A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Per una geografia storico-economica. La Russia (Parte terza: il XVIII secolo)
Abstract
La Russia conobbe nel corso del XVIII secolo un apprezzabile progresso economico, essenzialmente grazie allo sviluppo dell'industria e dei commerci (mentre l'agricoltura rimase segnata da una bassa produttività). Tale sviluppo fu almeno in parte dovuto alle politiche di espansione territoriale e di riforme interne portate avanti dallo zar Pietro I e da alcuni dei suoi successori, come Caterina II. D'altra parte il Paese rimase connotato da una struttura feudale, che vedeva al vertice della piramide sociale una potente aristocrazia terriera e alla base una popolazione contadina ormai quasi interamente in condizione servile, mentre fra questi due estremi faticava ad emergere un ceto borghese.
1. Il regno di Pietro il Grande
3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
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1. Il regno di Pietro il Grande
· L'intento modernizzatore di Pietro
I decenni a cavallo del 1700 furono segnati dal regno di Pietro I: asceso concretamente al potere nel 1689 (anno in cui spodestò la sorella Sofia, che sino ad allora aveva esercitato la reggenza), lo zar passato alla storia come "Pietro il Grande" governò la Russia sino alla morte, avvenuta nel 1725. Sotto ogni aspetto - e dunque anche in ambito economico - il suo operato fu rivolto alla modernizzazione del Paese: ciò emerge con grande evidenza dalla descrizione delle sue politiche condotta da Gitermann (1963) e da Portal (1972).
· Il commercio
Un obiettivo tenacemente perseguito da Pietro fu quello di procurare alla Russia un accesso diretto al mar Baltico e quindi ai mercati dell'Europa occidentale. Ciò richiese una lunga guerra con la Svezia, che fu comunque coronata dal successo: infatti già nel 1703 poté essere iniziata la costruzione di Pietroburgo, nuovo centro urbano sito per l'appunto sulle rive del Baltico, destinato a diventare capitale dell'Impero. La vittoria militare non mancò di sortire gli effetti pratici auspicati dal sovrano: difatti sotto il suo regno si ebbe un notevole incremento del commercio con l'estero e in particolare delle esportazioni. Questi traffici, comunque, continuarono a svolgersi soprattutto tramite gli operatori inglesi e olandesi; permase quindi il problema della dipendenza della Russia dai mercanti stranieri, che potevano fissare per i beni che acquistavano e vendevano prezzi sfavorevoli alle proprie controparti russe. Inoltre, neppure allora si ebbe un significativo sviluppo d'un ceto mercantile nazionale: una parte rilevante delle attività commerciali non sottoposte al controllo d'intermediari esteri era infatti condotta dal governo. Ciò dipendeva in parte dal fatto che lo Stato si riservava il monopolio dell'esportazione e dell'importazione di numerosi beni, ma in parte anche dai limiti che segnavano l'attività dei privati. Infatti, gli imprenditori russi non conoscevano i mercati occidentali e avevano quindi difficoltà ad affermarvisi; essi inoltre risultavano penalizzati dal ricorso a metodi tradizionali (ad esempio non formavano grandi compagnie, come facevano i loro concorrenti occidentali).
· L'industria
Pietro il Grande promosse anche lo sviluppo di vari settori dell'industria. Tra questi vi fu ovviamente la cantieristica navale: una volta ottenuto il desiderato sbocco sul Baltico, lo zar ordinò la costruzione di una flotta che soddisfacesse le nuove esigenze militari e mercantili dello Stato. Un'attenzione particolare ricevette pure il comparto minerario e metallurgico, il cui progresso aveva un carattere strategico: infatti la guerra con la Svezia aveva privato la Russia della possibilità di importare armi da tale Paese, rendendo indispensabile il conseguimento dell'autosufficienza in tale ambito. Vennero pertanto effettuate ricerche di nuovi giacimenti di ferro e altri minerali e create fabbriche per la lavorazione dei metalli. Un terzo settore che Pietro tenne a sviluppare fu quello tessile, in ragione del fatto che le cospicue importazioni di stoffe estere causavano la fuoriuscita dal Paese di grosse somme di denaro.
