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.:: Dati anagrafici ::. |
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Data di nascita: | 08/11/1808 |
Luogo di nascita: | Cagliari |
Data del decesso: | 14/05/1877 |
Luogo di decesso: | Torino |
Padre: | Emanuele, marchese, senatore |
Madre: | SANJUST DI SAN LORENZO Teresa |
Nobile al momento della nomina: | Si |
Nobile ereditario | Si |
Titoli nobiliari | Marchese di Villamarina
Barone dell'Isola Piana
Cavaliere
Nobile
Nobiltà indipendente |
Coniuge: | TAPARELLI D'AZEGLIO Melania, figlia di Roberto, senatore (vedi scheda) |
Coniuge: | BOYL DI PUTIFIGARI Caterina |
Figli: | Emanuele, segretario di legazione
Isabella |
Fratelli: | Francesco
Chiara
Teresa |
Parenti: | Emanuele Thaon di Revel, genero
TAPARELLI D'AZEGLIO Roberto, suocero (vedi scheda) |
Titoli di studio: | Laurea in giurisprudenza |
Presso: | Università di Torino |
Professione: | Diplomatico |
Altre professioni: | Militare di carriera (Esercito) |
Carriera: | Tenente (1838)
Maggiore generale (1838-1848)
Incaricato d'affari per il Granducato di Toscana e i ducati di Parma e di Modena (23 maggio 1848-[al 9 gennaio 1849])
Inviato straordinario e ministro plenipotenziario per il Granducato di Toscana e i ducati di Parma e di Modena (9 gennaio 1849-[al 31 dicembre 1852])
Inviato straordinario e ministro plenipotenziario in Francia (29 agosto 1852-[al 28 marzo 1860])
Rappresentante lo Stato sardo con Camillo Cavour al Congresso di Parigi (1856)
Incaricato d'affari nel Regno delle Due Sicilie (1860) |
Cariche amministrative: | Presidente della Deputazione provinciale di Milano (1863-1867)
Consigliere comunale di Torino (1869-1877) |
Cariche e titoli: | Aiutante di campo alla Segreteria di guerra e di marina (1833-1841)
Luogotenente generale di SM il Re in Lombardia (1859-1860)
Prefetto di Milano (31 marzo 1862-13 febbraio 1868)
Colonnello di cavalleria
Segretario del Consiglio di conferenza del Regno di Sardegna |
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.:: Nomina a senatore ::. |
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Nomina: | 05/14/1856 |
Categoria: | 07 | Gli inviati straordinari
dopo tre anni di tali funzioni |
Relatore: | Federigo Sclopis di Salerano |
Convalida: | 06/07/1860 |
Giuramento: | 26/02/1861 |
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.:: Onorificenze ::. |
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Commendatore dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro 2 ottobre 1849
Gran cordone dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro 28 aprile 1853
Cavaliere dell'Ordine supremo della SS. Annunziata 9 novembre 1860
Grande ufficiale dell'Ordine della Legion d'onore (Francia)
Gran Cordone dell'Ordine del Leone e del Sole (Persia)
Gran cordone dell'Ordine dei Guelfi di Hannover (Prussia) |
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.:: Atti parlamentari - Commemorazione ::. |
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Onorandissimi miei Signori.
Il marchese Salvatore Pes di Villamarina, tuttoché prossimo ai settant’anni, aitante ancora compariva e gagliardo quando la morte, il 15 dello scorso maggio, lo sopraprese. Voi sapete che la repentinità di codesta notizia non consentì che di subito si potesse narrare come e perché il marchese Salvatore abbia ottenuto e seggio e fama in quella illustre legione di gentiluomini Subalpini, alla quale nessuno oserebbe niegare molta parte di merito nelle presenti nostre fortune.
