PERA - Metodo bipartisan per riforme e legge tv
25 Luglio 2002
PRESIDENTE Pera, il messaggio del capo del Stato alle Camere è stato interpretato in qualche modo come il segno di una anomalia: se il garante delle regole sente il bisogno di una iniziativa formale di questo peso, non sarà che le norme non funzionano o sono state violate?
«Voglio dire subito che condivido completamente il messaggio di Ciampi. Chi lo utilizzasse a scopo strumentale, lo svilirebbe. Ma siccome il messaggio è chiarissimo, io credo che il dovere delle istituzioni e delle forze politiche sia quello di cercare di attuarlo nel più breve tempo possibile».
Preferisce quindi una interpretazione minimalista: secondo lei il presidente Ciampi si è limitato a sollecitare la nuova legge sull'informazione?
«Il mio non è minimalismo. Dico anzi che l'obbiettivo di una nuova legge sul sistema dei media mi sembra assolutamente realistico».
Non crede che il capo dello Stato con la sua iniziativa abbia voluto segnalare anche un problema di regole, di democrazia, e in definitiva di funzionamento delle istituzioni?
«La questione delle regole, per la verità, è già all'ordine del giorno da tempo, potremmo dire da anni, sicuramente dalla scorsa legislatura. Io stesso nel mio breve, tacitiano, discorso di insediamento dissi che non avevo un agenda politica, perché era compito delle Camere darsela, ma che auspicavo il completamento delle riforme istituzionali. Il tema è stato poi riproposto in questi giorni e vorrei proprio che producesse degli effetti».
Ma non è contraddittorio denunciare, come ha fatto lei giusto qualche giorno fa, gli effetti negativi che la riforma federalista approvata dal centrosinistra quando era al governo potrebbe produrre oggi, e al tempo stesso rivolgersi all'opposizione per chiedere collaborazione in un nuovo progetto riformatore?
«Non capisco dove stia la contraddizione. Siamo tutti consapevoli che il sistema istituzionale della cosiddetta "Seconda Repubblica" è un ibrido, è imperfetto e ha bisogno di essere completato. Nella scorsa legislatura sono state condotte in porto due riforme della Costituzione: una formale, con l'approvazione, sia pure con una maggioranza esile, della legge sul federalismo; l'altra materiale: l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale e la trasformazione, di conseguenza, con il voto degli elettori, del leader della coalizione in premier scelto dai cittadini. Questo lavoro non può essere lasciato a metà. E' come se il Parlamento e le forze politiche nella scorsa legislatura avessero indicato due obbiettivi, oltre che decidere due riforme. L'obbiettivo di riformare lo Stato con il federalismo; e quello di dotare il premier di poteri più forti. Non ci resta che prendere atto di questi cambiamenti e lavorare per completarli. Fermarsi, o accampare scuse per non andare avanti, sarebbe un errore molto grave».
E lei crede davvero che in questo clima politico, con la maggioranza e l'opposizione l'un contro l'altra armate e divise al loro interno, ci sia davvero la possibilità di riprendere il discorso sulla Grande Riforma? Non ha visto le prime reazioni all'uscita di Bossi sul presidenzialismo e all'autocandidatura di Berlusconi?
«Io non penso che ci si debba fermare davanti a queste prime reazioni, mi sembra anzi che l'opposizione, al di là di una certa durezza delle posizioni espresse, stia cercando di capire quanto è forte la volontà della maggioranza di portare avanti le riforme; se si tratti insomma, per usare qualche ragionamento che ho sentito, di riforme "ad usum delphini", studiate cioè a vantaggio di Berlusconi, o se invece ci sia l'intenzione di riaprire un discorso più serio. Se le cose stanno così, è chiaro che si deve fare di tutto perché il confronto riprenda e diventi credibile».
Con quali strumenti? Una nuova commissione bicamerale?
«Lo strumento è l'articolo 138, il meccanismo previsto dalla Costituzione per le riforme istituzionali. Il lavoro svolto dalla Bicamerale, come ho già avuto occasione di ricordare, è stato eccellente, ma il confronto deve riprendere nelle commissioni e nelle aule parlamentari. Semmai, la lezione che ci viene dalla passata legislatura, è che le riforme non possono essere approvate a colpi di maggioranza e in un clima di contrapposizione. Per questo io dico che dobbiamo completarle, ma completarle all'interno di un accordo bipartisan con l'opposizione».
In che senso bipartisan?