Lo sviluppo dell'industria era però ostacolato dalla scarsità di imprenditori, di capitali, di tecnici e operai specializzati, nonché dalle difficoltà che incontrava la circolazione delle merci per effetto delle grandi distanze da percorrere e della mancanza di vie di comunicazione. Per rimediare alla scarsa consistenza dell'imprenditoria nazionale, Pietro attrasse imprenditori, tecnici e operai stranieri; inoltre invogliò mercanti e possidenti locali a investire nelle attività industriali, per un verso concedendo loro diritti di monopolio, sovvenzioni e dazi funzionali a proteggerli dalla concorrenza estera, e per l'altro colpendo tramite confische il mantenimento in forma liquida - e quindi il mancato utilizzo - dei grandi patrimoni. Fece anche sorgere delle imprese statali, obbligando dei mercanti ad assumerne la gestione.
Quest'ultima pratica rientrò in una sua più generale propensione ad avvalersi di metodi coercitivi per raggiungere i risultati voluti. Illuminante al riguardo è il caso dell'industria metallurgica. Il luogo in cui la produzione di armamenti era suscettibile di conoscere maggiore sviluppo era la regione degli Urali, dove abbondavano sia i giacimenti di ferro, sia le risorse forestali necessarie per la fusione del minerale (che all'epoca veniva effettuata in forni a legna); si trattava però di una zona scarsamente popolata. Per rimediare a questo problema Pietro costrinse dei fabbri originari delle regioni centrali della Russia a trasferirsi lì, così come impose ai contadini delle regioni circostanti gli Urali di andare a lavorare in quelle fabbriche per una parte dell'anno, creando in tal modo un ceto di operai e artigiani connotati da una condizione di sostanziale servaggio.
Lo zar affrontò anche il problema della carenza di vie di comunicazione, cercando di far realizzare dei canali che collegassero i grandi fiumi. Per la realizzazione di questa impresa furono stanziate ingenti risorse e venne impiegato un gran numero di uomini, anche in tal caso ricorrendo al lavoro forzato; tuttavia essa sostanzialmente fallì, in quanto solo una delle opere progettate fu portata a termine (il canale tra il Volga e la Neva). Analoga sorte, peraltro, toccò a molte delle iniziative industriali volute da Pietro, in quanto spesso le imprese da lui fatte nascere si mantennero in attività solo per un periodo limitato.
Si comprende pertanto come mai la maggior parte degli storici ritenga che sotto il suo regno si sia avuta soltanto una crescita modesta dell'industria: evidentemente né l'attivismo dello zar, né gli stimoli procurati al settore dall'accresciuta spesa pubblica negli ambiti delle forniture militari e delle costruzioni riuscirono ad avere la meglio sui citati fattori di carattere economico, sociale e ambientale che ostacolavano tale crescita. Questo giudizio, in verità, mal si concilia col fatto che a partire dal regno di Pietro la Russia risulta avere avuto una bilancia commerciale largamente attiva (e quindi essere stata meno dipendente dalle importazioni di manufatti stranieri). Al riguardo, tuttavia, Portal (1972) fa notare che la documentazione degli uffici doganali, cui ci si è rifatti per valutare l'interscambio commerciale, costituisce una fonte d'informazioni malsicura, in quanto - come sarebbe stato riconosciuto già nel XVIII secolo - per evadere gli alti dazi doganali gli importatori spesso attribuivano alle merci che trattavano un valore modesto o addirittura le introducevano nel Paese di contrabbando. Il saldo commerciale reale doveva pertanto essere meno favorevole di quello rilevato.
