A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Per una geografia storico-economica. L'Italia (Parte quinta: Il divario tra nord e sud. L'indagine sulle cause economiche)
2. La condizione del Mezzogiorno preunitario
4. Il meridionalismo socialista
5. Le interpretazioni più recenti
6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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Una caratteristica rilevante dell'economia italiana è il forte divario tra la parte settentrionale e quella meridionale del paese: stando alle cifre riportate da Daniele e Malanima (2011), nel 2010 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno era pari al 58 per cento di quello del Settentrione. L'esistenza di tale divario è stata rilevata e fatta oggetto di analisi sin dai primi decenni di vita unitaria, sicché sull'argomento è andata costituendosi una vasta produzione di studi, segnata da una pluralità di orientamenti e comprendente tesi in contrasto fra di loro. In questo articolo e nel successivo, con i quali si conclude la trattazione dedicata all'Italia, tenteremo una ricapitolazione delle interpretazioni che sono state date del problema, riservando - com'è naturale - una particolare attenzione a quegli autori considerati dei "classici" del pensiero meridionalista. Coerentemente con l'impostazione di questa rubrica (e anche per evidenti esigenze di sintesi), l'analisi sarà focalizzata sugli aspetti strettamente economici della questione, evitando quindi di prendere in considerazione i pur importanti fenomeni sociali che ad essa sono risultati connessi, quali il brigantaggio del primo decennio successivo all'unificazione, le ripetute ondate migratorie o il radicamento delle organizzazioni mafiose.
2. La condizione del Mezzogiorno preunitario
Tra i punti oggetto di controversie in ambito meridionalista v'è stato quello dell'epoca di formazione del divario. In materia, l'opposizione fondamentale è sempre stata quella fra chi sosteneva che il Mezzogiorno fosse giunto all'unificazione in condizioni di accentuata arretratezza rispetto al Settentrione e chi, pur accettando l'idea che un ritardo vi fosse, ne valutava però decisamente modesta la consistenza. Un esempio di lettura della storia meridionale del primo tipo si trova in Barbagallo (1980), ove si afferma che intorno al 1860 l'economia del Sud Italia era ancora segnata dalla dominanza di strutture agrarie precapitalistiche (sopravvivenza del latifondo, prevalenza della cerealicoltura e del pascolo estensivi, mancanza di investimenti produttivi), decisamente meno progredite di quelle affermatesi quantomeno nelle aree più avanzate del Settentrione; e che su questo quadro generale così negativamente definito non riuscivano a incidere i moderni insediamenti industriali che il capitale pubblico e quello straniero erano riusciti a far sorgere, giacché questi risultavano pochi e isolati nel contesto sociale stagnante in cui si inserivano. Una posizione del secondo tipo è invece quella di Bevilacqua (1997), il quale sottolinea come negli ultimi decenni precedenti l'unificazione l'economia meridionale avesse beneficiato di considerevoli progressi, in quanto in campo agricolo la tradizionale cerealicoltura estensiva era stata affiancata in misura crescente da più redditizie colture arboree, le cui produzioni venivano esportate sui principali mercati europei, e in ambito industriale il sorgere di numerose iniziative ad opera sia di imprenditori stranieri che di operatori locali aveva ridotto di molto il divario in esso sussistente fra le due parti d'Italia. In questo senso si esprimono anche Daniele e Malanima (2011), il cui tentativo di quantificare il divario originario tra Nord e Sud approda alla conclusione che esso, manifestandosi all'interno d'una società assai povera, doveva forzatamente risultare contenuto.