«Nel senso più completo: una base di discussione, che può essere un disegno di legge, una trattativa alla luce del sole, con un gioco democratico di emendamenti, e poi l'approvazione del testo con una maggioranza più ampia di quella di governo. Anzi, mi correggo: la più ampia possibile».
Presidente Pera, è inutile negare che la contrapposizione tra maggioranza e opposizione è legata all'andamento sussultorio di tutta la Seconda Repubblica. Si vive in una sorta di campagna elettorale permanente, in cui il governo non rinuncia a demonizzare l'opposizione e l'opposizione punta a spaccare la maggioranza, augurandosi, magari, un «ribaltone». In un quadro del genere, che ha prodotto tuttavia a ogni scadenza elettorale un cambio di governo dal centrodestra al centrosinistra, e viceversa, che vantaggio avrebbero le due coalizioni a completare le riforme? E soprattutto: ne sarebbero capaci?
«E' vero, in Italia il bipolarismo esiste, ma è appeso alla coesione delle coalizioni. La coesione c'è al momento delle elezioni, poi diventa intermittente nel corso della legislatura, fino a far vivere i governi nel rischio permanente di uno smottamento verso il ribalto-ne, come è già accaduto due volte in passato. Bene: se si fanno le riforme questo rischio diminuisce».
Ne è sicuro? Non le pare che questo sia un virus congenito a un certo modo di essere della politica italiana?
«Non è questo il punto. Il problema è che con il bipolarismo ogni forza politica è portata a giocare necessariamente le sue carte all'interno della coalizione. Se il leader è dotato di poteri più forti, anche la vita della coalizione migliora. Si è mai chiesto perché nei comuni non ci sono ribaltoni fuorché in casi eccezionali? Il fatto è che se il sindaco si dimette si va ad elezioni, e se la maggioranza si presenta divisa perde. Lo stesso accade nelle regioni e anche lì non mi pare che siano avvenuti ribaltoni contro i governatori. Vorrei allora capire perché un premier scelto dagli elettori non possa avere a disposizione lo stesso strumento di stabilità e governabilità che hanno i sindaci e i presidenti delle regioni».
L'obiezione più semplice, quella che viene da più parti, è che il premier in questo caso sarebbe dotato di poteri troppo forti.
«Credo che dovremmo preoccuparci piuttosto del riequilibrio tra i poteri delle regioni e quelli del governo centrale. In qualche caso è possibile per le regioni, a norma di legge, ostacolare l'attuazione del programma di governo in Parlamento; in altri casi è certo che í contrasti tra esecutivo centrale e governi locali creeranno un contenzioso inestricabile davanti alla Corte costituzionale. Tutto ciò, sia chiaro, non lo dico per sostenere che ai governatori si è dato troppo potere, ma per sottolineare la necessità di un luogo di confronto istituzionale tra le esigenze delle regioni e quelle del governo e una loro graduale contemperazione. Nient'altro e torniamo alle riforme - che una camera delle Regioni e un nuovo ruolo per il Senato».
Non ha detto però che vantaggi avrebbero le forze politiche dal compimento delle riforme, e se avranno la capacità di farle.
«Il vantaggio è evidente per tutti, a partire dalle forze maggiori delle due coalizioni. Per Forza Italia e Ds il consolidamento formale del bipolarismo rafforza il legame chimico che tiene legate alle alleanze le forze periferiche. Per le ali estreme, il vantaggio di un bipolari-smo istituzionalizzato è invece quello di porsi al riparo da delegittimazioni che potrebbero derivare da rinnovate "conventio ad excludendum" o da nuove aggregazioni centriste. Infine, in uno schema del genere, anche i partiti centrali aumenterebbero la loro forza: catturando l'elettorato mobile che di volta in volta dà la vittoria all uno o all'altro schieramento, il loro potere sarebbe destinato a crescere».
Presidente era, ammettiamo che nel centrodestra ci sia una vera volontà di far ripartire il discorso delle riforme. La risposta del centrosinistra però, finora è stata: non si può discutere insieme di istituzioni in un paese nel quale esiste un conflitto di interessi così evidente.
«Il problema mi pare riguardi soprattutto i Ds, il partito perno dell'Ulivo. Nel congresso di Pesaro i Ds hanno scelto una identità riformista e su questa linea hanno eletto segretario Piero Fassino. Poi è venuta la stagione dei "girotondi", e poi ancora il confronto, lo scontro e adesso sembra la tregua con Cofferati. Ora sono a un bivio, ma non c'è dubbio che un rafforzamento del bipolarismo sia nel loro interesse. O si comportano come a loro tempo fecero i socialisti inglesi, e cercano di recuperare le frange di contestazione all'interno di un meccanismo bipolare, o rischiano di essere trascinati su una linea diversa da quella riformista battezzata a Pesaro».
