A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Il Presidente della Repubblica: elezione e funzioni nei dibattiti alla Costituente
Abstract
Attraverso i resoconti stenografici della Commissione per la Costituzione e quelli dell'Assemblea plenaria si ripercorre come si giunse a definire modalità di elezione, prerogative, funzioni e limiti della figura del Presidente della Repubblica nell'ambito della scelta per la forma di Repubblica parlamentare.
In occasione dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dopo l'inedita esperienza del novennato di Giorgio Napolitano, MinervaWeb dedica lo Speciale di quest'anno ad un approfondimento del ruolo di tale organo costituzionale, anche ripercorrendo alcune biografie esemplari. In particolare, il numero presente ricostruirà la genesi dell'organo e il delinearsi del suo ruolo e prerogative nei dibattiti alla Costituente, con particolare attenzione al tema della sua elezione. I prossimi numeri di MinervaWeb ospiteranno, invece, ritratti di alcuni dei passati Presidenti della Repubblica.
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1.Il collegio elettorale e la maggioranza richiesta: dibattito in Commissione e in Assemblea
2. La discussione generale in Assemblea plenaria
3. La seduta del 19 settembre 1947, conclusiva della discussione generale
4. La discussione e approvazione degli articoli
5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1.Il collegio elettorale e la maggioranza richiesta: dibattito in Commissione e in Assemblea
Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato italiano e rappresenta l'unità nazionale (art. 87 C). Poiché si tratta di un elemento fondamentale dell'ordinamento costituzionale, nel passaggio dalla forma monarchica a quella repubblicana, fu dedicata particolare attenzione in sede di Assemblea Costituente al suo ruolo e alle sue funzioni, nonché alle modalità di elezione.
Circa l'elezione, regolata dall'attuale art. 83 della Costituzione, non essendosi raggiunta in sede di seconda Sottocommissione (sull'ordinamento costituzionale dello Stato) un'uniformità di vedute, se ne rinviò la discussione alla Commissione per la Costituzione in adunanza plenaria. Presso il Comitato di redazione della seconda Sottocommissione si erano fronteggiate sostanzialmente due proposte: l'elezione a suffragio universale (diretto o indiretto) e l'elezione da parte dell'Assemblea Nazionale (quel che oggi definiamo Parlamento in seduta comune, ma che per qualche costituente doveva prefigurarsi quasi come una terza Camera), integrata dai presidenti delle Assemblee regionali, con eventuale aggiunta di altre figure ad allargare la base elettorale.
Nella seduta della Commissione per la Costituzione del 21 gennaio 1947 gli argomenti portati dai sostenitori dell'elezione a suffragio universale (ad esempio, Roberto Lucifero) vertevano sulla necessità di garantire al Presidente della Repubblica indipendenza e serenità, che sarebbero state minate se, invece, esso fosse stato un'emanazione diretta dell'Assemblea politica. A ciò obiettava Umberto Terracini che, pur essendo opportuno che il Capo dello Stato fosse indipendente dagli altri poteri, era pericoloso dargli un'investitura diretta, che potesse comportare una contrapposizione con le Assemblee legislative, vere depositarie della volontà popolare. Giuseppe Cappi indicava nell'elezione da parte dell'Assemblea Nazionale integrata dai rappresentanti regionali il contemperamento delle due esigenze di salvaguardare l'indipendenza del Presidente della Repubblica e di non allargare troppo la base del collegio elettorale. Fra gli altri deputati intervenuti Vincenzo La Roccaponeva l'accento sulla necessità di non abbandonare il sistema parlamentare a vantaggio di un sistema presidenziale, contenente rischi ben noti da Weimar in poi, e, insieme, sull'opportunità di non inquinare il sistema parlamentare con l'allargamento del collegio ai rappresentanti regionali. Di contro, Egidio Tosato considerava la presenza dei rappresentanti della nuova entità regionale nel collegio elettorale come una modalità per collegarla alla struttura costituzionale dello Stato.
