Incontro con Cardinale Bertone su Enciclica "Caritas in veritate"
Autorità.
Signore e Signori.
Desidero ringraziare in modo non formale Sua Eminenza il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato e Camerlengo, per aver accordato la propria disponibilità all'odierno incontro, che si svolge nella stessa sala dove il 13 maggio 2004 l'allora Cardinale Joseph Ratzinger tenne la Lectio magistralis sulle radici cristiane dell'Europa.
A distanza di cinque anni da quell'evento promosso dal Presidente Marcello Pera, in questa stessa sala il Cardinale Segretario di Stato presenta oggi i contenuti della Lettera Enciclica Caritas in veritate, in continuità con una consuetudine di dialogo e confronto che il Senato considera patrimonio prezioso della propria tradizione.
Senza dubbio Caritas in veritate è stata intesa, prima ancora della sua pubblicazione e dalla pubblicistica maggioritaria, come una "enciclica sociale".
Forse questa è una connotazione presente, ma parziale, se non addirittura sfocata.
Possiamo affermare che, in una qualche misura, l'Enciclica apre il Nuovo Millennio dopo un periodo prolungato di "crisi", si proietta verso un "tempo nuovo", ed è anche occasione per ripensare l'economia del mondo globale, per ricercare nuove regole in una società in profonda trasformazione.
In particolare, dopo la crisi delle relazioni internazionali e sociali seguita all'11 settembre, dopo la crisi finanziaria ed economica globale, dopo la perdurante crisi ambientale, la crisi dei modelli e dei comportamenti, se vogliamo di quella che è stata definita la "crisi dell'etica" (J.Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo), da parti diverse si è ipotizzato il venir meno dei più comuni punti di riferimento.
La crisi tocca la nostra quotidianità.
Innanzitutto nelle famiglie, dove la flessibilità del lavoro è spesso diventata precarietà. Una precarietà ancor più marcata per la donna, troppe volte posta di fronte ad un vero e proprio aut-aut: essere madre o realizzarsi professionalmente.
E la crisi tocca anche la politica, dove la rincorsa ai toni aspri e di critica esasperata dell'avversario è stata avvertita dall'opinione pubblica come critica e crisi delle Istituzioni.
Purtroppo il facile gioco della delegittimazione dell'avversario politico si è tradotto in delegittimazione dei ruoli, degli equilibri e dello stesso sistema istituzionale.
E' necessario che anche la politica non si senta al di sopra, ma sia calata dentro il "giudizio della ragione, che è la madre del diritto".
Ed è infine crisi di un'idea distorta di mercato e concorrenza intesa come spregiudicatezza, laddove invece serve ridare trasparenza e onestà all'agire economico responsabile, dicendo no alla corruzione, no alla mafia, no al ricatto ignobile dell'usuraio, no alle varie forme di schiavitù e sopruso dell'uomo sull'uomo.
Tutto questo, però, non basta. Serve affermare con forza anche una politica dei sì.
Sì alla fiducia nella ripresa; sì al recupero di un'immagine alta e nobile della politica; sì al senso dello Stato vissuto come valore irrinunciabile e testimonianza; sì al rilancio dell'economia ed ad una nuova alleanza tra imprese e lavoratori.
Caritas in veritate risponde alle teorie sul capitalismo con una proposta e allo stesso tempo una provocazione, per le attuali e le future generazioni: non una verità che sia "mero corollario teorico ad una determinata visione del mondo, un'idea a cui ricorrere per trovare conforto o appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare" (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo).
Benedetto XVI risponde alla crisi con la provocazione di una verità, per così dire, "pratica". Sembra quasi che il Santo Padre sparigli ogni teologia politica, affermando che "Dio è 'pratico'" (J.Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo).
Verità e giustizia sono correlate: "da ciò che è vero nasce quanto è giusto" (R. Guardini).