Sembra quasi che lei veda nei Ds l'ostacolo più alto per fare le riforme...
«No, io vedo nei Ds l'interlocutore più interessato e più forte. L'ostacolo maggiore è lo sfrangiamento e la confusione rispetto alla scelta riformista».
Presidente Pera, ma qui è D'Alema, non Nanni Moretti, a dire di no all'offerta del centrodestra.
«Io mí rivolgo a lui e, non solo per obbligo di coerenza; lo richiamo ad avere un ruolo di interlocutore e protagonista. Mi meraviglio che dica che le riforme non si possono fare, proprio lui, che come presidente della Bicamerale ha dimostrato il contrario».
Ma non crede che ci sia una logica nel dire che Berlusconi potrebbe adoperare questa proposta come diversivo, per superare un momento di difficoltà del governo in altri settori, o per legittimare con il no dell'opposizione una grande riforma fatta su misura per lui?
«Vale per le riforme l'aneddoto del dito di chi indica la luna: solo lo sciocco guarda il dito, mentre le riforme sono la luna. Mi colpisce che ad osservatori politici solitamente molto attenti sia sfuggita l'importanza dell'iniziativa di Bossi sul presidenzialismo. Ma come: l'uomo che in tempi anche recenti ha parlato di "Roma ladrona", di "Padania", di "secessione", viene qui, al Senato, davanti al capo dello Stato, e propone un potere centrale forte, una formula presidenziale purché accompagnata da un autentico federalismo e da una riforma elettorale con iniezioni di proporziona-lismo, Bossi viene qui a dirci tutto questo, e rischiamo di lasciarlo cadere nell'indifferenza? Stiamo attenti, quando Bossi più di dieci anni fa cominciò a parlare di federalismo fu trattato come una specie di pazzo, eppure dieci anni dopo tutti dovettero accorgersi che aveva ragione lui».
Ma se il giorno dopo l'annuncio di Bossi, con un capo dello Stato in carica e in piena forma, Berlusconi annuncia che è pronto a candidarsi alle presidenziali, prima ancora che della riforma si cominci a parlare, dovrà ammettere che qualche dubbio all'opposizione che dovrebbe votare questa riforma possa venire.
«Tutti i dubbi sono legittimi, ma al centrosinistra vorrei ricordare l'esperienza francese. I socialisti si opposero alla elezione diretta del presidente della Repubblica voluta da De Gaulle, e poi proprio con quel sistema conquistarono la guida del paese. Vuol dire che anche quella riforma così contestata non era stata fatta a vantaggio del leader che la propose. Aggiungo che se si fanno le riforme è realistico che funzioneranno dalla pros-sima legislatura, nella quale è difficile prevedere oggi chi governerà».
Presidente, qui torniamo al messaggio di Ciampi. Sarà un caso, ma il capo dello Stato ha deciso di inviarlo dopo il rilancio del presidenzialismo e l'autocandidatura di Berlusconi...
«Le ho già detto che non voglio partecipare al gioco delle interpretazioni del messaggio del presidente. Lo condivido e basta. Quanto ai contenuti, vorrei ricdrdare quel che dissi al congresso della Federazione della stampa qualche tempo fa: pluralismo e informazione secondo me sono l'essenza della democrazia. In seguito ho anche aggiunto che la strada dellaprivatizzazione della Rai è, sempre a mio parere, la più giusta per assicurare il pluralismo, perché se ci sono più attori in campo è logico che vi sia più pluralismo. Nel messaggio si segue una strada diversa. Ma va bene anche quella: discutiamo di tutto. Evviva il messaggio di Ciampi, se può servire a trovare finalmente una soluzione per il problema dell'informazione».
Ma secondo lei, esistono le condizioni anche per fare una legge sulle Tv? Si ricorda che cosa accadde in questo campo nella scorsa legislatura, quando alla fine, per sfinimento, tutto fu accantonato, o quando la legge Mammì fece cadere un governo?
«Io spero che questa volta vada diversamente. Il problema esiste, tutti lo riconoscono, una legge del genere potrebbe essere la prima occasione per sperimentare quel metodo biparti-san che ho proposto per le riforme. Una legge sull'informazione non può che essere approvata con la maggioranza più larga possibile. Cominciamo da qui, il resto verrà. Non possiamo più tenere il sistema a bagnomaria. Non perdiamo questa occasione».