Era nato il 31 dell’agosto 1808: figliuolo a tale uomo di Stato, di cui sarebbe difficile il giudicare se alcun altro vi avesse mai o suddito più devoto o interprete più sagace dei magnanimi intenti di Re Carlo Alberto: figliuolo, io dico, al marchese Emanuele, che, Ministro per le armi di sì piccolo Stato, organò provvidissimamente un esercito, non grande pel numero (ciocché non avrebbero comportato le necessità agrarie e i limiti del bilancio), ma forte per disciplina, per antiche tradizioni, per abnegazione meravigliosa; quell’esercito che nel 1848, dai campi lombardi, poté far presagire all’Europa ch’ei stava per essere l’antiguardo di una nazione richiamata alla vita.
Toccato appena l’ottavo anno di età, il marchese Salvatore dalla nativa Cagliari si tramutava a Torino. Ricevette la prima educazione, secondo il vezzo dei tempi, in quel Collegio dei Gesuiti; e tuttavia gli Ignaziani non valsero ad infiacchirgli il cuore o il carattere. Indi, studiato il gius civile e il canonico nella Università torinese, guadagnava nel 1828, nonché la laurea in utroque, la toga di dottore collegiato di quella Facoltà legale. Pose altresì qualche cura alla pratica dei piati forensi; ma per appena un biennio; perciocché gli premesse di volger l’animo più assiduamente alle regole che devono governare e in pace e in guerra le relazioni tra le Potenze civili.
Dal 1830 al ‘32 frequentò col titolo di volontario il Ministero sopra gli affari esteri, che era in mano al maresciallo conte La Tour. Né perciò venne meno al costume di quasi tutti i giovani di quel patriziato; i quali niuna cosa reputavano più congruente alla nobiltà della stirpe, niuna amavano meglio, che di addestrarsi alle arti marziali, e raggiungere un qualche grado nelle milizie del Re. Ond’ei fu dapprima sottotenente nella brigata Casale, e, poco appresso, tenente nei dragoni di Aosta cavalleria.
Frattanto, d’accosto al padre, veniva istruendosi degli uffici che spettano al Dicastero della Guerra; sino a che, nel ‘44, si vide assunto all’incarico di Segretario delle Conferenze de’Ministri, solite tenersi alla presenza del Sovrano: gelosissimo e malagevole incarico quanto altro mai, se pensiamo alle discordie che tra i Ministri fervevano circa i bisogni e gli interessi dello Stato e del Principe; tantoché gli uni volevano che la felicità dello Stato e del Principe avesse tutta a consistere nel mantenersi sempre ossequenti, e, secondo le occasioni, adiutori dello straniero che prepoteva nella penisola; e gli altri invece, seguitando le parti del Villamarina, il quale avea indovinato a che Stella mirasse ne’ suoi silenzi il Re cavaliere, verso a lei si ingegnavano di indirizzare (avvegnaché con austere circospezioni) gli ordini civili e militari del Regno.
Io non dubito di arguire che appunto nel cozzo di quelle emulazioni, di quelle rivalità tra due scuole, tra due principî, e per poco non direi tra due secoli, il giovane Segretario attingesse gli avvedimenti, e invigorisse le convinzioni, che quinci il sospinsero e sempre il sostennero sulla via maestra, in cima alla quale la dinastia di Savoia doveva raccogliere la corona d’Italia.
Né voglio tacere che i verbali delle Conferenze, mano mano da lui compilati, erano per volontà espressa del Re dati a leggere e meditare a’due preziosissimi adolescenti, Vittorio Emanuele Duca di Savoia e Ferdinando Duca di Genova; i quali così, innanzi tratto, han potuto assaggiare i disegni che a buono e savio Principe convenissero per cattivarsi obbedienza ed amore da’ suoi, e suscitar desiderio di sé medesimo nei popoli convicini.
Sorgeva sul principio del ‘48 il sole della italica redenzione. Carlo Alberto, scolpito il suo nome a cifre indelebili nelle tavole dello Statuto, dai margini del Ticino bandiva la santa guerra. Il marchese Salvatore di Villamarina chiese, pregò, che anche a lui, già creato Maggiore di cavalleria (nella quale più tardi diventò Colonnello), fosse conceduto l’onore di perigliarsi a rimpetto del quadrilatero. Ma la preghiera fu indarno. Avea pur dianzi dato indizio di speciale attitudine alle faccende politiche, in qualche gita commessagli a Parigi, a Berlino, a Milano. Il Re e i nuovi Ministri pertanto deliberarono di usufruttare l’opera sua ne’ negozi diplomatici che prossimamente occorrevano con altri Governi delle divise nostre regioni. Ed eccolo incaricato d’affari a Firenze.