Una posizione minoritaria, ma che comunque va segnalata, è quella di chi ha negato del tutto l'esistenza d'un ritardo economico del Mezzogiorno preunitario, spingendosi ad affermare che nella sua ultima fase di vita il Regno delle Due Sicilie avrebbe sotto determinati profili addirittura sopravanzato il Nord del paese. Tra i sostenitori d'una simile tesi possiamo citare Servidio (2002) e Zitara (2011), i quali in particolare hanno sottolineato la validità della politica di sviluppo industriale portata avanti nel trentennio 1830-60, la quale avrebbe consentito al Mezzogiorno di dotarsi di un apparato manifatturiero più evoluto di quello esistente al Nord, perché maggiormente caratterizzato dalla presenza di impianti di grandi dimensioni, nonché di attività e metodi di produzione dal contenuto tecnologico per l'epoca elevato.
Ai differenti punti di vista sull'epoca di origine della questione meridionale hanno fatto logicamente riscontro opinioni diverse in merito alle cause della sua formazione. Le spiegazioni che originariamente furono avanzate al riguardo provennero da ambienti politici e culturali liberali. Per la precisione, i primi studi in materia furono quelli di Villari (1878) e di Franchetti e Sonnino (1877), i quali ricondussero l'arretratezza del Mezzogiorno sostanzialmente al fatto che in questa parte del paese, a differenza che nel Settentrione, si fosse perpetuata nel tempo una struttura economico-sociale di tipo semifeudale. Tuttavia già questi studiosi avanzarono anche delle critiche nei riguardi del governo unitario, considerandolo responsabile quantomeno d'un insufficiente impegno nei confronti della regione, che aveva consentito la persistenza dei fenomeni negativi da essi rilevati. Ai loro lavori seguirono quelli di Fortunato (1911), il quale, ponendo in rilievo la diversità riscontrabile fra Nord e Sud Italia sotto il profilo morfologico, idrografico e climatico, sostenne la tesi d'una naturale povertà del Meridione. Col tempo, tuttavia, Fortunato pervenne anche ad una valutazione fortemente negativa dell'azione dello stato, imputandogli non soltanto - come gli autori prima citati - una mancanza di sollecitudine nei confronti del Mezzogiorno, ma anche di avere portato avanti delle politiche (doganali, fiscali e di spesa pubblica) che l'avevano penalizzato rispetto al Nord, causando quindi un ulteriore arretramento del primo rispetto al secondo.
Una critica ancora più radicale alla politica dei governi unitari fu condotta da Nitti (1900), il quale, compiendo la prima indagine approfondita e sistematica delle modalità di ripartizione fra Nord e Sud del carico tributario e della spesa pubblica, giunse alla conclusione che nel primo quarantennio di vita dello stato nazionale il Sud avesse subito sotto entrambi i profili una forte penalizzazione, che aveva determinato un cospicuo trasferimento di risorse da questa parte del paese a quella settentrionale, impoverendo la prima e consentendo un'accelerazione dello sviluppo della seconda. Riconsiderando la situazione finanziaria del Mezzogiorno al momento dell'unificazione, inoltre, Nitti pervenne a una valutazione delle sue potenzialità economiche assai più positiva di quella che veniva usualmente data, così come negò, nel descriverne la struttura produttiva, l'esistenza di forti disparità di partenza fra questa e quella settentrionale. Sottolineando per un verso la portata del danno inflitto alla regione dalle politiche unitarie e rivalutando per l'altro le condizioni della stessa prima del 1860, lo studioso lucano giunse alla conclusione che la causa originaria dell'arretratezza del Mezzogiorno andasse individuata proprio nelle discriminazioni da esso subite in epoca unitaria. Temperava il suo giudizio soltanto la convinzione che le politiche sfavorevoli al Sud Italia fossero state poste in essere per effetto di necessità imprescindibili (come nel caso della concentrazione al Nord delle spese militari) o fossero scaturite in modo automatico dall'unificazione amministrativa (come nel caso della squilibrata ripartizione del carico fiscale, derivante dall'applicazione delle medesime norme a situazioni economico-sociali assai diverse).