Dopo articolato dibattito il Vicepresidente della Commissione, Umberto Tupini, poneva in votazione la proposta dell'elezione a suffragio diretto, che veniva respinta. Posta successivamente in votazione la proposta dell'integrazione del collegio con i rappresentanti regionali, venne approvata. Dopo il voto su alcune proposte emendative, si affrontò il tema della rieleggibilità, su cui si pronunciarono brevemente Palmiro Togliatti, contrario a precluderne la possibilità, e Aldo Moro, intenzionato ad omettere la questione nel testo dell'articolo in discussione; l'esito del voto fu di lasciare indefinita la questione, il che ha consentito ai nostri giorni la rielezione di Napolitano.
A completamento del dibattito relativo alla rieleggibilità il giorno successivo, 22 gennaio 1947, fu stabilito che rimanesse tacito che il Capo provvisorio dello Stato (Enrico De Nicola, eletto dalla Costituente il 28 giugno 1946) fosse rieleggibile. Tale eventualità trovò applicazione di lì a breve: dimessosi per dichiarati motivi di salute il 25 giugno 1947, De Nicola fu, infatti, rieletto il 26 giugno 1947.
In Assemblea plenaria il tema della elezione del Presidente fu discusso e votato nelle sedute antimeridiana e pomeridiana del 22 ottobre 1947. Sul tema della assai ampia maggioranza richiesta Tosato (peraltro presentatore di un emendamento che prevedeva l'elezione a suffragio universale diretto nel caso non si ottenesse al terzo scrutinio la maggioranza dei due terzi) ne evidenziò la necessità come fondamento dell'autorità morale e politica della figura presidenziale, che era opportuno godesse del favore non solo dei partiti di maggioranza ma anche, il più possibile, di quelli di minoranza.
Dopo una non lunghissima discussione, circa l'opportunità o meno della presenza dei delegati delle di là da venire Regioni o circa il modello statunitense e francese o ancora circa la scelta fra sistema presidenziale e parlamentare (che, tuttavia, non fu posta in votazione), si pose ai voti l'emendamento De Vita per l'elezione a suffragio universale e diretto, che, come già in Commissione dei 75, non fu approvato. Quindi si votò per parti separate l'emendamento concordato Laconi, Carboni Angelo, Moro, Targetti e altri. Approvata la prima parte ("Il Presidente della Repubblica è eletto dall'Assemblea Nazionale"), fu posta in votazione con richiesta di voto segreto la seconda ("con la partecipazione di tre delegati per ogni Consiglio regionale, eletti dal Consiglio in modo che sia assicurata la rappresentanza della minoranza"), approvata a sua volta.
Nella seduta pomeridiana si approvò l'emendamento Corbino che riconosceva alla Regione Valle d'Aosta un solo rappresentante, in virtù dei suoi pochi abitanti, e fu rapidamente approvata la modalità di votazione (scrutinio segreto) e la maggioranza necessaria (due terzi e, dopo il terzo scrutinio, la maggioranza assoluta).
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2. La discussione generale in Assemblea plenaria
Il 10 settembre 1947 iniziò la discussione generale in Assemblea plenaria sui primi tre Titoli della Parte II della Costituzione. Anche se al Titolo II, intitolato, appunto al Presidente della Repubblica, non fu dedicato tutto lo spazio che fu dato alla questione, oggi assai attuale, della composizione, modalità di elezione e funzioni delle due Camere del Parlamento, il tema fu, tuttavia, ampiamente dibattuto.
Il primo a trattare il Titolo II fu Giuseppe Codacci Pisanelli, che trattò dell'attinenza della promulgazione alla funzione esecutiva o a quella legislativa e dell'elezione diretta da parte del corpo elettorale. Sui due temi sarebbe tornato il 12 settembre 1947 l'onorevole Alfonso Rubilli, che si espresse contro l'elezione diretta ("Basta adunque il voto di tutti quanti i legittimi rappresentanti del popolo, per affermare che una elezione deriva dal popolo, e che è il popolo intero che acclama il Capo dello Stato, da un punto di vista giuridico e politico insieme [...]) (p. 127) e per il riconoscimento della piena partecipazione del Capo dello Stato all'attività legislativa proprio attraverso la firma apposta alle leggi, che non si può interpretare come mera mansione notarile.