In questo senso, definendo Caritas in veritate come "enciclica sociale" si coglie un aspetto certamente importante, ma che può anche apparire riduttivo, come appare fuorviante volerne ricercare forzatamente i riferimenti ad una teoria economica piuttosto che ad un'altra, per attribuirle facili etichettature a favore o contro determinati modelli economici, rischiando così di cadere in quelle "secche ideologiche" alle quali l'Enciclica chiaramente si sottrae.
Il rapporto fede e ragione, individuo e comunità, libertà e verità, non è lasciato sullo sfondo, ma è il vero architrave ovvero il "filo rosso" (G. Napolitano, Lettera al Pontefice) di un messaggio di pace per un mondo da ricostruire e rinsaldare nel suo tessuto di relazioni, desideri e speranze.
La ragione dell'uomo, quella sorta di nuovo umanesimo "indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo integrale" (Caritas in veritate n.4), non teme di affiancare al decisivo interrogativo "che cosa è la verità", l'altra domanda, di eguale pregnanza: "che cosa è la libertà" (J. Ratzinger, Libertà e verità).
Di fronte a questa sfida, si va al senso più profondo, alla radice stessa dell'esistenza umana, dove "tanto il credente quanto l'incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede" (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo).
Il riconoscimento delle proprie radici significa coraggio: il coraggio di saper ripartire, nella consapevolezza che "l'origine è la méta" (W. Benjamin).
Al Nuovo Millennio che si è aperto all'insegna della parola "crisi", l'Enciclica propone pertanto un diverso vocabolario, un "lessico di pace" cadenzato sulla parola "speranza". E' questo il tempo di una nuova composizione dei conflitti e della ricerca di equilibri lungimiranti.
E' l'invito a non sentirsi appagati da un personale comportamento caritatevole, di non vivere la gratuità come elemosina.
Anche le Istituzioni internazionali hanno bisogno di un forte rinnovamento e rilancio. Esse sono la cerniera visibile tra solidarietà e sussidiarietà, l'anello di congiunzione tra governi e impegno concreto di popoli, associazioni, volontariato.
Questa deve essere l'immagine delle Istituzioni internazionali e non quella di una burocrazia chiusa in se stessa e autoreferenziale, lontana dai reali bisogni delle persone.
La loro autorevolezza passa attraverso il recupero della propria missione originaria.
Solo in questo modo la lotta alla fame e alla povertà, il sostegno al rifugiato e all'emigrato potranno apparire credibili ed efficaci. Altrimenti si rischia l'accusa di alimentare un sistema che non determina alcun risultato.
La solidarietà non può essere intesa come una casualità, un qualcosa che permette semplicemente di vivere meglio ovvero di realizzare una società più felice (A. Smith).
La solidarietà va vissuta, invece, in uno "spirito di gratuità", di dono, connaturato alla stessa identità e intima essenza di ciascuno: "Chi più può, più deve. Chi meno può, più riceve" (G. Toniolo).
Vivere in spirito di solidarietà la propria "umana ventura" è la consapevolezza di chi riconosce una proiezione comunitaria e superiore delle condotte personali.
Questo è un atteggiamento laico e rispettoso, che non rinuncia a "guardarsi dentro" mentre si agisce, e non teme la sfida del trascendente, anzi la provoca, la alimenta, la declina come tensione verso l'Altro.
Le vere esigenze e le intime indigenze delle persone (B. Forte) non vanno solo riconosciute, ma soprattutto comprese. Solo legando la dimensione del "sapere", con quella del "comprendere", l'etica non cede mai a nulla di moralistico.
Anzi, conserva in sé le potenzialità di una trascendenza discreta e amorevole, perché riconosce che "la libertà è il requisito necessario della moralità" (A. M. De' Liguori).
Alla povertà si deve rispondere non solo con una ricchezza di tipo materiale, il denaro, ma anche con una ricchezza di umanità che si realizza innanzitutto in una disponibilità a condividere tempo, gioie e sofferenze di chi ci sta accanto, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà e dolore.
Adesso, rinnovando la mia personale gratitudine per la disponibilità che ha accordato al Senato, è con vivo piacere che rivolgo a Sua Eminenza l'invito a prendere la parola.
Vi ringrazio.