Certo, che non gli è stato mestieri di aggiunger esca al patrio ardore delle genti toscane. Ma con che studio, con che alacrità, non ha egli dovuto industriarsi affinché Leopoldo Granduca, rotti una volta gli indugi, licenziasse i suoi soldati e le bramosissime schiere de’ volontarî a valicar l’Apennino, e secondare gli animosi conati del regio esercito, e conquistar quelle laudi onde sono immortali i difensori di Montanara e di Curtatone!
A brevi felicità susseguirono enormi sciagure. Cominciato appena l’agosto, il nemico «cui fu prodezza il numero» si insediò nuovamente nelle terre dalle quali il valore dei pochi ma intrepidi lo avea reietto. I capitoli di Milano hanno indetto la tregua.
Da quello istante crebbero fuormisura le difficoltà pel marchese Salvatore, al quale il Governo del Re avea rifermata la commissione presso il Granduca: crebbero fuormisura, conciossiaché, se poco prima a Leopoldo non era bastata la fronte di apertamente disdire al suo popolo che gridava «via lo straniero», ora il pusillo non osava più simulare affetti diversi da quelli di principe austriaco che gli covavano nel sangue e nell’anima.
I moti livornesi; il Ministero del Montanelli e del Guerrazzi; la Costituente, da Leopoldo accettata a un tratto e mentita; la dipartenza di lui per a [sic] Siena e a [sic] Porto San Stefano; gli incitamenti e le foghe delle Corti di Vienna e di Napoli ch’ei se ne andasse a Gaeta nelle braccia del Borbone e del Papa; la idea del Gioberti che, per istornare quegli intrighi, si dovesse spedire un buon polso di Piemontesi a buttar giù la repubblica fiorentina; il plauso di Leopoldo a codesta idea, e, un attimo dappoi, la repulsa; la sua fuga e il ricovero nella rocca del Tirreno, dove tramavasi l’eccidio di ogni italica libertà: e d’improvviso la tremenda notizia della catastrofe di Novara; e lo sgomento dei devoti alla causa nazionale; e le commozioni della plebe contro a chiunque era in voce di patriota; e le orgie [sic] insolenti della reazione; ... tutti questi eran casi e pericoli frammezzo i quali il Villamarina, se non lo avesse sorretto una fede incrollabile nei diritti dell’alma madre, sarebbesi miseramente smarrito d’intelletto e di cuore. Ma sempre attento, accorto, sollecito, e quando riguardoso e modesto, e quando concitato e poco men che protervo, egli ha potuto serbar alto e illibato l’onore della nostra bandiera; cotalché (miracolo, forse incredibile tra quella grande tristizia di tempi) proprio dessa la nostra bandiera, ch’è tutto un programma di independenza e unità, continuò sul palazzo del regio legato a sventolare, salutata, invidiata, anco allora che ogni altro vessillo, ogni altro stemma di sovrano o di principe (eccetto solamente le insegne britanniche) cadevano per popolari collere laceri ed inviliti.
Laonde non è da stupire che, eziandio ritornato a Firenze il Granduca sugli scudi del nostro nemico, il Governo del Re abbia voluto che il Villamarina colà persistesse in ufficio, quasi come a ricordo delle patrie speranze e a vaticinio di non tarde riscosse.
Bensì mi sembra impossibile che altri non pensi di quanto senno e di quanta desterità il regio legato debba aver fatto prova, a fin di riescire (ché davvero è riescito) a mitigare i sospetti e gli sdegni verso lui naturalmente nutriti dai fautori occulti o palesi della Corte di Pitti, e in un tempo medesimo ad addentrarsi ogni dì più nella stima, nell’affetto, nella fiducia de’ migliori tra i cittadini di quella gentilissima delle contrade d’Italia.
