Possiamo costruire un'Europa unita e senza un'identità antiamericana
5 Aprile 2003
(f de b.) «Sorpreso e talvolta anche sconcertato». Da che cosa, presidente? «Dalla qualità, poverissima, del dibattito italiano sulla guerra, mentre la politica e la diplomazia internazionale già si occupano del dopo Saddam». Marcello Pera, 60 anni, da due seconda carica dello Stato, è un tenace, seppur pacato, sì-sì. Sì alle ragioni del conflitto in Iraq, sì all'America. Nel discorrere con un no-sì (no alla guerra, sì agli Stati Uniti), Pera ne ha per tutti. «Troppe fughe in avanti e indietro. Fuga nell'ideologia ("la pace senza se e senza ma"). Fuga dalle responsabilità ("né con Bu-sh né con Saddam"). Fuga dall'atlantismo ("l'America imperialista in guerra per il petrolio"). Fuga nel diritto ("i parà di Vicenza non possono partire, non possono tornare, possono tornare solo per curarsi, eccetera")».
Ma, presidente, la posizione del governo italiano è stata chiara e inappuntabile? «Direi di sì. Una ferma scelta di campo; stiamo con gli anglo-americani e la coalizione di molti altri Paesi. Inoltre si è scelta la non partecipazione attiva, una posizione prudente, credo dovuta alla giusta preoccupazione del governo di non mandare in frantumi l'Europa alla vigilia del proprio turno di presidenza». Sembra di capire che lei avrebbe voluto un impegno più diretta nel conflitto? «No, date le circostanze, l'impegno a me è sembrato adeguato anche se talvolta la voce del governo è apparsa flebile. Adesso comunque dobbiamo augurarci che Saddam cada al più presto e anche l'Italia deve pensare alla ricostruzione democratica dell'Iraq e ai nuovi equilibri internazionali». Ma in che modo, dopo aver rotto il tradizionale rapporto con Francia e Germania e aver firmato il famoso documento degli otto favorevoli alla linea Bush? «Credo che tutti debbano fare un passo verso gli altri; lo ha fatto venendo a Roma il francese Villepin; lo ha fatto il britannico Straw segnalando la preoccupazione di Blair sul futuro del-l'Onu; lo ha fatto Powell con il suo viaggio in Europa. E il ministro Frattini si sta spendendo molto».
Pera intravvede per l'Italia una responsabilità immediata: «Dobbiamo ricomporre le divisioni dell'Europa e accelerare l'unificazione politica, con una identità non antiamericana. Fino a poco tempo fa la nostra politica estera era imposta dal muro di Berlino e quella di difesa era garantita dall'America e pagata dai suoi contribuenti. Oggi non è pìù così». Un ruolo quello di pontieri e mediatori del dopoguerra che secondo Pera gli italiani possono svolgere meglio di altri. «Abbiamo una grande tradizione atlantica, a partire da De Gasperi, siamo tra i soci fondatori dell'Europa. E possiamo contribuire anche al rilancio o alla rifondazione degli organismi multilaterali, come l'Onu e la Nato, facendo in modo che l'America non sia tentata troppo dalrunilateralismo»,
La bandiera dell'Europa che verrà, nota ancora il presidente del Senato, non potrà essere però quella della pace che sventola in questi giorni in molti balconi. Perché è così duro con il pacifismo, presidente?
«Guardi io ho sessant'anni e non ho conosciuto la guerra. Mi sono accorto di aver pensato per tanto tempo che la pace fosse una sorta di diritto naturale. Lo pensano in buona fede molti giovani. Ma non è così. Mio padre e mio nonno avrebbero ragionato diversamente. La pace è un valore che costa caro, a volte carissimo. E se è un valore assoluto, come dicono i pacifisti, allora bisogna essere disposti a pagare anche prezzi molto alti».
I suoi senatori a vita, Scalfaro, Cossiga, Andreotti, hanno un'opinione diversa, però.
«Sì, e non posso negare di provare ascoltandoli una certa amarezza, ma ho rispetto per le ragioni, peraltro tra loro differenti, con le quali hanno motivato il loro no alla guerra».
Chiedo al liberale Pera se abbia senso, parlando già del dopoguerra, esportare la democrazia presso popoli che magari liberamente sceglierebbero gli stessi integralisti islamici nemici dell'Occidente.
