Il Presidente: Articoli

La legge sul conflitto di interessi va cambiata al Senato in tre punti

Corriere della sera

10 Marzo 2002

ROMA (f. de b.) -Nella palude maleodoran­te della politica italiana, ingombra di sospetti e insulti, è un piacere conversare con Marcello Pera. Non solo perché il presidente del Senato è una persona gentile e (rara avis) rispettosa del ruolo, talvolta scomodo, della stampa indi­pendente, ma anche perché è un moderato e un liberale con un forte senso delle istituzioni. Eletto con Forza Italia e designato al ministero della Giustizia, questo professore universitario di 59 anni, seguace di Popper, si è trovato d'im­provviso, una notte, candidato alla seconda ca­rica dello Stato e sarà da iriartedì, per la prima volta, supplente del presidente della Repubbli­ca, per qualche giorno in Sudafrica. Quel che colpisce e amareggia di più Pera, nell'attuale si­tuazione politica, è il baratro della delegittimazione reciproca in cui, maggioranza e opposi­zione, accapigliandosi, si sono lasciate trasci­nare.

E uno spiraglio di luce non si vede?

«Purtroppo no. Ma è una costante del Paese: da Mussolini a Craxi, passando anche da De Gasperi ad Andreotti, noi facciamo fatica a ri­conoscere laicamente il ruolo del potere».

Ovvero?

«A credere che una maggioranza democrati­camente eletta abbia il diritto di governare e un'opposizione possa fare il suo dovere senza pensare che chi ha vinto le elezioni sia un usur­patore. Invece in Italia si passa tranquillamen­te dall'adulazione del potere al sospetto e al di­sprezzo, all'insulto e al tradimento. Leggo con tristezza che Violante, ex presidente della Ca­mera, parla persino di dittatura. Mi chiedo: il suo senso delle istituzioni dov'è finito?»

D'Alema le ha dato del capobastone.

«Anche lui, del quale apprezzo per altri versi il coraggio e la coerenza, finisce per ascoltare troppo la piazza. Ma in piazza non si fa politica. E tanto meno una buona politica».

Presidente, ma anche voi, quando eravate al­l'opposizione, parlavate di golpe e di regime.

«Sì, è vero, e sbagliammo. Eccessi beninteso ci sono stati e ci sono da una parte e dall'altra. Ma la vera questione è che la nostra democra­zia bipolare è rimasta incompiuta. E la crisi della sinistra non fa che aggravarla. Ho giudicato la linea di Fassino. moderata e dialogante, del congresso di Pesaro, una conquista della no­stra democrazia. Oggi siamo ai girotondi e ai comici, all'avanspettacolo della politica...».

Ma la maggioranza non è esente da responsa­bilità. Qualche legge è sembrata badare più agli interessi di una parte, non di tutto il Pae­se.

«Senato e Camera hanno lavorato molto e be­ne. Penso solo alle leggi su economia, infra­strutture, trasporti, scuola. Forse qualcosa è stato sbagliato con la legge sulle rogatorie in­ternazionali, nel senso dei tempi, magari troppo affrettati, ma non bisogna dimenticare che nella precedente legislatura la vecchia maggioranza chiese addirittura di riaprire il Parlamen­to per approvarla. E forse non è vero quello che diceva l'avvocato Agnelli».

La battuta sulla sinistra che in Italia è chia­mata a fare le riforme della destra?

«Esatto, la sinistra, nella scorsa legislatura, si è dimenticata di fare molte cose di sinistra».

In questi ultimi mesi, e non solo nella vicen­da Rai, i presidenti delle due Camere hanno dato la sensazione di interpretare in diverso modo il ruolo di garanzia...

«No, l'abbiamo fatto con uguale rigore e im­pegno. La sensazione di cui lei parla, però, esi­ste e ha un fondamento. Casini è il presidente della Camera e anche il leader di un partito po­litico della maggioranza. Io no: ho un ruolo so­lo. Questa circostanza fa sì che la mia mediazio­ne sia solo istituzionale e non anche politica. E la mediazione istituzionale deve concedere sì tutti gli spazi all'opposizione, ma - soprattut­to in un sistema bipolare - garantire in primo luogo che la maggioranza porti avanti il suo programma, buono o cattivo che sia agli occhi del presidente. Ma in realtà sa che cosa rende terribilmente difficile il ruolo mio e di Casini?».

Posso immaginarlo...

«I regolamenti delle Camere. Antiquati: im­pediscono alla maggioranza di governare real­mente e garantiscono falsamente l'opposizio­ne; sono ritagliati su misura per tempi conso­ciativi ormai sepolti. Faccio una proposta, cam­biamoli. Ma per la prossima legislatura, in mo­do che non si sappia subito chi potrà avvantaggiarsene».