Intanto, scoppiato a Parigi il turbine del 2 dicembre 1851, le relazioni tra il Governo Sardo e il Francese non procedevano liscie [sic] e serene; o vuoi perché alle Tuileries si temesse il contagio delle dottrine e delle forme parlamentari che fiorivano tra i Subalpini; o perché vi sapessero di amaro i giudizi che talora la tribuna di Torino e più spesso la stampa portavano sugli atti del nuovo Sire; o perché non piacesse l’annuncio che nelle discussioni tra lo Stato e la Chiesa i Ministri di Vittorio Emanuele intendevano di progredire nella politica inaugurata dalle leggi del conte Siccardi.
Premeva dunque attutire, o, se non altro, arrestare quei mali umori; senza che per ciò si menomasse l’autonomia subalpina, e senza che il Regio Governo o il Parlamento declinassero comechessia dalle franchigie di cui si sentivano giustamente orgogliosi. A cotesta bisogna Massimo d’Azeglio, che presiedeva i Consiglieri della Corona, reputò adatto e opportuno il Villamarina, già da cinque anni residente a Firenze: sicché nell’ottobre del 1852, innalzatolo al grado di inviato straordinario e ministro plenipotenziario, gli affidò la incumbenza, assai ponderosa, di difendere al cospetto di Napoleone pacatamente ma fermamente le ragioni e la dignità del suo Principe e dello Stato.
Il conte di Cavour, lì per lì sottentrato all’Azeglio nella presidenza de’ Ministri, di lieto animo ratificò quella scelta: la quale chi non sa di che giovamento sia tornata, non che ad una soltanto, a tutte le parti del Bel Paese?
Il valore diplomatico di un ambasciatore o d’altro legato, non vuol essere (che io mi sappia) meramente desunto dal tenore delle Note di lui e de’ colloqui, se anzi e le une e gli altri, il più delle volte, denno restarsene a dilungo celati: ma i discreti uomini lo argomentano e apprezzano giusta i frutti visibili che alla legazione conseguono.
E noi vedemmo, che, dopo l’andata del Villamarina a Parigi, quel Governo si fece capace del doversi lasciare intiera ai Subalpini la podestà di vivere a seconda del loro Statuto: e vedemmo tra l’uno e l’altro Governo deterse le ruggini, e congiunti amendue in promettente amicizia: e invitate le armi regie all’alleanza di Francia e Inghilterra per la lotta che divampava nella Crimea: e al Congresso di Parigi due Ministri del Re, il Cavour e il Villamarina, seduti alla pari cogli ambasciatori e i primi Ministri delle grandi potenze: e, che più è, nel Congresso i due Ministri del Re prendersi la balìa di domandare, invece che materiali compensi allo Stato dal quale aveano i poteri, la cessazione assoluta d’ogni possesso e di ogni immistione dello straniero nel reggimento della Penisola dall’Alpi al mare.
Non è del nostro ufficio la indagine se alcuno (e quale) dei potentati sia in colpa del non avere il Congresso predisposte e sancite le norme che in un avvenire più o meno vicino condur potessero a terminativamente assestare la questione d’Oriente, alla quale oggi stesso vanno immolandosi tesori immensi di danaro e di sangue. Ci spetta più grato còmpito: e questo è d’inneggiare dal profondo del cuore alla memoria dei due Ministri che, generosamente avvocando la causa della italica indipendenza in grembo a quel Concilio momentosissimo, seppero indurre nei Governi civili la persuasione che l’Europa non racquisterebbe mai vera pace sino a quando non si cancellasse il più nefasto fra i Capitoli viennesi del quindici; quel capitolo che ha soggiogate espressamente in perpetuo le provincie lombarde e le venete alla monarchia degli Absburgo [sic].
L’acutezza, l’alacrità di Salvatore Villamarina, manifestate dallato al primo Ministro del Re nel Congresso, non furono senza premio.