Nella pomeridiana dell'11 settembre 1947 l'onorevole Edoardo Clerici, con dovizia di esempi tratti dalla storia e da varie realtà politiche, si pronunciò a favore dell'elezione del Presidente da parte del Parlamento, anche in virtù della contraddizione, in caso contrario, fra la controfirma e l'elezione popolare, e delineò la tipologia ideale di Presidente, una personalità non troppo vistosa né troppo combattiva, che rispecchiasse la media dei suoi elettori.
Ancora il 12 settembre 1947 il citato La Rocca, nel suo assai lungo intervento, confutando le tesi di Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che la posizione del Capo dello Stato, quale si andava delineando nella discussione del Progetto, fosse tutt'altro che secondaria, anzi ben più che solida, al punto da non necessitare di ulteriori attribuzioni, che avrebbero potuto comportare alterazioni da regime presidenziale. La solidità del potere presidenziale era fondata su quattro facoltà individuate dal Progetto: nomina e revoca di Primo Ministro e Ministri, indizione di referendum in caso di dissenso fra le due Camere per l'approvazione di un disegno di legge (attribuzione scomparsa nel testo definitivo), comando delle Forze armate, potere di scioglimento delle Camere. Più o meno dello stesso tenore il più breve intervento dell'onorevole Calogero Di Gloria, che, tuttavia, pur temendo i pericoli insiti in una repubblica presidenziale, avrebbe preferito un'elezione per suffragio popolare.
Nella seduta del 15 settembre 1947 il solo accenno al Titolo II fu fatto da Guido Russo Perez, che si pronunciò per l'elezione diretta, rinviando per le motivazioni alla relazione Ruini (p. 11), cioè alla relazione al Progetto di Costituzione presentata all'Assemblea dalla Commissione per la Costituzione, di cui Meuccio Ruini era, appunto, presidente, e nella quale Ruini, pur dichiarando che la Commissione si era orientata per l'elezione da parte dell'Assemblea Nazionale integrata dai rappresentanti regionali, esprimeva la personale convinzione che una designazione popolare avrebbe reso più saldo il potere presidenziale in mezzo alle fluttuazioni di forze politiche e partiti.
Nella seduta pomeridiana del 16 settembre 1947 l'onorevole Gaspare Ambrosini dichiarava di non vedere in un forte Capo dello Stato un pericolo per il regime parlamentare e di ritenere necessario che partecipasse "a tutta l'attività dell'esecutivo in base al congegno proprio del regime parlamentare classico" (p. 221): rischi di dittatura, proseguiva l'Ambrosini, non ve ne erano perché la volontà del Capo dello Stato si doveva adeguare a quella dell'esecutivo e questo non poteva rimanere in carica se non con la fiducia delle Camere.
Dello stesso tenore l'intervento di Francesco Saverio Nitti, che, attraverso una lucida sintesi storica degli eventi conseguenti alle due guerre mondiali, sgomberava il campo dai timori di reviviscenze monarchiche e sollecitava a lasciar cadere "tutto ciò che rappresenta la forma esteriore monarchica" (p. 231) della carica, cioè l'assegno e la dotazione, già proposte a De Nicola, che vi aveva saggiamente rinunciato.