Martedì approderà in commissione al Sena­to il contestato provvedimento sul conflitto d'interessi, quello che ha provocato l'abbando­no dell'aula dell'opposizione, l'Aventino.

«Guardi l'Aventino è un colle troppo affolla­to, il paragone con il 1924 è fuori luogo, anche il Polo abbandonò l'aula nella: scorsa legislatura. Basta, d'ora in poi l'Aventino resti deserto, la metafora finisca nei libri di storia e si torni al confronto diretto».

Quella legge, lei ha detto, verrà cambiata. Come?

«Il Senato, stia tranquillo, non è la fotocopia­trice della Camera. Io personalmente mi augu­ro, e il ministro Frattini ha fatto in questo sen­so delle aperture significative, che la legge pos­sa essere migliorata in tre punti. Prima di tutto prevedendo un sistema sanzionatorio autono­mo per le aziende del premier o dei ministri, ol­tre a quello previsto dalla legislazione anti­trust, che punisce l'abuso di posizioni dominan­ti. Poi nella scrittura di un capitolo ad hoc che riguardi chi possiede mezzi d'informazione che per una democrazia sono più importanti, con tutto il rispetto, della produzione di panettoni».

Con sanzioni specifiche?

«Certo, con un maggiore coinvolgimento del­l'Antitrust, l'autorità che regola la concorren­za, e di quella che si occupa delle telecomunica­zioni. Il terzo punto riguarda l'incompatibilità a ricoprire cariche pubbliche. E' chiaro che pre­vederla per chi possiede delle aziende è incosti­tuzionale. Poi, mi creda, sarebbe un tentativo surrettizio e paradossale di cacciare per legge chi è stato liberamente eletto. L'obbligo della vendita, alla Sartori per intendersi, non è previ­sto in Europa. Io dico laicamente (ecco svelato il mistero della mia soluzione popperiana): trial and error, procediamo per tentativi, sen­za la presunzione di trovare subito una soluzione definitiva. Diamo retta a Cassese e soprat­tutto a Caianiello, facciamo riferimento anche alla legge sulla par condicio. Possiamo trovare una soluzione efficace, ma non punitiva».

Non si può non parlare di conflitto d'interes­si senza parlare di Rai.

«Le nomine del consiglio d'amministrazione costituiscono una buona soluzione. Certo le po­tevamo fare una decina di giorni prima. Adesso però è importante un altro discorso»

Quale?

«Vede, il sistema televisivo in Italia è costitui­to da due anime in un nocciolo. Un duopolio do­ve vi è una concorrenza solo apparente. Per la democrazia e per contribuire anche a risolvere il problema del conflitto d'interessi è ora di pri­vatizzare la Rai o almeno di mettere subito sul mercato una rete pubblica e una privata e favo­rire così la nascita del terzo polo. Ma quando parlo di privatizzare la Rai mi voltano le spalle tutti, maggioranza, opposizione, sindacati. Re­stiamo solo io e il senatore Debenedetti... Io penso invece che soprattutto l'attuale governo dovrebbe agire in questa direzione».

Lei è l'autore del programma sulla giustizia della Casa delle libertà. Si farà mai una rifor­ma in Italia in questo clima e con un presiden­te del Consiglio sotto processo?

«Io vorrei che in Italia si parlasse di giustizia come discutiamo di trasporti o di scuola. Purtroppo, spesso la giustizia è la prosecuzione della politica con altri mezzi».

Ma quando si mette in discussione l'onestà e l'indipendenza dei magistrati e si chiede di spostare il processo di Milano per legittima su­spicione...

«Io avrei auspicato, come si è fatto negli Sta­ti Uniti per Clinton e in Francia per Chirac, che venisse fischiato un time out, una sospensione. L'imputato non si sottrae, si differisce il proces­so. Eviteremmo il rischio che un legittimo con­trollo giudiziario si trasformi in un improprio controllo politico sull'esecutivo. Io rispetto l'in­dipendenza della magistratura, i processi si de­vono fare, ma non devono trasformarsi in un tentativo di ribaltare il voto del 13 maggio. E neppure ingenerare questo sospetto».

Le sembra giusto che parlamentari della maggioranza siano anche difensori del pre­mier?

«Non ci vedo nulla di scandaloso. E non è scandalosa la richiesta di remissione del pro­cesso. Un imputato, anche se eccellente, deve potersi avvalere di tutti gli strumenti di difesa previsti dalla legge».

Resta la sensazione, per alcuni il sospetto, che un uomo politico o di governo sfrutti le pre­rogative dell'esecutivo per sottrarsi al potere giudiziario, indipendente per dettato costitu­zionale.