Immantinente il Decreto Reale del 14 maggio 1856 lo scrisse nell’Albo dei Senatori. E poco stante, il Governo porgevagli la più significativa testimonianza della propria fiducia, a lui commettendo di assidersi, unico plenipotenziario per la Sardegna, tra gli ambasciatori delle grandi potenze e nella Conferenza del ‘57 e nell’altra del ‘58, tenute anch’esse a Parigi, e intese entrambe a comporre le aspre questioni, balzate fuori nell’attuazione dei patti del ‘56, or sia circa l’Isola dei Serpenti e il Delta del Danubio, or sia per lo sgombero delle truppe austriache dai principati e la ritratta del navilio inglese dal Mar Nero, or sia nel definire la sovranità di Belgrado, e da ultimo nell’organare il nuovo Stato dei Moldo-Valacchi.
Le decisioni di quelle Conferenze, nelle quali si parvero grandemente autorevoli i consigli e i suffragi del Villamarina, non sempre andavano a’ versi dell’Inghilterra; e d’altro lato gradite suonavano all’Imperatore dei Francesi: onde, meglio che mai, si affermarono le intimità tra Parigi e Torino.
In questo mentre l’Imperatore dei Francesi e il conte di Cavour, convenuti a Plombières, concordavano la lega franco-sarda; e in picciol tempo soprarrivava coi più splendidi auspicî il gennaio 1859. Ma chi mi darebbe la voce a descrivere le ansie, le ambascie [sic] del Villamarina, e quando il gabinetto di Londra si fece a tentar ogni via per impedire la guerra, della quale era già proclamata la indispensabile necessità per la salute d’Italia! e quando, acceso sul finire dell’aprile tra Piemonte ed Austria il conflitto, indugiavano a muoversi da Tolone e da Lione i soccorsi! e quando, superati per la portentosa virtù delle armi alleate i vertici di S. Martino e di Solferino, repentemente i preliminari di Villafranca (in onta alla immota costanza del Re) tagliarono a mezzo il disegno della cacciata dello straniero, - e ribadirono le catene ai tre milioni d’Italiani d’oltre Mincio e oltre Po - e, per soprassoma, annodavano insieme «dall’Alpe al Mare» i Governi indigeni e il Governo esotico, un popolo libero e i sudditi di sei despoti, sei corone laicali e la celsitudine della tiara!
Fatto sta che, nell’ottobre dell’anno medesimo, l’esimio legato, disperando oramai che Zurigo potesse punto correggere le sorti d’Italia preconizzate da Villafranca, resignò il titolo e le funzioni che da sette anni esercitava presso la Corte di Napoleone, e si ridusse a Torino. Quivi il Ministero di Alfonso La Marmora e di Urbano Rattazzi gli profferse la Luogotenenza del Re nelle provincie lombarde: ma egli avvisò che la Luogotenenza sarebbe come una mostra di non perfetta unità dei Lombardi cogli originarî del Regno: e il partito fu smesso.
Ringeneravasi poco poi la speranza (e voleva dir la utopia, vagheggiata da molti nel ‘48) di trovar modo che il Borbone di Napoli, se non nei rispetti delle politiche libertà, che gli erano fieramente antipatiche, almeno in quelli dell’indipendenza, della quale nessuno è che non debba sentire il pregio e il bisogno, si accostasse ai propositi del Re guerriero. A ciò il Villamarina, nuovamente insignito del carattere di Ministro plenipotenziario, recavasi a Napoli. Senonché Francesco II, che non tralignava dalla razza, autocratica verso il popolo, codarda innanzi agli estrani, perfidiò nel costume che avea da natura; e però il messaggiere di Vittorio Emanuele non poté approdare a concordia nessuna. Siano grazie ai Mille di Garibaldi, ai quali, più presto che subito, è toccata la gloria di irrogare al Borbone in nome della patria il castigo!
