A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Luigi Einaudi presidente della Repubblica
Abstract
Prestigioso economista, non troppo connotato politicamente ma sicuramente antifascista, fu eletto senza pregiudiziali a sinistra. Con l'indebolirsi di De Gasperi alle elezioni politiche del 1953 Einaudi esercitò con forza crescente il potere di nomina dei presidenti del Consiglio, dei senatori a vita, dei giudici della Corte Costituzionale, combinando la difesa netta delle sue prerogative con una propensione al dialogo con il Governo.
Ospitiamo un contributo sulla figura di Luigi Einaudi ad opera del Professor Paolo Soddu, ricercatore di storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Storici dell'Università di Torino. Ringraziamo il Professore per la collaborazione.
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2. Il nuovo assetto del Quirinale e il ruolo del capo dello Stato
3. La seconda legislatura, la nomina dei presidenti del Consiglio, i rapporti con gli altri poteri
4. La nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali
5. Il giudizio di Ernesto Rossi
6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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Luigi Einaudi (1874-1961) venne eletto presidente della Repubblica l'11 maggio 1948. De Gasperi, presidente del Consiglio uscito visibilmente rafforzato dal voto del 18 aprile, che aveva riservato alla Dc la maggioranza assoluta dei seggi, propose in prima battuta quale candidato Carlo Sforza. Ministro degli Esteri, Sforza era in stretta sintonia con De Gasperi nel compimento delle scelte strategiche intorno alla collocazione internazionale dell'Italia, e cioè al suo reinserimento nel quadro occidentale. Sforza, inoltre, in esilio per tutto il periodo della dittatura fascista, si era nettamente schierato in favore della Repubblica. Contro di lui si espressero non solo le opposizioni di sinistra, che avversavano la sua politica estera, ma anche la sinistra democristiana e i socialdemocratici. La sua profonda sintonia politica con De Gasperi finì con l'indebolirne decisivamente le possibilità di elezione.
Il nome di Einaudi, nei confronti del quale non vi erano pregiudiziali in Parlamento, emerse in concomitanza con le difficoltà che Sforza incontrò nelle prime due votazioni. Einaudi aveva in primo luogo un profilo politicamente meno pronunciato. Economista tra i maggiori dei quali l'Italia disponesse, professore universitario di prestigio, era stato opinion maker instancabile dall'inizio del Novecento al 1925, quando, dopo la cacciata di Albertini, abbandonò il «Corriere della Sera». Nei «quarantacinque giorni» il governo Badoglio lo aveva nominato rettore dell'Università di Torino. Dopo l'8 settembre riparò in Svizzera e vi rimase fino al dicembre 1944 quando, insieme con altri esuli antifascisti tra i quali era il latinista Concetto Marchesi, venne fatto rientrare a Roma liberata. Ai primi di gennaio 1945 fu scelto dal governo come governatore della Banca d'Italia. Senatore del Regno dal 1919, fu eletto deputato liberale alla Costituente e, in occasione del referendum istituzionale, prese pubblica posizione in favore della monarchia. Era stato con De Gasperi dal maggio 1947 ministro del Bilancio.
Insomma, il suo nome rassicurava quelle larghe componenti della società italiana, che guardavano attonite al vuoto lasciato dalla rovina del nazionalismo monarchico-fascista. E nel contempo, non incontrava pregiudiziali a sinistra, sebbene formalmente Pci e Psi finissero con non votarlo. Favoriva quindi i processi di pacificazione, anche se mostrò a più riprese come per lui fossero molto chiare le radici della Repubblica. Lo aveva scritto nel luglio 1944 nel celebre Via il prefetto! [n.d.r.: articolo pubblicato sulla "Gazzetta Ticinese" il 17 luglio 1944 con lo pseudonimo di Junius]; lo ribadì nel discorso di giuramento davanti al Parlamento; lo ricordò con gesti simbolici durante la sua presidenza come in occasione del ricevimento al Quirinale di Alcide Cervi, padre di sette figli che nella lotta di liberazione erano stati uccisi. E del resto fu assai attento, con la sua discreta presenza, che ha fatto parlare di moral suasion, all'equilibrio dei poteri, contrastando, per esempio, inopinati tentativi di invasione di campo da parte dell'esecutivo. Il nuovo presidente venne eletto al quarto scrutinio, l'11 maggio 1948, con 518 voti. Ebbe i voti della Dc, dei socialdemocratici, del Pli e del Pri. Le sinistre diedero i loro 320 voti a un liberale dell'epoca prefascista, Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della vittoria nella prima guerra mondiale.
