I morti di Nassiriya. Perché
13 Novembre 2004
Alle 10 e 45, ora locale, del 12 novembre 2003, quattro kamikaze su due veicoli imbottiti con un carico fra i 150 ed i 300 chili di esplosivo si lanciarono contro la nostra Base Maestrale a Nassiriya. Morirono in diciannove. Il maresciallo Marilena Iacobini, che attualmente comanda la Stazione dei Carabinieri di Pitigliano, Grosseto, fu ferita e si salvo.
Dei morti, dodici appartenevano all'Arma dei Carabinieri:
Sottoten. Enzo Fregosi
Sottoten. Giovanni Cavallaro
Sottoten. Alfonso Trincone
Sottoten. Flippo Merlino
Maresciallo Massimiliano Bruno
Maresciallo Alfio Ragazzi
Maresciallo Capo Daniele Ghione
Brigadiere Giuseppe Coletta
Brigadiere Ivan Ghitti
Vice Brigadiere Domenico Intravaia
Appuntato Andrea Filippa
Appuntato Horacio Majorana
Cinque erano soldati dell'Esercito:
Capitano Massimo Ficuciello
Maresciallo Capo Silvio Olla
Caporal Maggiore Emanuele Ferraro
Primo Caporal Maggiore Alessandro Carrisi
Caporal Maggiore Pietro Petrucci
Due erano civili:
Marco Beci, cooperatore internazionale
Stefano Rolla, regista cinematografico.
A questi diciannove dobbiamo aggiungerne due: il lagunare dell'Esercito Matteo Vanzan, morto in una sparatoria sei mesi dopo, e Antonio Tarantino, anch'egli dell'Esercito, morto in un incidente del suo mezzo militare.
Sono due le questioni che oggi dobbiamo sollevare. Perche li ricordiamo? Perche quegli uomini erano li e altri loro commilitoni sono ancora li?
Alla prima questione la risposta e triste ma semplice. Li ricordiamo perche erano soldati, militari e volontari civili coraggiosi, che sentivano un dovere, e avevano assegnato un compito, che non esitavano a eseguire. Li ricordiamo perche erano uomini - padri, figli, fratelli, mariti, fidanzati - che avevano affetti e sentimenti. E li ricordiamo perche erano combattenti di una guerra che ha due fronti: da un lato, loro e tantissimi come loro, che difendono i valori e i principi della liberta, della democrazia, della tolleranza, della dignita, del rispetto, e, dall'altro, gli altri, i guerriglieri fanatici, i miliziani di Saddam Hussein, i terroristi islamici, che invece negano ogni valore alla vita umana, predicano e praticano la violenza, uccidono, sgozzano, cosi come hanno fatto con Fabrizio Quattrocchi e Enzo Baldoni.
Quando si parla di "guerra di civilta o di "guerra di religione", non dobbiamo usare le parole per esorcizzare la realta: disgraziatamente, quella guerra esiste, anche se non vorremmo. E la guerra santa, la jihad, dei terroristi islamici. La guerra di quelli che considerano un degrado dell'umanita, una decadenza, una caduta, una corruzione, cio che invece noi consideriamo conquiste di civilta. La guerra di chi, pur di imporre la loro visione totalitaria e fanatica della vita e della societa, ritiene che qualunque mezzo sia lecito.
Perche non prendere atto di questa terribile realta? Perche cercare di nasconderla, anche in Europa, che pure ne e vittima? Perche non pensare a come difenderci, e a difenderci, intendo, con i mezzi della cultura, della diplomazia, della cooperazione, della politica, ma, ove fosse necessario, anche con i mezzi della forza? Si dice: perche noi vogliamo la pace. E vero, la vogliamo e dobbiamo lavorare per essa, perche la pace e un bene cosi prezioso che merita il massimo di lavoro, fatica, impegno. Ma non possiamo volere la pace ad ogni costo, compreso quello avvilente di abdicare ai nostri principi e valori.
Gli uomini che noi oggi ricordiamo e onoriamo questo lo sapevano. Sapevano il perche della loro presenza a Nassiriya. Sapevano che l'Italia ha risposto ai ripetuti appelli di una popolazione che sta cercando di affrancarsi dal lascito devastante di una dittatura. Sapevano che l'Italia e impegnata a portare aiuti, sicurezza, ricostruzione. Sapevano che in Iraq non e in gioco soltanto il futuro di quel paese, ma anche il nostro futuro. Sapevano che in Iraq l'Italia, insieme agli Stati Uniti e ad altri paesi, fronteggia la prima linea della minaccia terrorista. Lo sapevano e sono morti perche ci credevano.
Se nei prossimi mesi si terranno in Iraq le prime elezioni libere, lo dovremo anche a loro. Se l'Iraq e gli iracheni torneranno alla liberta e se si riuscira ad instaurare un governo democratico, lo dovremo anche a loro. Se in futuro vi sara piu pace in Medio Oriente, in Europa, nel mondo, lo dovremo anche a loro. A loro e ai tremila militari e ai civili italiani che rinnovano e proseguono la loro opera.
Ogni giorno i giornali riportano un bollettino macabro che ci informa della conta dei morti dell'una e dell'altra parte. Ma quel bollettino e incompleto.
L'Iraq non e solo devastazione, e anche ricostruzione. Il nostro contingente svolge quotidianamente centinaia di interventi nel campo della sicurezza, dell'ordine pubblico, della sanita, dell'educazione scolastica, delle infrastrutture civili e militari, degli impianti idroelettrici. Interviene nella pulizia delle strade e nei lavori di sistemazione stradale. Presta assistenza agli ospedali locali, cura la popolazione, collabora nel pagamento delle pensioni, si occupa della salvaguardia dei siti archeologici, distribuisce aiuti alimentari. Grazie anche a questo lavoro, in Iraq si ricomincia a comprare, a vendere, a incontrarsi. Aumentano i matrimoni, aumenta il lavoro, aumentano gli stipendi, comincia a fatica la liberta.
Ecco la risposta alla domanda sul perche siamo li. Siamo li come siamo stati e siamo ancora in tante altre parti del mondo: per far rinascere un paese e ridare dignita alla vita umana.
Un anno fa, nella sua omelia in occasione dei funerali di Stato, il Cardinale Ruini cito un passaggio del Vangelo nel quale Gesu ricorda che saremo giudicati anche in base al criterio dell'amore operoso. Chi fa del bene ai deboli, agli indifesi, onora anche Dio. Io non so se tutti i nostri caduti fossero credenti o se avessero presente quell'insegnamento. So che loro credevano fermamente che questo precetto evangelico facesse parte dei loro doveri e della loro missione. Non dobbiamo dimenticarcene, se non vogliamo dimenticarli.