A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Le conseguenze economiche della prima guerra mondiale
Abstract
1. Le trasformazioni mondiali indotte dal conflitto
6. L'impossibilità d'un ritorno al passato
7. Le conseguenze dei trattati di pace
8. Riforme sociali e rivoluzione
9. Approfondimenti nelle collezioni e nelle banche dati della Biblioteca
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1. Le trasformazioni mondiali indotte dal conflitto
La guerra del 1914-18, oltre a comportare per le nazioni in essa coinvolte gravissime perdite di vite umane, fu generatrice di profondi turbamenti in ambito economico, destinati a influire anche sulle vicende dei paesi neutrali e a segnare le une e gli altri ben oltre la fine delle ostilità. Una differenza fondamentale fra il periodo precedente e quello successivo alla guerra riguardò la posizione dell'Europa nel consesso mondiale: essa difatti al termine del conflitto aveva ormai perso la propria preminenza economica, soprattutto a vantaggio degli Stati Uniti d'America. Come rileva Aldcroft (2004), in verità già prima del 1914 gli USA erano giunti a minacciare tale preminenza; ma gli eventi bellici ebbero sicuramente la responsabilità di accelerare questo mutamento dei rapporti di forza, determinando nel vecchio continente perdite di forza lavoro, distruzioni di impianti e infrastrutture, disorganizzazione finanziaria e situazioni d'instabilità sociale e politica.
Un'altra differenza di notevole rilievo fu rappresentata dal generalizzato abbandono delle politiche economiche di stampo liberale prima dominanti. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un mutamento già in atto negli anni precedenti il conflitto, ma che da esso ricevette nuovo impulso. Scrive Berend (2008) che sin dal tardo Ottocento era andato affermandosi in ambito commerciale un orientamento protezionista: tra gli stati europei, alla vigilia della guerra solo la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e la Danimarca difendevano ancora il principio del libero scambio. Nei paesi balcanici e in Russia, inoltre, la modestia dei capitali mobilitabili dall'imprenditoria aveva indotto i governi ad impegnarsi in prima persona nello sviluppo dell'industria, dando vita così a forme di intervento pubblico nell'economia di inedita portata. Le necessità della guerra ebbero però l'effetto di rendere queste tendenze ancora più diffuse e accentuate, in quanto gli stati coinvolti nel conflitto furono indotti a ricercare l'autosufficienza nei principali ambiti produttivi, in modo da non dover più contare su importazioni divenute insicure, e a rendere ogni attività economica funzionale alle necessità belliche: agricoltura, industria e trasporti furono così sottoposti a stringenti regolazioni da parte dei governi, mentre i rapporti commerciali fra i diversi paesi andarono rarefacendosi.
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Sin dal loro inizio, le ostilità assunsero anche la forma d'una guerra economica. Secondo la ricostruzione di Hardach (1982), la prima mossa compiuta in tal senso consistette nella proibizione di commerciare coi nemici che fu decisa da ciascuno degli stati belligeranti. Le due coalizioni in lotta tentarono quindi di isolare ancor più i rispettivi avversari, estromettendoli dai traffici internazionali. A tale scopo, gli alleati praticarono a danno degli imperi centrali un blocco delle coste e dei porti; a questo i tedeschi risposero dando vita a una guerra sottomarina tesa all'affondamento delle navi che rifornivano gli Alleati. Il grande commercio marittimo risultò pertanto gravemente danneggiato.