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2. Il nuovo assetto del Quirinale e il ruolo del capo dello Stato
L'avvio del settennato condusse all'elaborazione di un nuovo assetto organizzativo, dato che nel primo biennio la gestione del Quirinale era stata retta da un commissario. Con la legge 9 agosto 1948 n. 1077 e il successivo Dpr 21 aprile 1949 n. 412 si procedette alla fissazione della dotazione della presidenza e del suo titolare e venne istituito il segretariato generale. Il primo segretario generale fu il consigliere di Stato Ferdinando Carbone, già capo di gabinetto di Einaudi al ministero del Bilancio. Nominato nel 1954 presidente della Corte dei Conti, il suo ruolo venne assunto da Nicola Picella, che concluse il mandato con Einaudi, per poi rientrare al Quirinale nel 1964 con Saragat.
Occorreva dare concretezza alla funzione del capo dello Stato in presenza di una maggioranza ben definita e ampia, quale quella uscita dalle elezioni del 18 aprile 1948. In questo senso si è attribuito a Einaudi un ruolo notarile. In verità la presidenza della Repubblica è, all'interno delle norme costituzionali che la definiscono, un'istituzione costruita appositamente in modo elastico, particolarmente adattiva alle contingenze e alle circostanze. In una realtà di equilibrio dei poteri, ciascuno teso a non esorbitare dal proprio ambito, la presidenza assume un ruolo di regia del sistema politico, sopperendo alle difficoltà di altri gangli o, viceversa, ritirandosi quando questi esprimono le proprie potenzialità. Tanto più questo accadeva nella fase iniziale e costitutiva, la cui realtà era data dalla presenza solamente sulla carta di organi fondamentali come la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, le Regioni a statuto ordinario.
Nella prima legislatura repubblicana (1948-1953), la leadership di De Gasperi era tale per cui la scelta del presidente del Consiglio da parte del presidente della Repubblica si risolse in un esercizio formale.
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3. La seconda legislatura, la nomina dei presidenti del Consiglio, i rapporti con gli altri poteri
Nelle elezioni del giugno 1953 la coalizione di centro arretrò rispetto al 1948, tanto da non raggiungere la soglia del 50% + 1 necessaria per consentire che scattasse il premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, più nota come «legge truffa». Riemerse così il delicato potere di nomina assegnato dalla Costituzione al presidente della Repubblica. Bocciato dalla Camera l'ottavo esecutivo di De Gasperi, rinunciato il suo naturale successore Attilio Piccioni, al quale Einaudi aveva poi conferito l'incarico, il presidente della Repubblica designò Giuseppe Pella al di fuori delle indicazioni del partito di maggioranza relativa. Le elezioni non avevano prodotto una maggioranza né indicato un leader che ne assumesse la guida. Furono questi dati di realtà a ridare nerbo al potere del presidente di individuare la figura adatta a garantire una maggioranza parlamentare, anche non corrispondendo compiutamente agli intenti della Dc, fino al 1992 partito centrale e imprescindibile di qualsiasi maggioranza. «Governo amico» fu definito l'esecutivo che Pella guidò per pochi mesi. L'interpretazione di Einaudi del potere di nomina si fondava quindi sulla presa d'atto delle condizioni parlamentari effettive e degli orientamenti prevalenti.