· Le finanze pubbliche
La conduzione della guerra con la Svezia, la creazione della flotta e i grandi lavori pubblici (non soltanto per i progettati canali, ma anche per l'edificazione della nuova capitale) accrebbero di molto il fabbisogno di denaro dello Stato. Per soddisfarlo Pietro ricorse a vari sistemi, di cui danno conto i due autori già citati e anche Forzoni (1991).
Inizialmente lo zar accese dei prestiti presso soggetti privati (in Russia all'epoca non esisteva ancora un debito pubblico, né poteva esistere, mancando le istituzioni bancarie in grado di gestirlo). Ben presto tuttavia, per evitare di accumulare debiti, preferì inasprire il peso delle imposte. Grande importanza ebbe l'introduzione, in luogo del tradizionale focatico (un'imposta che tassava i nuclei familiari), del testatico, che colpiva i singoli abitanti (in maniera indifferenziata, ossia senza distinguere fra possidenti, contadini liberi e servi). Tale imposta assicurò al governo una fonte cospicua e stabile di entrate, grazie anche alla realizzazione di un censimento, che permise di individuare con maggiore sicurezza rispetto al passato la consistenza e la dislocazione della popolazione. Inoltre, furono aumentate le tasse ricadenti su molti prodotti agricoli e di altro genere; aumentati furono pure il numero e i prezzi dei beni la cui vendita costituiva un monopolio statale, così come i prezzi delle licenze concesse ai privati per la conduzione di varie attività. Nella sua ricerca di nuove risorse lo zar si spinse anche ad avocare allo Stato gran parte del patrimonio terriero degli ordini monastici.
Il modo più semplice per dotare lo stato di maggiori mezzi finanziari rimaneva comunque quello di emettere nuova moneta: Pietro pertanto replicò il tentativo, già effettuato da un suo predecessore a metà del Seicento, di creare una valuta fiduciaria, il cui valore fosse slegato da quello del metallo in essa contenuto. Anche questa volta, però, tale politica ebbe come conseguenza il divampare dell'inflazione, con conseguenze negative per lo stesso governo, che si trovò a dover pagare a prezzi più alti tutti i beni di cui aveva bisogno per le proprie iniziative belliche e civili.
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· L'evoluzione della struttura sociale
I decenni successivi alla morte di Pietro il Grande furono segnati da significativi progressi economici, non accompagnati però da un'evoluzione altrettanto rilevante della struttura sociale del Paese. Sotto questo aspetto, anzi, per certi versi si manifestarono delle tendenze regressive (dovute alle politiche poste in essere dai successori di quello zar), le quali consolidarono il carattere feudale della società russa.
Come fanno notare Gitermann (1963), Portal (1972) e Riasanovsky (2003), nel periodo ora in esame si ebbe un ulteriore peggioramento della condizione dei contadini. I nobili infatti accrebbero i loro poteri su di essi, ricavando da ciò maggiori possibilità di sfruttarli; inoltre Caterina II, nel corso del suo lungo regno (1762-1796), a poco a poco trasformò la maggior parte dei contadini liberi in servi dei possidenti nobiliari. Secondo Gitermann, l'imperatrice seguì questa politica per venire incontro alle esigenze finanziarie dell'aristocrazia, la quale aveva necessità di accrescere le proprie rendite, per poter sostenere uno stile di vita sempre più dispendioso.
L'influenza che la nobiltà esercitava sulle decisioni governative è testimoniata anche dal fatto - di cui è sempre Gitermann a dare conto - che alcuni suoi membri riuscissero ad ottenere monopoli e licenze relativi alla gestione di attività industriali e commerciali. Ovviamente questo fenomeno restringeva gli spazi per l'ascesa di un'imprenditoria borghese: e infatti Portal rileva che la consistenza di questo ceto, pur conoscendo nel corso del secolo un certo incremento, rimase sempre modestissima. Particolarmente scarsa si mantenne la presenza dei borghesi nel settore industriale: le fabbriche più importanti, ossia quelle metallurgiche e le manifatture di stoffe per le uniformi dell'esercito, appartenevano quasi sempre ad aristocratici. Inoltre, quei pochi borghesi che riuscivano a inserirsi con successo in tale ambito finivano per essere nobilitati dagli zar: si verificava pertanto una sistematica erosione dello strato più alto della borghesia, che contribuiva a mantenere debole tale ceto. In verità, esso nel contempo beneficiava d'una crescita dal basso, dovuta all'inurbamento di molti contadini (sia liberi che servi), i quali si trasferivano nelle città per praticare il commercio o l'artigianato; ma la portata di questo fenomeno non dev'essere sopravvalutata. Al riguardo sono eloquenti le stime riportate da Riasanovsky, stando alle quali fra il 1724 e il 1796 la popolazione urbana sarebbe cresciuta soltanto dal 3 al 4% del totale.