Una volta terminato il conflitto, per i paesi europei il ritorno alla situazione preesistente si rivelò impossibile. Come rilevano Cameron e Neal (2005), la ripresa degli scambi su lunghe distanze fu ostacolata dal ridimensionamento delle flotte mercantili: in particolare, la Gran Bretagna aveva subito gravi perdite per effetto degli attacchi dei sottomarini tedeschi, mentre la Germania aveva addirittura perso del tutto il proprio naviglio, avendo dovuto cederlo ai vincitori come parte delle riparazioni da questi imposte. I paesi europei scontarono inoltre la concorrenza che gli Stati Uniti erano divenuti in grado di apportare loro proprio in tale ambito, dopo che la partecipazione alla guerra aveva suscitato in tale paese il decollo del settore delle costruzioni navali, che aveva potuto giovarsi di cospicui finanziamenti pubblici. Infine, bisogna considerare che nel corso della guerra i paesi asiatici e latinoamericani che avevano visto rarefarsi i propri rapporti commerciali con il vecchio continente avevano compensato questa perdita stringendo legami con altri paesi, che al termine del conflitto non ebbero motivo di mettere in discussione. Dopo il 1918, pertanto, la presenza delle potenze europee nel commercio internazionale risultò fortemente e anche durevolmente ridimensionata, a vantaggio soprattutto degli USA e del Giappone.
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La guerra pose i paesi coinvolti dinanzi a un'esigenza contraddittoria: da una parte, occorreva spostare molti uomini validi dalle attività lavorative al servizio in armi; dall'altra, era necessario che le fabbriche continuassero a produrre a pieno ritmo, in modo da garantire all'esercito i rifornimenti di armi, uniformi e mezzi di cui abbisognava. Come spiega Morsel (1979), per colmare i vuoti apertisi nella classe operaia si fece ricorso a persone anziane e soprattutto alle donne. La Germania si servì anche della manodopera forzata reclutabile nei territori occupati: quasi 100.000 belgi e polacchi furono costretti a lavorare nelle sue industrie. La Francia, che aveva il problema di dover rimpiazzare anche i numerosi immigrati richiamati in patria dal governo italiano, attrasse manodopera da paesi neutrali (ad esempio dalla vicina Spagna) e si servì pure della forza lavoro esistente nelle proprie colonie. Il reperimento della manodopera divenne così un'attività strettamente controllata dallo stato.
La conversione della produzione dai settori civili a quello militare richiedeva altresì la sottoposizione delle industrie private a uno stretto controllo pubblico. Hardach (1982) sostiene che questa inizialmente mancò, in ragione della generale convinzione della classe politica che la guerra avrebbe avuto breve durata; ma comunque aggiunge che presto si presero provvedimenti in tal senso, svincolando la produzione dalla domanda privata per renderla funzionale ai bisogni dell'esercito.Vi furono paesi che dovettero creare pressoché dal nulla la propria industria bellica: la riuscita di tale operazione, com'è intuibile, dipese dal livello di sviluppo dei settori civili già esistenti. In proposito, sempre Hardach (1982) rileva come in Russia la scarsa industrializzazione impedì l'approntamento d'una produzione di armamenti adeguata alle necessità del paese, mentre negli USA l'estesa struttura industriale costituitasi a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento rese agevole lo sviluppo del settore militare. Gli Stati Uniti furono avvantaggiati pure dalle richieste di forniture che pervennero loro dai paesi alleati: queste difatti stimolarono lo sviluppo delle fabbriche di armamenti di tale paese sin da prima del suo diretto coinvolgimento negli eventi bellici, consentendogli d'inserirvisi già dotato d'una produzione bellica bene avviata.