Il rapporto tra presidenza della Repubblica e gli altri poteri dello Stato fu risolto da Einaudi secondo una netta demarcazione dei confini entro cui muoversi, ma con una rigorosa salvaguardia delle prerogative riservategli dalla Costituzione. La controfirma presidenziale degli interventi legislativi di iniziativa governativa fece in lui prevalere il metodo della consultazione preventiva, fatta di suggerimenti, proposte, in una parola, di un dialogo sia con il presidente del Consiglio sia coi ministri. Lo scrittoio del presidente, il volume che Einaudi pubblicò al termine del suo mandato, è in sostanza la silloge della sua azione di moral suasion, esercitata in modo riservato, discreto e tuttavia puntuale. Come scrisse nello Scrittoio del presidente, rispetto ai disegni di legge del governo «la facoltà del presidente della Repubblica non può non essere interpretata tenendo conto dell'altra facoltà […] di autorizzare la presentazione alle Camere di quei disegni. […] Risolsi, ogni volta che esso si presentò, il quesito dichiarando, nella maniera più chiara possibile, senza le attenuazioni e le circonlocuzioni proprie non di rado delle prose ufficiali, le mie osservazioni ed i miei dubbi; ed inchinandomi, nel tempo stesso, sia con l'apposizione preventiva di autorizzazione, sia con l'avvertenza che la firma sarebbe stata senz'altro apposta qualora il ministro competente avesse rinviato il provvedimento, al proposito del governo di dar seguito a quella che era la sua politica».
Diverso fu l'atteggiamento nei confronti delle leggi di iniziativa parlamentare. Furono quattro i rinvii decisi da Einaudi: i primi due, nel 1949 e nel 1950, importavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria. Egli si appoggiò quindi all'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione. Nel gennaio 1950 rinviò alle Camere una legge che apriva la via alla promozione di incaricati con funzioni giudiziarie attraverso esami di idoneità e non tramite i concorsi, come dettato dalla Costituzione. Infine, nel novembre 1953 fu la volta del rinvio della legge di proroga di un anno dei diritti "casuali" al personale dei ministeri del Tesoro e delle Finanze e della Corte dei Conti. In quest'occasione Einaudi stese un lungo messaggio nel quale chiariva con articolate argomentazioni che essi non corrispondevano affatto a «particolari servizi adempiuti dai funzionari nell'interesse esclusivo o prevalente dei privati» e che pertanto davano vita a «un sistema sotto ogni aspetto non commendevole».
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4. La nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali
Come si è detto, però, Einaudi fu molto puntiglioso nella difesa delle prerogative del Presidente, nonostante la sintonia profonda che aveva con la maggioranza che lo aveva eletto. A costo, appunto, di dissentire esplicitamente dal governo, come accadde quando difese strenuamente il diritto di nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali.
Dopo il rifiuto di Benedetto Croce, nominò nel 1949 il matematico Guido Castelnuovo, presidente dell'Accademia dei Lincei, e Arturo Toscanini il quale, come è noto, nel 1931 aveva abbandonato l'Italia per non sottostare alle imposizioni del regime fascista. Stabilitosi Toscanini negli Stati Uniti, gli uffici del Quirinale, e con essi collaborò il figlio di Einaudi, Mario, anch'egli emigrato per antifascismo in America nel 1931, verificarono che il direttore d'orchestra aveva mantenuto la cittadinanza italiana. Toscanini, però, all'annuncio della nomina oppose un reciso diniego con un telegramma nel quale sosteneva di non avere mai cercato, anzi di avere sempre rigettato, onori e onorificenze. Nel 1950 fu la volta dello scultore Pietro Canonica - scelta da più parti criticata -, dell'economista Pasquale Jannaccone, di Trilussa e di Gaetano De Sanctis, il professore di storia antica dell'Università di Torino che era stato tra gli undici docenti universitari a rifiutare nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime fascista imposto dalla dittatura. Morto il poeta romano poche settimane dopo la nomina e nel 1952 Castelnuovo, Einaudi completò la cinquina nel settembre 1952 con la nomina di don Luigi Sturzo, fondatore nel 1919 del partito popolare italiano, in esilio dal 1923, e dell'archeologo e meridionalista Umberto Zanotti Bianco, esponente anch'egli