Il liberale Orazio Condorelli nella pomeridiana del 17 settembre 1947, negando che il Capo dello Stato, come lo si andava delineando, potesse rappresentare l'unità nazionale piuttosto che l'Assemblea che lo eleggeva, concludeva che stava plasmandosi soltanto un magistrato, con un formale comando sulle forze armate, privo del potere sanzionatorio sulle leggi - il che lo rendeva "totalmente estraniato dalla funzione legislativa" (p. 263) - e defraudato del ruolo di garante della Costituzione, affidato alla istituenda Corte Costituzionale. A suo avviso la Costituente aveva fallito nel disegnare la figura del Capo dello Stato, ma almeno un correttivo era possibile: dare al Presidente della Repubblica la facoltà di chiamare il popolo ad esprimersi dinanzi ad una legge approvata dal Parlamento che non lo convincesse.
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3. La seduta del 19 settembre 1947, conclusiva della discussione generale
Molto interessante per la definizione della figura del Presidente la seduta pomeridiana del 19 settembre 1947, in cui intervennero i due relatori e il Presidente della Commissione per la Costituzione.
Il relatore Giovanni Conti, repubblicano, rispondendo a Nitti sulla faccenda della fastosità e degli accessori della funzione presidenziale, dichiarava che la grande semplicità non poteva prescindere dal grande prestigio che doveva circondare il Capo dello Stato, dato anche da una dimora adeguata, ove egli potesse ricevere l'omaggio degli italiani. Circa il testo, non riteneva di apportare alcuna modifica a quanto predisposto in sede di Commissione, giudicando, quanto al collegio elettorale, più ragionevole un'elezione di secondo grado che non un'elezione popolare, stante la difficoltà di "raggiungere una seria valutazione [...] mettendo in discussione un uomo fra 45 milioni di italiani" (p. 335).
Più approfondito l'intervento dell'altro relatore, il già citato Tosato, che faceva il punto sulle due interpretazioni manifestatesi nella discussione generale circa il carattere che emergeva dal Progetto: da un lato l'accusa di aver sbozzato un Presidente debole, incapace di svolgere un ruolo attivo, che avrebbe avuto bisogno di un'elezione diretta per divenire decisivo; dall'altro l'accusa di aver creato un Presidente troppo forte, incompatibile con una repubblica parlamentare. Ma proprio perché la seconda sottocommissione si era pronunciata quasi all'unanimità per la forma di repubblica parlamentare e così pure la Commissione dei settantacinque, non era pensabile un Presidente all'americana, cioè anche Capo del Governo e pertanto eletto direttamente dal popolo. E la scelta era stata fatta - proseguiva Tosato - non per il rischio di cesarismo, a suo dire temibile anche in un regime parlamentare, ma perché il governo presidenziale esige due soli partiti, di modo che il Presidente abbia sempre l'appoggio del partito dominante nelle Camere per attuare, in sede legislativa, la propria politica. Questa non era - e non è, possiamo confermare noi ancora oggi - la condizione dell'Italia, caratterizzata da "notevole molteplicità di partiti" (p. 337).
La forza dunque, del Presidente della Repubblica, quale lo si era andato tratteggiando, garantita anche da una durata del mandato superiore a quella delle Camere, riposava nella sua funzione "di essere il grande regolatore del gioco costituzionale, di avere questa funzione neutra, di assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato, e, in particolare, il Governo e le Camere, funzionino secondo il piano costituzionale" (p. 338). Parole che tornano molto simili nel discorso d'insediamento del neopresidente Mattarella, quando, a proposito della nuova legge elettorale in itinere, dichiara:
«Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del Capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, di garante della Costituzione. È un'immagine efficace: all'arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L'arbitro deve essere e sarà imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza» (p. 3).
Direttamente connessa all'imparzialità era la questione della maggioranza necessaria per l'elezione, che abbiamo già introdotto nel primo paragrafo. Al riguardo Tosato vedeva un difetto grave nella previsione della maggioranza assoluta dopo il terzo scrutinio: ciò avrebbe reso il Presidente dipendente dalla maggioranza che lo aveva espresso. Come personale suggerimento proponeva il correttivo di prevedere che, dopo il terzo scrutinio, si ricorresse all'elezione diretta, allo scopo di indurre le Camere a cercare di conseguire ad ogni costo la maggioranza dei due terzi.