Mentre la nobiltà vide crescere ancora la propria forza economica e la borghesia diede prova d'una pur modesta vitalità, il ceto ecclesiastico - come apprendiamo ancora da Riasanovsky - subì un ulteriore impoverimento. Infatti nel 1764 l'imperatrice Caterina II decretò la secolarizzazione delle terre di cui la Chiesa era rimasta in possesso dopo le confische già operate da Pietro il Grande. In cambio ad essa fu offerto un sussidio annuo, il quale però, oltre a rappresentare sin dal principio soltanto una frazione delle rendite che quelle proprietà le avevano garantito, nel corso degli anni andò perdendo ancor più il proprio valore, per effetto dell'inflazione. Le condizioni di vita dei pope e dei loro familiari si ridussero così, in molti casi, a livelli prossimi a quelli dei contadini.
In ultimo, va rilevato che nel corso del Settecento il rafforzamento delle attività industriali determinò una certa espansione della classe operaia. Portal tuttavia fa notare come sovente la manodopera delle fabbriche fosse costituita da servi, le cui prestazioni almeno in parte non venivano remunerate. Ciò si verificava non soltanto nelle aziende gestite da nobili, ma anche in quelle degli imprenditori borghesi, dal momento che il privilegio di acquistare servi da adibire a operai veniva concesso anche ai secondi. Lo stesso autore, comunque, sottolinea che in tale ambito il ricorso alla manodopera salariata andò nel tempo crescendo.
· L'agricoltura
Gitermann (1963) e Riasanovsky (2003) concordano nel ritenere che per tutto il XVIII secolo l'agricoltura abbia continuato ad essere segnata da tecniche e modalità organizzative antiquate, e che perciò si sia mantenuta poco produttiva persino nelle regioni dove i suoli e il clima presentavano le caratteristiche migliori. La responsabilità di questa situazione sarebbe da rinvenire nella persistenza della servitù della gleba, che abbattendo il costo del lavoro disincentivava i grandi proprietari dall'effettuare investimenti che pure sarebbero stati alla loro portata, impedendo così il superamento dei più antiquati metodi di coltivazione, il miglioramento della dotazione di strumenti agricoli e l'incremento del bestiame.
Dato questo immobilismo, nel corso del secolo l'incremento della produzione agricola fu reso possibile essenzialmente dalla messa a coltura di nuovi suoli, la quale a sua volta fu consentita in parte dall'espansione demografica e dalla conseguente colonizzazione di aree spopolate, ma in parte anche dalla conquista di nuovi territori già sottoposti a sfruttamento. Tali conquiste avvennero negli ultimi decenni del Settecento, ai danni della Polonia (la Russia partecipò alle tre spartizioni del territorio polacco, fra il 1772 e il 1795) e dell'Impero ottomano (nel 1783 si ebbe l'annessione del Khanato di Crimea). A parere di Gitermann, questa politica di espansione territoriale fu posta in essere in parte per procurare allo Stato nuove risorse fiscali, ma in parte proprio per consentire alla nobiltà di accrescere la propria dotazione di terre e servi e quindi di disporre d'una più cospicua produzione agricola. Secondo tale autore, a determinarla contribuì in notevole misura il fatto che la Gran Bretagna, per effetto della crescita della sua popolazione, fosse diventata un'importatrice di cereali: le terre più adatte per la coltivazione del grano si trovavano infatti ai confini occidentali e meridionali della Russia, ragion per cui un'espansione dell'Impero in quelle direzioni dovette essere vista come un mezzo per cogliere le opportunità di profitto che questa crescita della domanda britannica aveva fatto sorgere. Inoltre, va tenuto presente che per esportare i grani prodotti nelle regioni meridionali della Russia occorreva avere accesso al Mar Nero: questa necessità costituiva un ulteriore incentivo ad affrontare la Turchia militarmente.