dell'antifascismo liberale. Negli anni di Einaudi prevalse quindi un'interpretazione dell'articolo 59 della Costituzione che preservava l'integrità del corpo dei senatori di diritto completato dall'ex capo dello Stato Enrico De Nicola. I successori oscillarono tra due diversi comportamenti. Il primo era fondato sull'assunto che il numero complessivo dei senatori nominati a vita non dovesse superare in ogni caso il numero di cinque stabilito dalla Costituzione. A questa interpretazione si attennero Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. Il secondo, racchiuso nel ritenere facoltà del presidente procedere comunque alla nomina di un massimo di cinque senatori a vita, indipendentemente dal numero complessivo, venne invece seguita da Sandro Pertini e da Francesco Cossiga. Un'altra via si è proposta durante la presidenza di Giorgio Napolitano. Egli, sulla base di considerazioni di opportunità sistemiche (la risicatissima maggioranza di governo a Palazzo Madama), nel 2006 non nominò il senatore a vita vacante in seguito alla sua elezione a capo dello Stato. Soltanto il 9 novembre 2011 provvide alla nomina del senatore mancante, con la scelta consensuale di Mario Monti, designato nel contempo presidente del Consiglio di un governo sostenuto dai partiti leaders degli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra. Nel corso del suo secondo mandato, nel 2013, morti nel contempo quattro senatori a vita, li sostituì con nuove nomine.
Più contrastato fu il rapporto con il governo riguardo il diritto di nomina dei cinque giudici costituzionali di spettanza del presidente, secondo l'art. 135 della Costituzione. Nel corso della prima legislatura venne elaborata la legge costituzionale sulle norme di attuazione del dettato costituzionale. Nel corso della discussione, il 15 marzo 1951 (p. 27165) la Camera approvò un emendamento presentato da due deputati democristiani, che di fatto trasferiva la nomina dei giudici al ministro di Grazia e Giustizia, risultando il potere del presidente meramente formale. Einaudi se ne andò a Dogliani per le vacanze di Pasqua e, terminate queste, non fece rientro a Roma, come a volere sottolineare la netta contrarietà per quella norma gradita all'esecutivo e alla Dc, secondo i quali in tal modo si procedeva a «spoliticizzare la scelta che sarebbe così avvenuta con criteri tecnici», come disse De Gasperi a Carbone. Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, difese le ragioni dell'emendamento, peraltro approvato a Montecitorio con un esiguo margine. Tuttavia Einaudi la ebbe vinta, trasferendo ai suoi successori intatte le prerogative dalla Costituzione attribuite al Quirinale.
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5. Il giudizio di Ernesto Rossi
A conclusione del mandato, Luigi Einaudi chiese un'opinione sul suo complessivo operato, a Ernesto Rossi, l'intellettuale dell'antifascismo democratico col quale era ininterrotamente in contatto dal 1925. Il polemista radicale, curatore nel 1954 per Laterza dell'antologia einaudiana Il buongoverno, non perse l'occasione per rivolgergli franchi rilievi, che sul piano istituzionale e costituzionale investivano anche aspetti, come la Corte Costituzionale, sui quali Einaudi era intervenuto sì silenziosamente, ma rigorosamente. Il collaboratore de «Il Mondo» concludeva però la lettera con l'elogio dell'economista presidente: «Anche ammesso che siano stati errori (e riconosco che il giudizio può essere molto diverso, a seconda dei punti di vista), come Le dissi, sono convinto che nessuno ne avrebbe potuti commettere meno. In complesso, per me e per tutti miei amici, la sua Presidenza è stata una delle pochissime esperienze felici della Repubblica».
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6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Si riportano di seguito i riferimenti ai testi citati nell'articolo.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca. Si suggerisce altresì la consultazione della ricca e aggiornata Rassegna bibliografica curata dalla Biblioteca del Quirinale, consultabile online (in particolare, p. 216 e sgg.).
Junius, Via il Prefetto!, "La Gazzetta Ticinese", 17 luglio 1944 (Suppl.).
Luigi Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1987-1954), a c. di Ernesto Rossi. Bari. Laterza, 1954.
Id., Lo scrittoio del Presidente. Torino, Einaudi, 1956.