che Zanotti potè averne. È difficile tuttavia pensare che sul nesso che la questione sociale e quella archeologica intrattenevano l'una con l'altra, egli tanto in tanto non meditasse; che questo incontro del presente con l'antico, di questo con il presente, non apparisse, anche a lui che ne era il soggetto, singolare. Ma il punto è che certamente di quel nesso, se pure lo avvertì, Zanotti non si fece un problema. Era troppo austeramente posseduto dal problema del fare, e del capire in funzione del fare, perché non gli apparisse cosa frivola, ed espressione di spiriti decadenti, ogni compiaciuta cura di se stesso. A differenza di quanto sarebbe accaduto, nel secondo dopoguerra, a opera di altri personaggi che, non senza merito, all'interesse per le questioni sociali e politiche intrecciarono il filo della letteratura e della riflessione etnoantropologica, per Zanotti il Mezzogiorno fu una serie di problemi da risolvere in concreto: fu la sua miseria, le malattie, le scuole che non c'erano e che a ogni costo occorre aprirvi perché la piaga dell'analfabetismo potesse ricevere le prime cure in vista del suo risanamento.

E qui occorrerebbe citare i tanti scritti nei quali riassunse i risultati delle sue inchieste sul terreno: come quella, memorabile, sulla scuola in Calabria, della quale descrisse nel 1925, in un volume, il "martirio". Fu anche, ed essenzialmente, l'inadeguatezza della classe politica, incapace di porne il problema al centro della vita nazionale e di risolverlo, ossia di avviarlo a soluzione, nel quadro di questa. E qui non si finirebbe più se si dovessero citare i suoi tanti interventi, che ebbero luogo in sedi diverse, da quella dell'Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno, della quale fu parte essenziale e scrisse la storia, a "Italia nostra" all'altra del Senato della Repubblica, del quale fu chiamato a far parte, come senatore a vita, da Luigi Einaudi nel 1952. Insomma, mentre in lui sarebbe impensabile e impossibile cercare e trovare quel che, nel secondo dopoguerra, fu proprio di Carlo Levi e, magari, di Ernesto de Martino, non è invece difficile vedere e capire che il suo Mezzogiorno fu quello di Franchetti, di Sonnino, di Colajanni, di Nitti, di Salvemini, di Fortunato: di questi uomini che in effetti gli furono guide, maestri, compagni di lavoro.

L'altro filo, il più esplicito, è quello che lega la questione meridionale alla questione delle nazionalità, come sopra le ho definite, negate: la questione, si può dire, che per prima parlò alla sua coscienza. Sia, tuttavia, chiaro. Fedele a quello che ben potrebbe dirsi il suo salveminismo, Zanotti avrebbe profondamente diffidato di chi gli avesse raccontata la leggenda di una sommersa "nazionalità" meridionale che l'azione politica e sociale avrebbe dovuto riconoscere e far emergere, restituendola a se stessa e alla sua propria autonomia.

Per Zanotti Bianco, che per la dignità, la civiltà, la libertà del Sud si battè con fede mazziniana, per tutta la vita; che mai sentì se stesso straniero in Italia perché, al contrario, stranieri a essa, alla sua storia e ai suoi valori, considerò sempre e soltanto coloro che ne offendevano e spegnevano la libertà, nazione era la terra italiana. Per complicata, varia e difficile che potesse essere agli occhi di chi con più cura avesse guardato in essa, quella dell'Italia era pur sempre una storia unitaria.

E Italia era il Piemonte suo e di suo padre, Italia la terra veneta di Antonio Fogazzaro, Italia il Mezzogiorno; e lavorare in una di queste terre era perciò come lavorare in tutte e per tutte. Non c'era in lui nessun particolarismo. Che la dimensione culturale, politica e morale del Mezzogiorno dovesse essere riconquistata e restituita a se stessa non era se non la condizione perché, attraverso il suo riscatto sociale, il Sud potesse affiancarsi al Nord in una patria civile e moderna. Su questo punto, semplice e fermissimo, Zanotti non ebbe mai né dubbi né esitazioni.

Fu questa elementare consapevolezza che, poco dopo il terribile terremoto che nel 1908 aveva rasa al suolo Messina, lo spinse a scendere in campo contro la crudele irrazionalità della storia, a richiamare all'azione per il Mezzogiorno i Nitti, i Salvemini, i De Viti de Marco che, come ha scritto Manlio Rossi Doria, "passata la fase della prima battaglia meridionalista, - premuti dagli avvenimenti, avevano posto negli anni tra il 1904 e il 1908 al centro della loro attenzione altri studi e altri problemi". Fu allora il giovane Zanotti a rimetterli insieme, risvegliando in Salvemini che nel terremoto di Messina, nella cui Università insegnava, aveva perduto la moglie, cinque figli e una sorella, il senso della vita e la passione del fare. Lì rimise insieme, con loro risalendo alla generazione dei Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato, e dando così vita a una nuova stagione dell'impegno meridionalistico.

Non saprei dire se le gravi conseguenze scaturite dalla tragedia della prima guerra mondiale, che per l'Italia avevano significato il fascismo e la soppressione delle libertà politiche, e per la Russia l'instaurazione, dopo la Rivoluzione dell'ottobre, di una pesante dittatura, inducessero Zanotti Bianco a tornare, in termini autocritici, sul suo generoso interventismo. La dissoluzione dell'Austria-Ungheria aveva bensì significato la fine di quel composito organismo politico, nel quale tante individualità erano state conculcate e oppresse. Ma certo non aveva segnato nell'Est europeo l'avvento delle nazionalità liberali e democratiche.