4. Il meridionalismo socialista
Nell'ambito del meridionalismo liberale era andata così affermandosi l'idea d'uno sfruttamento finanziario del Mezzogiorno da parte del Settentrione. Tale idea fu fatta propria dal meridionalismo socialista, i cui esponenti la declinarono tuttavia in forme inedite. Salvemini (1900) accettò le risultanze dell'analisi nittiana, sostenendo però che a fare le spese delle politiche unitarie fosse non l'intera società meridionale, bensì la sua sola componente popolare, in ragione del fatto che una parte consistente del carico fiscale gravava sulle classi inferiori. Per Salvemini lo sfruttamento del Mezzogiorno consisteva in realtà nello sfruttamento dei suoi ceti popolari ad opera delle classi dirigenti di entrambe le parti d'Italia, reso possibile dal fatto che la normativa regolante l'accesso al voto, subordinandolo alla capacità di leggere e scrivere, impediva loro di difendere i propri interessi in sede politica (dal momento che il proletariato meridionale, a differenza di quello settentrionale, risultava largamente analfabeta). Ciccotti (1898) e successivamente Gramsci (1916) recuperarono invece la tesi d'un Mezzogiorno in ritardo rispetto al Nord sin da prima dell'unità, secondo l'uno a causa di fattori morfologici e geografici (minore fertilità dei suoli, minore disponibilità di risorse minerarie, conformazione del suolo meno favorevole allo sviluppo delle comunicazioni interne, maggiore distanza dai mercati stranieri) e secondo l'altro per ragioni storiche di antica data (l'assenza dell'esperienza comunale, che avrebbe reso impossibile nel Mezzogiorno la formazione d'un ambiente economico-sociale evoluto quanto quello settentrionale, facendo sì che questa parte del paese giungesse all'unità priva d'un ceto imprenditoriale altrettanto consistente e dotato d'iniziativa di quello del Nord Italia). Tali autori facevano discendere il trasferimento di risorse da Sud a Nord da questo ritardo originario: a loro parere, difatti, l'inferiore sviluppo e la minore competitività della struttura manifatturiera meridionale avrebbero impedito al Mezzogiorno di prendere parte al processo di sviluppo industriale che il governo unitario promosse, gravando di pesanti dazi i manufatti d'importazione (in modo da dirigere i consumi privati verso quelli nazionali) e mantenendo elevate le spese militari e quelle funzionali alla realizzazione di infrastrutture (in modo da offrire agli imprenditori ampie opportunità di profitto tramite l'accaparramento delle commesse pubbliche). In conseguenza di ciò, di tali politiche il Sud Italia avrebbe sperimentato soltanto i costi, rappresentati dalla lievitazione dei prezzi dei manufatti stranieri, dalla perdita di sbocchi esteri per l'agricoltura nazionale (causata dalle ritorsioni dei paesi colpiti dal protezionismo nostrano) e dal drenaggio da parte dello stato dei capitali presenti in tale comparto (realizzato attraverso l'esazione d'una pesante imposta fondiaria e la vendita dei suoli demaniali ed ecclesiastici) resosi necessario per far fronte all'espansione della spesa pubblica. Per il Mezzogiorno questa condivisione dei costi d'una politica di cui il solo Settentrione risultava beneficiario si sarebbe tradotta, in ultima analisi, nel finanziamento dello sviluppo del secondo da parte del primo.