· L'industria
Sia Portal (1972) che Riasanovsky (2003) rilevano come nel Settecento la Russia abbia beneficiato d'uno sviluppo industriale degno di nota. Notevole fu soprattutto quello dei comparti minerario, siderurgico e metallurgico, nei quali il Paese pervenne a una posizione di primo piano a livello continentale. Tale sviluppo fu in parte sostenuto dalla domanda estera: grandi quantità di lingotti di ferro venivano esportate tramite il porto di Pietroburgo nelle nazioni occidentali, dove venivano utilizzate per la produzione di armamenti. Questa dipendenza dal fabbisogno delle industrie straniere si sarebbe tuttavia rivelata un fattore di debolezza, in quanto alla fine del secolo esse - in particolare quella inglese - divennero in grado di fare a meno del ferro russo, grazie all'affermarsi di una modalità di lavorazione del minerale che rendeva non più necessaria la disponibilità di ampie risorse forestali (giacché essa comportava il ricorso al carbone anziché alla legna). Comunque, nel Settecento andò espandendosi anche la produzione di rame, la quale era invece destinata al mercato interno, servendo alla fabbricazione di campane e di monete. Come al tempo di Pietro il Grande, tali industrie sorsero soprattutto nella regione degli Urali, dove si concentravano le risorse minerarie da esse sfruttate.
Nella seconda metà del secolo si ebbe anche lo sviluppo di altre attività. Il comparto tessile, in particolare, vide non soltanto il moltiplicarsi di laboratori artigianali, ma anche la nascita di stabilimenti di grandi dimensioni. Al suo progresso molto contribuì la richiesta governativa di uniformi per l'esercito; inoltre accanto a tale produzione assunse rilievo quella di stoffe per vele e di corde di canapa, che divenne anche oggetto di esportazione.
In questo processo di sviluppo un ruolo importante fu sostenuto dall'iniziativa diretta dello Stato, il quale si adoperò in particolar modo nell'ambito dell'industria pesante, creando imprese che poi gestì direttamente o affidò a mercanti. Il problema, che spesso si presentava, della scarsità di manodopera operaia venne risolto impiegando in queste fabbriche contadini residenti sulle terre del demanio pubblico.
Nel secondo Settecento lo Stato cercò anche di promuovere l'iniziativa dei privati, abrogando varie restrizioni poste alla pratica delle attività manifatturiere (in particolare di quelle che penalizzavano la piccola nobiltà), imponendo dazi sui beni d'importazione e concedendo agli imprenditori diritti di sfruttamento su terre, foreste e miniere demaniali. Fra i soggetti privati protagonisti di iniziative manifatturiere vi furono molti possidenti: questi erano avvantaggiati dalla possibilità di reperire manodopera a costi bassissimi, in quanto potevano impiegare nelle proprie aziende i servi che già lavoravano nelle loro tenute agricole. Nel contempo si ebbe però lo sviluppo di un artigianato contadino rivolto non soltanto al soddisfacimento delle necessità familiari, ma anche alla vendita sui mercati locali. Tale attività - concernente utensili in metallo e oggetti in legno come slitte e barche - divenne per molti contadini quella principale; questi, come già accennato, preferirono allora trasferirsi nei centri urbani, dove le possibilità di trovare clienti erano maggiori. Si trattava di una scelta che potevano effettuare anche i contadini di condizione servile, a patto di disporre del denaro sufficiente per pagare il proprio padrone ed ottenere così da questo il permesso di lasciare il villaggio.