Il fabbisogno di armamenti degli eserciti rese possibile il mantenimento d'un livello della produzione paragonabile a quello prebellico: secondo Morsel (1979), alla fine della guerra in Gran Bretagna e in Francia l'occupazione industriale risultava addirittura superiore a quella del 1914. Ristabilita la pace, però, la situazione mutò drasticamente. Le uccisioni di militari e civili provocate direttamente dalla guerra, le carestie ed epidemie riconducibili agli sconvolgimenti da essa procurati e il calo del tasso di natalità fecero sì che fra il 1914 e il 1921 l'Europa perdesse, secondo le stime riportate da Aldcroft (2004), tra i 50 e i 60 milioni di abitanti: un calo che appare enorme, anche qualora si consideri che per metà si determinò nella sola Russia. Chiaramente, questa crisi demografica impedì ai consumi privati e alla smobilitazione dell'esercito di colmare da subito il venir meno delle commesse militari e delle difficoltà inerenti il reperimento della manodopera: si ebbe così una consistente diminuzione tanto della domanda quanto dell'offerta di beni manifatturieri. Bisogna inoltre considerare - come fanno Cameron e Neal (2005) - che negli anni della guerra i paesi asiatici e latinoamericani avevano compensato il ritirarsi delle potenze europee dai loro mercati prendendo a importare manufatti dal Giappone e dagli USA (fenomeno cui abbiamo già accennato trattando delle attività commerciali) e anche sviluppando proprie industrie, che protessero con dazi elevati per porle al riparo dalla concorrenza di quelle straniere più progredite. Aldcroft (2004) riferisce inoltre che anche i paesi del vecchio continente rimasti neutrali sostituirono alle importazioni da altri stati europei quelle di prodotti statunitensi. Alla fine del conflitto, pertanto, i paesi che vi avevano preso parte non soltanto scontarono la contrazione dei rispettivi mercati interni, ma non poterono neppure compensarla tramite una forte ripresa delle esportazioni verso le aree che non ne erano state toccate, trovandosi all'opposto ormai tagliati fuori da queste o comunque costretti a confrontarsi al loro interno con paesi extraeuropei la cui capacità competitiva s'era considerevolmente accresciuta.
Sempre in Aldcroft (2004) si legge inoltre che la maggioranza dei paesi europei rimasti neutrali (in particolare la Svizzera, la Norvegia e la Svezia) vide i rispettivi apparti industriali uscire rafforzati dal conflitto, in quanto la loro estraneità ai due blocchi in lotta consentì loro di sottrarsi alle distruzioni causate dagli eventi bellici, prendendovi però ugualmente parte in qualità di esportatori di armamenti. Berend (2008) e lo stesso Aldcroft (2004) sostengono peraltro che anche questi paesi si trovarono in difficoltà una volta cessata la guerra, in quanto la scarsità di materie prime e la modestia della domanda internazionale determinò anche al loro interno la stagnazione o il declino di alcuni comparti.
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Anche il comparto agricolo fu posto sotto pressione dagli eventi bellici. Come nell'industria, si pose innanzitutto il problema di rimediare alla perdita di forza lavoro determinata dalla leva militare, reclutandone di nuova fra i settori della popolazione abitualmente non attivi: e ciò naturalmente fu fatto, sia pure - rileva Hardach (1982) - con le lentezze e le difficoltà che derivarono dalla mancanza d'un'adeguata programmazione iniziale, derivante dalla convinzione fallace (e foriera di problemi anche in ambito industriale, come s'è visto) che il conflitto avrebbe avuto breve durata. Non risolvibile, secondo lo stesso autore, si rivelò invece il problema di come rendere o mantenere la produttività dell'agricoltura adeguata alle necessità della popolazione. Al riguardo, va rilevato che v'erano paesi (quali Gran Bretagna e Italia) che dipendevano dalle importazioni di cereali, le quali ovviamente furono compresse dalla rottura di molte relazioni commerciali e dall'insicurezza che venne a connotare i trasporti; come pure che ve n'era almeno uno (la Germania) formalmente autosufficiente, ma che doveva tale condizione al largo impiego di concimi chimici anch'essi importati. Nel corso del conflitto la devastazione dei territori che segnò pesantemente alcuni paesi - Berend (2008) menziona il Belgio, la Francia, la Polonia, la Serbia e la Russia - pure contribuì a compromettere la produzione agricola. L'inevitabile conseguenza di questa situazione - come illustra ancora Hardach (1982) - fu la sottoposizione anche dell'agricoltura ad uno stretto controllo statale, il quale si caratterizzò per il ricorso a razionamenti e al blocco dei prezzi. È da notare che tali politiche, sia pure in forma moderata, vennero poste in essere anche in alcuni paesi europei rimasti neutrali (Olanda, Danimarca e Norvegia): ciò perché l'insufficienza della produzione alimentare in quelli belligeranti fece sorgere flussi di esportazioni dai secondi verso i primi tali da determinare al loro interno una forte tendenza al rialzo dei prezzi, che in assenza di interventi statali avrebbe posto a repentaglio la sussistenza degli strati meno abbienti delle loro popolazioni.