«Chi si difende, con tutti i mezzi leciti, non mette in dubbio l'indipendenza della magistra­tura. La realtà è che da dieci anni una parte del­la magistratura si occupa di un caso solo, anzi di una sola persona. Il clima giacobino è così de­vastante e diffuso che anche coloro che collabo­rarono con me al programma di riforma della giustizia oggi hanno cambiato idea».

A chi si riferisce?

«Ad esempio il presidente dell'Associazione magistrati, Gennaro: condivise con me la pro­gressione delle carriere in base al merito e la ri­forma, con soggetti laici di nomina regionale, dei consigli giudiziari. A Salerno, al congresso dei magistrati, ha cambiato idea. E così alcuni membri di Magistratura democratica che colla­borarono con me al programma. Si dovrebbe smettere di sospettare che anche nella più pic­cola riforma vi sia un attentato all'indipenden­za della magistratura. Vogliamo parlare dei pubblici ministeri?».

Parliamone.

«Sono un mostro a tre teste, sono insieme or­gano giurisdizionale, elemento d'accusa e capo della polizia giudiziaria. Giudici, avvocati dell' accusa e poliziotti. Non c'è un esempio simile in Europa. Non uno. E le dico che credo assolu­tamente utile uno spazio giudiziario europeo e un mandato di cattura unico. Ma in questo sia­mo distanti, e di molto, dall'Europa. La Con­venzione dovrà occuparsi anche di questo».

Lei che modello d'Europa preferisce?

«Io ho usato la formula strong but light, forte ma leggera, Forte in alcune funzioni essenziali, con prevalenza delle politiche comunitarie su quelle intergovernative: nell'economia, nella si­curezza esterna e interna. Leggera nelle altre funzioni, con un massiccio ricorso al principio di sussidiarietà e una forte devoluzione verso gli Stati e verso le Regioni».

E lei è d'accordo sul voto a maggioranza nel­l'Unione che non trova molti sostenitori nel centrodestra?

«Per le funzioni essenziali sì»

Piacerà a Bossi e alla Lega?

«Credo di sì, un modello confederale non un superstato, con una doppia devoluzione, verso l'alto (Bruxelles), verso il basso (Stati e Regio­ni). Per intenderci, la proposta che a me attual­mente piace di più è quella formulata dal mini­stro degli Esteri tedesco Fischer».

In questo clima di sospetti e di accuse, di ri­forme istituzionali non parla più nessuno.

«E si corre un grande rischio. Che nessuno ve­de».

Quale?

«Il federalismo nel nostro Paese bene o male è stato introdotto. E altro se ne sta per intro­durre. Mancano però le leggi cornice. E fra un po' fra Regioni e Stato si aprirà una grande lite. La Corte Costituzionale, suo malgrado, sarà co­stretta a trasformarsi in una sorta di organo le­gislativo del federalismo. Un paradosso: ecco il governo, involontario, dei giudici. Dove sono i partiti? Perché non ne parla nessuno? E poi dobbiamo rafforzare il potere esecutivo, se no i presidenti del Consiglio, di destra o di sinistra che siano, saranno sempre alla mercé in Parla­mento di quattro o cinque deputati o senatori che passano da una parte all'altra. Si scelga: una repubblica presidenziale o si completi il percorso del premierato con la vera elezione di­retta del presidente del Consiglio».

Non mi sembra vi sia un clima politico favo­revole a grandi disegni costituzionali. Qual è, a suo giudizio, lo stato della coalizione di mag­gioranza?

«Ha governato bene, ha fatto molto, i sondag­gi la danno in crescita, così come i consensi per Berlusconi. Vedo piuttosto affiorare un'illusio­ne neocentrista, come se qualcuno non volesse arrendersi, neppure adesso che il Ppi si è sciolto, alla fine della Democrazia Cristiana. Una tentazione che si manifesta nei timori di adot­tare soluzioni nette, decisioni forti. Un esem­pio? Tutta la discussione sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sulla maggiore flessibi­lità del mercato del lavoro. Il programma però va rispettato. Invece vedo emergere strane fi­gure di mediatori, nostalgici delle mani libere del proporzionale e delle manovre di corrido­io...».

Che cosa e chi l'ha delusa di più da quando è presidente del Senato?

«La mancanza, soprattutto nell'opposizione, di interlocutori forti e uniti».

Chi ammira di più nell'opposizione?

«Fassino, ma lo vedo schiacciato fra comici e intellettuali. Dovendo scegliere: meglio i comi­ci. Noi siamo ancora un Paese che crede che gli intellettuali debbano avere un ruolo politico. Ai professori, magari toscani che fanno il giro­tondo, e glielo dice un professore toscano, io preferisco le massaie. Sono più concrete».



Informazioni aggiuntive

FINE PAGINA

vai a inizio pagina