Nel suo assai lungo intervento Ruini, che si presentava come "relatore dei relatori" (p. 345), dedicava al Presidente della Repubblica assai meno spazio di quello dedicato al Parlamento. Condividendo l'opinione di molti colleghi che il Capo dello Stato non dovesse essere Capo del Governo, non negava, tuttavia, di propendere personalmente per l'elezione popolare, pur se in compagnia di troppo pochi altri deputati, quali Orlando, De Gasperi e Saragat, perché quella scelta potesse prevalere. Ugualmente, dissentiva dalla scelta dell'elezione da parte dell'Assemblea Nazionale integrata dai delegati regionali, la cui presenza, pur non alterando gli equilibri, rappresentava un ibrido.
Circa i poteri del Capo dello Stato Ruini proseguiva dichiarando di non ritenere la promulgazione un atto più debole della sanzione ma più congruo, anche considerando che, come concepita nel Progetto, riconosceva la facoltà di chiedere alle Camere il riesame di una legge. Quanto all'attribuzione del comando dell'esercito al Capo dello Stato se ne sentiva garantito più che se fosse stato attribuito ad un generale.
Concludeva con belle parole la discussione generale, respingendo l'ipotesi che fosse necessario un fantoccio, una debole personalità:
«La sua è una magistratura di persuasione, di equilibrio. Egli è il grande moderatore e regolatore dei poteri dello Stato. Il capo spirituale, più che il capo materiale, della vita comune. È un ruolo altissimo; certamente il più alto; né occorrono a ciò personalità piuttosto mediocri, come insiste l'onorevole Nitti; ed anche l'onorevole Clerici, che ha voluto citare il cardinale Bentivoglio al riguardo dei papi. No; l'esempio attuale, pel Capo della Chiesa e per quello dello Stato, smentisce l'asserto che non stiano bene a tal posto uomini di elevatissima statura e di eccezionale capacità.» (pp. 356-357).
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4. La discussione e approvazione degli articoli
Gli articoli relativi al Titolo II della Parte II, con i relativi emendamenti, furono discussi e votati nelle sedute del 21 (pom.), 22 (ant. e pom.), 23 (ant. e pom.), e 24 (ant. e pom.) ottobre 1947, alle quali si rinvia per una lettura completa. Per la corrispondenza fra i numeri di articolo del Progetto e quelli definitivi del testo della Costituzione si rimanda al relativo prospetto[selezionare Documenti, Progetto di Costituzione, Parti IX e X: Raffronto articoli].
Non ci soffermiamo qui sul dibattito relativo al collegio elettorale, svoltosi il 21 e 22 ottobre, e nel quale intervennero più o meno gli stessi oratori già intervenuti in discussione generale e con le medesime argomentazioni, ma accenniamo soltanto a qualche intervento particolarmente interessante.
Ricordiamo, ad esempio, nella seduta pomeridiana del 22 ottobre 1947, l'emendamento Nitti all'articolo 81 (attuale 85), teso a ridurre il mandato presidenziale a quattro anni, sul modello americano; la motivazione era quella di contrastare la tendenza - a detta del proponente troppo marcata nella Costituzione che si andava delineando - ad allontanarsi dalla consultazione popolare: quattro anni erano già un tempo lungo e, comunque, in caso di personalità di valore, c'era pur sempre il correttivo della rielezione (pp. 1433-1434).
A nome della Commissione Tosato respingeva l'emendamento, portando come argomentazione che negli Stati Uniti il Presidente della Repubblica è anche Capo del Governo e perciò necessariamente più soggetto al giudizio popolare; inoltre, il quadriennato avrebbe comportato l'eventualità non opportuna che le stesse Camere potessero eleggere due volte il Presidente della Repubblica, mentre un mandato per il Presidente più lungo di quello delle Camere avrebbe garantito un elemento di stabilità nella vita dello Stato (p.1435).