Subito dopo la guerra anche la produzione agricola scontò gli effetti del calo demografico sulla disponibilità di manodopera e sulla domanda interna. Inoltre il ritorno ai livelli di produzione pregressi, che fu conseguito negli anni successivi, non fu accompagnato da un ritorno ai precedenti livelli di redditività: ciò perché, secondo Cameron e Neal (2005), alla ripresa produttiva corrispose una crisi dei prezzi, dovuta al fatto che nel periodo bellico il calo della produzione e delle esportazioni dei paesi in guerra aveva stimolato la crescita dell'una e delle altre nelle Americhe e che pertanto tale ripresa portò la produzione globale a livelli superiori a quelli dell'epoca precedente il conflitto.
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Il conflitto ebbe pesanti ripercussioni anche in ambito finanziario. Come rilevano Cameron e Neal (2005), esso innanzitutto determinò uno spostamento delle attività finanziarie da Londra e in generale dai paesi più direttamente coinvolti a località reputate più sicure, quali New York e la Svizzera. Inoltre al termine delle ostilità le potenze europee si ritrovarono con i propri investimenti esteri svalorizzati a causa dell'inflazione o addirittura incamerati da altri governi: fu ciò che accadde agli investimenti tedeschi nei paesi contro cui aveva combattuto e a quelli francesi in Russia. Anche sotto questo profilo la guerra condusse pertanto a un declino del vecchio continente (quantomeno se considerato nel suo complesso), favorendo invece l'ascesa degli Stati Uniti. La potenza finanziaria di questi ultimi fu accresciuta altresì dai crediti che alla fine del conflitto si trovarono a vantare nei confronti dei propri alleati europei, cui avevano elargito cospicui prestiti.
La guerra precipitò in condizioni difficilissime le finanze pubbliche. Come spiega Aldcroft (2004), essa fu finanziata dagli stati principalmente tramite prestiti richiesti al sistema bancario, il quale li accordò emettendo nuova moneta. Si ebbe così una generalizzata lievitazione dei debiti pubblici e dei tassi d'inflazione, con esiti di particolare gravità in Germania e in Austria, ma di notevole portata anche in paesi quali l'Italia e la Francia. Tornata la pace, i governi mirarono ovviamente a stabilizzare le proprie monete; ma i loro sforzi poterono dare dei risultati solo nel lungo periodo, sussistendo anche nell'immediato dopoguerra forti stimoli all'espansione della base monetaria (elevati indebitamenti interni, debiti di guerra tra alleati, massicce riparazioni imposte ai vinti).
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6. L'impossibilità d'un ritorno al passato
Le difficoltà cui andarono incontro i paesi usciti dal conflitto furono accentuate, secondo Aldcroft (2004), da un abbandono troppo rapido delle politiche di controllo dell'economia. Cessate le ostilità, la domanda privata non fu immediatamente depressa dal calo demografico (in quanto nell'immediato incise positivamente su di essa la duratura compressione che i consumi avevano subito negli anni precedenti), finendo così per risultare troppo elevata rispetto sia alla capacità produttiva industriale e agricola (ridimensionata dalla guerra), sia alle possibilità di importare prodotti esteri (che scontava le distruzioni di mezzi di trasporto e di infrastrutture). La fine dei razionamenti e dei controlli sui prezzi ebbe pertanto come effetto un'impennata di questi ultimi, che stroncò sul nascere la ripresa dei consumi.