· Il commercio
Nel corso del secolo anche le attività commerciali andarono espandendosi. Riasanovsky (2003) vede nello sviluppo dei traffici interni soprattutto una logica conseguenza della crescita e della diversificazione dell'economia all'epoca in atto, che faceva sì che le regioni a vocazione prevalentemente agricola e quelle dove più era progredita l'industria si scambiassero le rispettive produzioni; ma riconosce anche il ruolo sostenuto da alcune scelte politiche, quali l'abolizione delle dogane interne (avvenuta nel 1753) e la costruzione di nuovi canali. Il contributo proveniente dalle politiche pubbliche è rilevato anche da Forzoni (1991), il quale ricorda come nel 1762 Caterina II avesse abolito tutti i monopoli, liberalizzato il commercio dei prodotti agricoli ed eliminato i privilegi accordati alle compagnie che trafficavano con i paesi orientali.
Secondo Riasanovsky, anche il commercio estero conobbe una forte crescita, soprattutto dopo la metà del Settecento. Oltre ai prodotti industriali prima citati, la Russia esportava verso i paesi europei canapa, lino, legna e varie altre materie prime. Le conquiste territoriali e la costruzione di porti sul Mar Nero permisero anche l'avvio delle esportazioni granarie, destinate tuttavia ad assumere grande rilievo solo nel secolo successivo. Le importazioni riguardavano tessuti di pregio e altri manufatti, nonché vari generi alimentari (ad esempio frutta, vino e zucchero). Questi commerci continuavano ad essere gestiti soprattutto da mercanti inglesi e olandesi. Altri flussi commerciali riguardavano il Medio Oriente, l'Asia centrale e anche l'India e la Cina.
Tale studioso sottolinea anche come per tutto il Settecento il valore delle esportazioni si sia mantenuto di molto superiore a quello delle importazioni. Al riguardo, però, dobbiamo tenere presente la valutazione di Portal (1972), per il quale le stime ricavabili dai documenti ufficiali portano a sottovalutare l'entità delle importazioni.
· Le finanze pubbliche
Secondo Forzoni (1991), alla morte di Pietro il Grande le finanze dello Stato russo si trovavano in gravi difficoltà, a causa delle difficoltà che incontrava il fisco nel riscuotere il testatico. La risposta dei successori di Pietro a questo problema fu quella di creare nuova valuta. Per lungo tempo si fece ancora ricorso alle monete metalliche, ma alla fine del 1768 fu introdotta quella cartacea, la cui emissione fu affidata a due banche di Stato appositamente costituite. La stampa di cartamoneta offrì un importante contributo al finanziamento delle guerre contro la Turchia e la Polonia, ma anche all'ampliamento delle spese di fasto della corte, di quelle per le opere pubbliche e alla concessione di prestiti alla nobiltà. Le cospicue emissioni di questo nuovo mezzo di pagamento ne determinarono però una progressiva svalutazione: alla fine del secolo gli veniva riconosciuto un valore del trenta per cento inferiore a quello del rublo d'argento. Esse peraltro non valsero ad evitare al governo zarista la necessità di ricorrere, per finanziare le proprie crescenti spese, all'accensione di prestiti interni ed esteri.
Alla fine del XVIII secolo la Russia presentava così un duplice volto: da una parte aveva mantenuto i propri caratteri politici e sociali tradizionali, data la permanenza d'un regime autocratico, di una potente aristocrazia terriera e di masse contadine in condizione servile, ma dall'altra aveva compiuto dei passi significativi sulla strada della modernizzazione economica, grazie allo sviluppo dell'industria e dei commerci.
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3. Riferimenti e approfondimenti bibliografici
Per una geografia storico-economica. La Russia (terza parte). Percorso bibliografico nelle collezioni della biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della biblioteca.