«Io non userei il verbo esportare, meglio dire creare le condi-' zioni perché si sviluppi una democrazia, affinché un popolo sia artefice del proprio destino. Ciò del resto è già accaduto dopo la Seconda guerra mondiale in Giappone e persino in Europa. Ed è stato innegabilmente un bene».
Un filosofo del diritto austriaco a lei caro, Hans Kelsen, scriveva però che raramente fare la guerra è «la sanzione giusta del torto subito», tanto meno una guerra preventiva, aggiungerei.
«Non sempre è vero. Se avesse prevalso il pacifismo del '39, quanto a lungo la Germania sarebbe rimasta nazista, l'Italia fascista e la Francia collaborazionista?».
In questi giorni abbiamo visto molte immagini di morti civili. C'è un limite morale oltre il quale il sacrificio di persone comunque innocenti non giustifica il perseguimento di un fine giusto?
«Io credo che gli americani e gli inglesi adottino tutte le precauzioni possibili, anche perché l'opinione pubblica internazionale, non solo la loro, su questo punto è giustamente sensibile. Molto dipende anche da come il dittatore e il regime si difendono, usando per esempio i civili come scudi umani, nascondendo armi e obiettivi militari fra le case».
Una democrazia in guerra segue delle «regole d'ingaggio» etiche che sono tra i valori essenziali dell'Occidente liberale. Usare per esempio le cluster bombs, le bombe a grappolo, non appare a molti osservatori leale.
«Condivido, le democrazie si danno delle regole e le seguono, anche in guerra, le dittature sanguinarie come quella irachena non si fanno il minimo scrupolo. Ma a proposito di regole è evidente che l'equilibrio fra sicurezza e libertà, tra difesa e garanzie, è stato scosso da quello che è accaduto 1'11 settembre con l'attacco proditorio di un nemico terrorista invisibile. Faccio fatica come liberale ad accettare la logica dei prigionieri di Guantanamo, ma osservo che anche noi davanti alla minaccia delle Brigate rosse in Italia non esitammo ad adottare una legislazione speciale».
E la guerra preventiva che fondamento giuridico e morale può avere?
«Il diritto di uno Stato a difendersi da un pericolo nuovo, devastante e incombente. L'Onu nacque con 50 Stati, 15 membri del Consiglio di sicurezza di cui cinque grandi con diritto di veto, quando il pericolo era una guerra fra nazioni o tra blocchi. Oggi i membri sono più di 190, sono nati nuove potenze e organismi sovranazionali come l'Unione europea. Non c'è più la guerra fredda, ma c'è una minaccia nuova, il terrorismo con armi di distruzione di massa, che non è uno Stato ma può essere appoggiato, finanziato o semplicemente tollerato da più Stati. La differenza è tutta qui. E la dottrina della guerra preventiva, che piace poco anche a me, nasce da questo dato di fatto».
L'atteggiamento della Chiesa, del Papa, così determinato, duro: «la guerra è un crimine contro l'umanità»?
«Rispetto le ragioni morali e spirituali della Chiesa, ma mi limito a dire sommessamente che anche il Papa è attento alle contingenze storiche. Nel '91 il suo no non fu così netto. E ancor meno netto fu per il Kosovo, in quella che, in violazione delle regole dell'Onu e della Nato, fu definita una guerra umanitaria: un ossimoro, una contraddizione in termini inaccettabile per molti pacifisti, anche cattolici. Oggi capisco e apprezzo che il Vaticano voglia evitare guerre di religione e contrapposizioni forti con altre fedi. E' anche la mia preoccupazione».
Sul televisore dello studio del presidente del Senato scorrono confuse le immagini di guerra di questi giorni. Crude e angoscianti. Certo presidente, noi tutti dovremmo chiederci dove eravamo quando Saddam gasava i suoi nemici, uccideva gli oppositori, cacciava gli ispettori dell'Onu. Dov'era allora l'Occidente liberale? Pera richiama l'insegnamento del vescovo irlandese George Berkeley: l'essere è quello che si vede e si percepisce «e noi per molti anni non abbiamo visto, purtroppo, nulla. Non è una buona ragione per continuare a farlo».