5. Le interpretazioni più recenti
A questo ventaglio di tesi si sono contrapposte, a partire dagli anni sessanta, le interpretazioni definite "dualistiche", le quali fanno derivare l'evoluzione economica delle due parti del paese da fattori specifici operanti in maniera autonoma all'interno di ciascuna di esse, negando quindi che alla base del decollo economico del Settentrione vi sia stato il sacrificio del Mezzogiorno. Una tesi di questo tipo è quella di Cafagna (1989), il quale muove dalla considerazione che nella prima metà dell'Ottocento la crescita della domanda di filati serici da parte dei paesi d'oltralpe fece sorgere inedite opportunità di sviluppo manifatturiero per il nostro paese (dal momento che ragioni climatiche rendevano possibile la produzione della seta solo nella parte mediterranea del continente). Le regioni padane furono quelle che maggiormente poterono sfruttare tali opportunità, in ragione dell'esistenza al loro interno d'una già consolidata tradizione artigiana in ambito tessile e della loro vicinanza ai mercati continentali. Secondo tale studioso, questa ineguale espansione dell'industria serica è da considerare all'origine del divario economico fra le due parti del paese, non soltanto perché differenziò nell'immediato la loro condizione, ma anche e soprattutto perché consentì esclusivamente nell'Italia settentrionale l'accumulazione di capitali e talenti imprenditoriali in misura sufficiente da consentire, in una fase successiva, un diffuso sviluppo delle moderne forme d'industria. La differenza così determinatasi sotto il profilo delle potenzialità di sviluppo industriale non sarebbe poi mutata in seguito all'unificazione politica del paese, in quanto da essa non sarebbe scaturita una rapida integrazione economica fra Nord e Sud Italia: nei decenni successivi al 1860 le due aree avrebbero continuato ad evolversi secondo le direttrici emerse precedentemente e dunque senza che le politiche dei governi unitari potessero incidere significativamente sulle loro vicende.
I meridionalisti che hanno negato l'esistenza antecedente all'unità d'un divario tra le due Italie hanno invece individuato proprio la politica governativa quale responsabile della sua generazione. Questa linea di pensiero, sviluppatasi a partire dagli anni settanta, ha recuperato la lezione nittiana, spingendosi però ancora più avanti nella critica all'atteggiamento dello stato unitario nei confronti del Mezzogiorno. Autori quali i già citati Servidio (2002) e Zitara (2011) sostengono infatti che l'economia meridionale fu scientemente penalizzata dal regime unitario, il quale avrebbe modulato la propria politica fiscale, di spesa pubblica, bancaria e industriale in maniera tale da privare il Sud delle sue risorse finanziarie e usarle per finanziare politiche di industrializzazione e infrastrutturazione del Nord Italia, nonché in modo da soffocare il suo apparato manifatturiero (e garantire così a quello settentrionale il controllo esclusivo del mercato nazionale). In quest'ottica l'unificazione del paese assume l'aspetto d'un'operazione promossa dalle classi dirigenti settentrionali al fine di alimentare lo sviluppo delle proprie regioni tramite lo sfruttamento d'un'area esterna aggregata ad esse alla stregua d'una colonia (ossia forzatamente e in posizione subordinata). Il fatto che un regime avente simili finalità abbia potuto contare sul consenso della classe dirigente meridionale oltre che di quelle settentrionali è spiegato con la capacità delle seconde di intessere alleanze con le componenti della prima estranee all'ambito imprenditoriale (ossia con quelle agrarie e intellettuali), offrendo loro l'accesso alla proprietà delle terre dello stato e della Chiesa (tramite la loro confisca e privatizzazione) e inedite possibilità di carriera in ambito burocratico (per effetto della costituzione d'un apparato amministrativo nazionale, dai ranghi assai più estesi rispetto a quello dello stato borbonico).
L'indagine sulle cause originarie della questione meridionale costituisce comunque soltanto una parte dell'indagine storiografica su questo tema. Nel corso dei decenni la persistenza della stessa ha infatti imposto di dedicare crescente attenzione alle ragioni per cui, malgrado il varo a più riprese di politiche finalizzate a migliorare le condizioni della regione, il ritardo determinatosi nei confronti del Nord non sia stato più recuperato (subendo anzi, in diverse fasi storiche, un progressivo incremento). Le analisi relative a questo secondo aspetto della questione costituiranno l'argomento del prossimo articolo.
6. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Il divario tra Nord e Sud Italia. L'indagine sulle cause economiche. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.