Nella stessa seduta Giovanni Persico illustrava il suo emendamento aggiuntivo dell'art. 85-bis (attuale secondo capoverso dell'art. 87), accolto dalla Commissione, relativo al potere presidenziale di inviare messaggi alle Camere, istituto nuovo per l'Italia, che aveva solo il discorso della Corona ad inizio di sessione o legislatura [si veda, quale primo esempio per il Parlamento unitario, il Discorso del 18 febbraio 1861)]. Sulla scorta del modello statunitense e francese, Persico vedeva in tale attribuzione la possibilità di "dare un suggerimento, [...] dire una parola pacificatrice e rasserenatrice, nei momenti più gravi della vita nazionale" (p. 1447). Sarebbe, invece, confluito nel Titolo I, Sezione II, La formazione delle leggi, l'emendamento di Giuseppe Caronia, relativo al potere di rinvio alla Camere di un testo di legge prima della promulgazione con richiesta di riesame, votato l'indomani nel testo Bozzi.
Aggiungiamo che il Messaggio alle Camere è un tipo particolare di Atto parlamentare, identificato come Documento I. Se ne trova qui l'elenco completo dalla I alla XVI legislatura, comprensivo dei testi.
Sempre nella pomeridiana del 22 ottobre 1947 veniva presentato l'emendamento a firma di Tomaso Perassi e Costantino Mortati, aggiuntivo dell'articolo relativo al giuramento di fedeltà (attuale art. 91): malgrado le obiezioni di Nitti sull'inutilità della norma, l'articolo nuovo era approvato quasi senza discussione.
Nella seduta antimeridiana del 23 ottobre 1947, dopo un accalorato scambio fra Ruini e Orlando, il quale, fra l'altro, chiedeva che si chiarissero i rapporti fra Ministri e Capo dello Stato, fu accettata la mozione d'ordine presentata da Corbino di rimandare la discussione sull'articolo relativo allo scioglimento delle Camere a dopo che fossero stati affrontati i primi tre articoli relativi al Titolo III, Il Governo.
Nella pomeridiana del 23 ottobre 1947 si discusse a lungo l'articolo 85 (attuali articoli 89 e 90), dibattendo sui temi della irresponsabilità e della messa in stato di accusa per attentato alla Costituzione. Dall'obbligo di promulgare le leggi, quand'anche fossero incostituzionali, non poteva scaturire una responsabilità del Presidente della Repubblica per violazione costituzionale - obiettava Tosato (p. 1491) a Benvenuti; né era compito del Presidente valutare la costituzionalità delle leggi (attribuzione della istituenda Corte Costituzionale) e nemmeno, secondo Ruini, opportuno che il Presidente potesse promuovere azione di incostituzionalità (p. 1493). Era, però, irrinunciabile per la Commissione che rimanesse la responsabilità per gli atti non controfirmati o volti specificatamente a violare la Costituzione. Non si era, invece, ritenuto di stabilire in Costituzione l'improcedibilità per reati comuni né un'immunità equiparabile a quella dei membri delle Camere (che fu, tuttavia, oggetto di emendamento aggiuntivo dibattuto e respinto la mattina seguente).
La discussione pomeridiana del 23 ottobre 1947 si concluse sull'intestazione del Titolo medesimo: con l'accoglimento da parte della Commissione fu rapidamente approvato senza obiezioni l'emendamento Preti sostitutivo della dicitura, ritenuta di sapore ottocentesco, "Il Capo dello Stato" con quella "Il Presidente della Repubblica".
Nella pomeridiana del 24 ottobre 1947 fu, infine, affrontato il solo articolo rimasto accantonato, l'articolo 84 (attuale 88), relativo al potere di scioglimento delle Camere.
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5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Il Presidente della Repubblica: elezione e funzioni. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca. Si suggerisce altresì la consultazione della ricca e aggiornata Rassegna bibliografica curata dalla Biblioteca del Quirinale, consultabile online.