La tendenza che nel lungo periodo si affermò fu comunque di segno opposto: sia pure in forma più moderata rispetto al 1914-18, i governi europei finirono infatti per mantenere o ripristinare delle politiche economiche di tipo interventista. Nell'illustrare tale fenomeno, Berend (2008) individua alcune tendenze generali, quali l'adozione di misure protezioniste volte ad assicurare alla società un elevato grado di autosufficienza (non soltanto alimentare, ma anche nella produzione di beni manifatturieri ritenuti d'importanza strategica), ispirata verosimilmente dal timore di giungere nuovamente impreparati a una situazione di conflitto, e l'espansione della presenza diretta dello stato in taluni ambiti, stimolata dalle necessità della ricostruzione delle strutture industriali e delle infrastrutture danneggiate o distrutte (fu il caso in particolare delle ferrovie, in più casi oggetto di nazionalizzazione). Anche la definitiva ascesa degli Stati Uniti al rango di grande potenza economica ebbe un ruolo nell'affermazione di tali orientamenti, facendoli apparire delle forme di tutela dell'industria nazionale necessarie e anche legittime (dal momento che gli USA praticavano a loro volta una politica decisamente protezionista). Com'è intuibile, le spinte in questa direzione risultarono particolarmente forti nei paesi meno sviluppati (come quelli dell'Europa orientale di nuova indipendenza), dove sussisteva la necessità di consolidare sistemi industriali dall'estensione ancora modesta e la limitata capacità d'iniziativa dell'imprenditoria chiamava lo stato a svolgere un ruolo di supplenza nei suoi riguardi.
In ambito finanziario, un tentativo non effimero di restaurare la situazione preesistente al conflitto fu compiuto dalla Gran Bretagna: come riferisce ancora Berend (2008), questa promosse il ritorno alla convertibilità in oro delle valute, nella speranza di ristabilire, assieme al tradizionale sistema di relazioni finanziarie internazionali, il ruolo da protagonista che aveva avuto al suo interno. Essa e le nazioni che la seguirono su tale strada (quelli scandinavi, i Paesi Bassi e la Svizzera), tuttavia, nel complesso risultarono più penalizzate che avvantaggiate dalla ritrovata fissazione del cambio con l'oro delle proprie monete, in quanto queste ultime subirono una rivalutazione che ridusse la competitività delle loro esportazioni.
Nel corso degli anni venti, pertanto, in seno alle società europee le aspirazioni ad un ritorno al passato andarono progressivamente venendo meno. Su di esse avrebbe poi calato il colpo di grazia la grande crisi innescata dal crollo borsistico del 1929, che avrebbe imposto ai governi d'intervenire nell'economia ancora più pesantemente di quanto fosse stato fatto nel decennio appena conclusosi.
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7. Le conseguenze dei trattati di pace
Un altro fattore negativo cui è stato attribuito grande rilievo, nell'analizzare le cause delle difficoltà postbelliche, è rappresentato dalla durezza delle riparazioni imposte alla Germania. Questa già all'epoca della firma dei trattati di pace fu oggetto della critica - solitaria, ma di grande risonanza - di Keynes (1920). Il grande economista inglese condannò senza appello la pretesa, soprattutto francese, di spogliare economicamente i vinti, sostenendo che dall'impossibilità per la Germania di riprendere il posto che aveva avuto in passato nel consesso europeo, quale creatrice di ricchezza e di rapporti commerciali, sarebbero derivati effetti depressivi a livello continentale. Anche gli storici dell'economia, esaminando a posteriori la situazione del dopoguerra, hanno dato generalmente un giudizio negativo degli accordi di pace: ad esempio, Hardach (1982) sostiene che le riparazioni, generando ingenti trasferimenti di ricchezza tra le nazioni, interferirono con i normali traffici di capitali in misura tale da avere un effetto destabilizzante sul sistema monetario internazionale, sortendo così l'effetto paradossale di danneggiare i loro stessi beneficiari. A dire il vero, la nocività delle scelte dei vincitori finì per diventare palese, inducendo i medesimi a correggerle: scrive Aldcroft (2004) che alla fine degli anni venti fu decisa una riduzione dei debiti di guerra. Lo stesso autore aggiunge però che tale intervento giunse troppo tardi, ossia quando il danno che quella politica era suscettibile di procurare era ormai stato inflitto.