Il panorama restava oscuro, ricco di tensioni, mentre, nel centro dell'Europa, travolta e umiliata dalla sconfitta, la Germania viveva il torbido periodo che, dopo la costituzione della Repubblica di Weimar, si sarebbe concluso nel Reich nazionalsocialista. Certo è che, mentre seguitava a tessere, o a cercar di tessere, i tanti fili che da anni stringeva fra le mani, il fascismo rappresentò, per Zanotti, la più grave e la più umiliante delle sciagure dalle quali l'Italia potesse essere colpita in una fase critica e delicata della sua storia unitaria. Ma nell'opporsi a esso, che con brutalità aveva spento quanto più gli era caro, egli ebbe modo di esercitare la virtù dell'amor patrio nella forma più pura, coerente e intransigente alla quale potesse, in quelle circostanze, darsi espressione.

Se il fascismo aveva preteso che della libertà dovesse e potesse farsi a meno, perché anche alla libertà deve sapersi rinunziare per fare grandi la nazione e la patria, con eroica semplicità Zanotti visse e operò nella convinzione opposta. La sua convinzione era infatti che la morte della libertà significasse, essa, la morte della patria, e che, contro chi nel nome di questa aveva spento quella, la lotta non potesse non essere senza quartiere. Patria, nazione, e, alla radice di entrambe, condizione essenziale del loro esserci e vivere e progredire, la libertà. La quale aveva a sua volta la sua vera radice nella coscienza morale che, intransigentemente, ne era appunto la coscienza e il criterio. Per questo, come già si è ricordato, non ci fu argomento che, richiamando per se stesso altre e più alte necessità, valesse per lui a infirmarne o sospenderne l'assolutezza. E in questo spirito, risorgimentale nella sua più pura essenza, fu uno degli antifascisti più schietti e irriducibili: un antifascista che, avendo scelto di non battere le vie dell'esilio, ma di restare in patria, di questa sua fede dette una testimonianza altissima.

Tanti e tanti potrebbero, al riguardo, essere gli episodi da ricordare, o da ricordare di nuovo a chi avesse dimenticato che quella della libertà è una virtù difficile, che può essere uccisa persino dalla troppa abitudine che la sua presenza produce; è un bene prezioso che, se non lo si coltiva e mantiene vivo nelle istituzioni nelle quali ha la sua sede, può, all'improvviso, rivelarsi un vuoto involucro.

Ricorderò il giudizio che, al tempo del delitto Matteotti, egli dette, non soltanto di Mussolini, unico e vero mandante, ma anche, potrebbe dirsi, del trono e dell'altare. Del re, che non ne aveva tratto occasione per metter fine all'avventura fascista, e dell'autorità ecclesiastica che, per paura del comunismo, aveva finto che non fosse avvenuto quel che pure era sotto gli occhi di tutti. Ricorderò l'esortazione rivolta nel 1924 a Giovanni Amendola perché sospendesse la secessione aventiniana, tornasse con i suoi, in Parlamento e a questo restituisse la dignità che i fascisti calpestavano e irridevano. E poi anche ricorderò il suo sdegno di fronte alla brutale aggressione che proprio ad Amendola era costata la vita; il suo sdegno, e quella sorta di ideale preparazione al sacrificio della vita e quasi richiesta di questo, che la sua coscienza gl'imponeva e nella quale s'avverte la vibrazione religiosa di un animo incapace di accettare se non la realtà con la quale piena e senza riserve fosse il consenso morale.

Nel 1939, nella Critica, apparve una breve postilla. S'intitolava 'Il mondo va verso ...'; e Croce vi riprendeva un tema che tante altre volte aveva trattato in quegli anni di sempre più oscura notte della libertà. Vi esaminava il "sofisma" (così l'aveva definita in un'altra, recente occasione) al quale indulgevano coloro che dal semplice accadere ed essere accaduto delle cose, ossia in sostanza dalla prevalenza dei potenti, pretendevano di dedurre sia la loro razionalità, sia il diritto-dovere di adattarvisi. E aveva ammonito che uomo morale non è colui che chiede dove vada il mondo, ma quello s'interroga su dove debba andare lui. Il rapporto di Zanotti con Croce non fu quello di un discepolo, di un seguace, e, per quel che attiene alla filosofia, di uno che a questa guardasse con interesse e simpatia. Altre erano, e seguitavano a essere, le sue "fonti"; altri i suoi maestri, vicini e lontani, i modernisti cattolici, Tolstoj, Mazzini: gli autori insomma che in quella forma avevano edificata la sua coscienza. A dividerlo da Croce erano queste cose, e anche altre. Ma l'antifascismo li aveva riuniti. E certo è che non c'è pagina che, meglio di questa che Croce scrisse in quell'anno fatale, possa essere citata per ritrarre dal di dentro l'atteggiamento che sempre fu di Zanotti Bianco: dell'uomo che mai si chiede dove andasse il mondo, perché sempre seppe dove, in piena coscienza, dovesse andare lui.



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