Sempre Aldcroft (2004) esamina le ricadute economiche negative d'un altro aspetto dei trattati di pace: la formazione di nuovi stati nell'Europa orientale, conseguente allo smembramento dell'Impero d'Austria e alla sottrazione di territori alla Germania e alla Russia. Questa riorganizzazione politica causò in molti casi la rottura dei rapporti economici che in precedenza avevano collegato le regioni che ne furono interessate, troncando legami commerciali e separando settori industriali dipendenti l'uno dall'altro. Inoltre i nuovi stati dovettero integrare fra di loro territori di diversa provenienza, riorganizzando le vie di comunicazione (ad esempio, unificando reti ferroviarie prive di connessioni e a volte caratterizzate pure da diversi scartamenti), sostituendo nuove monete a quelle circolanti e approntando nuovi sistemi di legislazione civile, commerciale e fiscale. Tutto ciò pose notevoli difficoltà alle economie di tali paesi, che ne ostacolarono la ripresa nel periodo postbellico.
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8. Riforme sociali e rivoluzione
Cessate le ostilità, i problemi creati o acuiti dal conflitto (dalla diffusa indigenza alle difficoltà di reinserimento nella vita civile degli smobilitati) fecero sì che i paesi coinvolti nella guerra fossero scossi da profondi rivolgimenti politico-sociali, i quali a volte ebbero anche conseguenze sul piano strettamente economico. Ciò si verificò in particolar modo nell'area slava, dove la persistenza di rapporti economici e sociali particolarmente arretrati facilitava l'insorgere di tensioni di questo genere. Come riferisce Michel (1979), nell'Europa orientale sorsero dei partiti contadini, le cui lotte portarono al varo di riforme agrarie comportanti la confisca e la distribuzione ai coltivatori quantomeno di parte delle proprietà di maggiori dimensioni. Le trasformazioni più radicali si ebbero però in Russia, dove la lotta delle classi lavoratrici sfociò nell'instaurazione, per la prima volta nella storia, d'un regime comunista.
Nel caso russo la connessione fra guerra e destabilizzazione politico-sociale risulta particolarmente evidente: scrive Girault (1979) che gli esiti disastrosi della guerra avevano drammaticamente portato alla luce l'inadeguatezza del regime zarista, derivante dall'avere mantenuto in vita delle forme arretrate di organizzazione politica ed economica. La violenza, l'immiserimento e la fame finirono per determinare la sollevazione degli strati sociali inferiori, guidati da forze rivoluzionarie fra le quali assunse una posizione di preminenza la più radicale di esse, ossia quella bolscevica. Una volta preso il potere, i bolscevichi posero in essere in ambito economico una serie di riforme, che condussero alla nazionalizzazione di interi settori industriali e commerciali e alla confisca delle grandi possidenze (in un primo momento attribuite in piccoli lotti ai contadini, ma successivamente riorganizzate in grandi aziende a controllo pubblico). Proprietà privata dei mezzi di produzione e iniziativa privata in ambito mercantile finirono così per scomparire, lasciando il posto a un sistema di rapporti economici totalmente regolato dallo stato.
Concludendo, si può affermare che la prima guerra mondiale abbia contribuito in notevole misura a forgiare i caratteri fondamentali che avrebbero contraddistinto l'economia mondiale per buona parte del XX secolo. Al termine del conflitto, mentre la potenza dell'Europa risultava ormai ridimensionata, gli USA avevano consolidato la propria posizione di preminenza, il Giappone era a sua volta assurto ad attore di primo piano (quantomeno su scala regionale) e la Russia aveva intrapreso la costruzione d'un nuovo modello di società, informato a principi diversi da quelli capitalistici che avevano connotato sino ad allora tutti i paesi sviluppati. Inoltre il grado d'integrazione delle diverse economie nazionali aveva subito un ridimensionamento, per effetto del diffondersi del protezionismo e della minore dipendenza dall'estero di molti paesi, e nell'ambito della politica economica i principi liberisti, dominanti per buona parte del XIX secolo, avevano lasciato il campo alla fiducia nelle capacità dell'intervento pubblico.
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9. Approfondimenti nelle collezioni e nelle banche dati della Biblioteca
Le conseguenze economiche della prima guerra mondiale. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.