E qui ci ricorrono alla mente le prevegnenti [sic] sollecitudini in che a tutt’uomo versavasi il Villamarina per cansare il pericolo che dalle meraviglie del Garibaldi o traessero audacia le plebi a disfogar gli odî antichi sui togati e i censiti, o qualcuno dei Governi esteri cogliesse pretesto a interrompere quella sublime epopea. Le quali sollecitudini, sapientissime nella idea, felicissime negli effetti, ebbero grandi encomî dai labbri stessi di Vittorio Emanuele. A ricognizione di merito, il Villamarina ricevette dall’amplissimo Municipio di Napoli il diploma di cittadino; e per decreto del Re fu sollevato al massimo degli onori,- il collare dell’Ordine dell’Annunziata.
Dopo tanto, il nostro Collega, quasi temesse che non gli durerebbe la lena a nuovi cimenti, diede l’addio alla politica militante. Accettò nondimeno nell’aprile 1862, essendo capo dei Ministri il Rattazzi, l’ufficio di Prefetto a Milano; lo esercitò con amore di fratello, con perizia di amministratore, con saldezza di spirito liberale, massime a faccia dei clerocratici, che non erano né inerti, né pochi; e lo ha dovuto deporre allorché i fati e i rancori di Mentana irrigidirono la temperie del Governo centrale.
Ho dianzi accennato che il marchese Salvatore di Villamarina fu eletto a Senatore nel maggio 1856. Ora devo additare le precipue tra le materie, intorno alle quali ei tenne discorso nella nostra Assemblea.
I gravissimi officî, che lo vollero per molti anni lontano dall’Aula del Senato, tardarono il suo giuramento sino al 6 febbraio del ‘61. Parlò, nell’aprile di quell’anno, circa la interpellanza del Senatore Giuseppe Vacca sulle cose di Roma: nel gennaio del ‘62, circa le condizioni generali dello Stato e la pubblicazione di certi Decreti nell’intervallo delle sessioni: nell’agosto del ‘70, circa le provviste urgentissime per l’armamento, quando ardeva la guerra tra Francia e Germania: nel gennaio del ‘71, in favore dello schema di legge per la traslazione della sede del Governo a Roma; e nell’aprile, contro lo schema di legge per le guarentigie al Pontefice. I Colleghi dell’oratore possono talvolta aver da lui dissentito nei concetti, nei voti: ma niuno è che non li sapesse onninamente inspirati da una sola fede, da un solo affetto; la fede, l’affetto al Re ad alla patria.
Del resto: il tempo de’ suoi riposi dalle cariche pubbliche non andò sciupato nell’ozio.
Consigliere comunale di Torino; Consigliere dell’amministrazione di quell’ospedale di carità; Presidente del Consiglio dei veterani del 1848 e ‘49; Presidente del Circolo torinese per la lega italiana di insegnamento; ascritto a moltissimi sodalizi di mutuo soccorso: ogni sempre ei fu tipo e modello di puntualità, di fervore, di vigilantissima accuratezza. Sopra tutto era largo di conforti e di aiuti ai superstiti delle prime battaglie, in ciascuno de’ quali a lui pareva di ravvisare un precursore, un araldo dei trionfi d’Italia. Né io mi spando in iperboli se asserisco che in quei pensieri, in quelle abitudini il nostro collega perseverò sino all’ultimo de’ suoi respiri. Ne volete un autentico testimonio? Ecco qua. Nel giorno, nell’ora che a Roma giungeva il telegramma annunziatore della subitanea morte del Senatore Villamarina, proprio in quel giorno e in quell'ora la Camera de’ Deputati riceveva da Torino una petizione calorosissima a patrocinio dei veterani, dei quali cento volte egli avea mosso lamento che non fossero stati equamente rimeritati i servigi, o sopperita la inopia: e la petizione vedeasi appunto firmata da lui, spedita a Roma da lui!
Tale fu il transito dell’uomo illustre che (assai più tardi ch’io non volessi) son oggi venuto a commemorarvi in parole diseguali al soggetto, e tuttavia sinceramente devote.
Il nome del marchese Salvatore Pes di Villamarina vivrà lunga pezza nell’animo e nella gratitudine degli Italiani. I posteri lo leggeranno riverito e lodato nelle storie di questo tempo felice che ci ha ridonata la patria.
[...]
Senatore TORELLI. Domando la parola.
PRESIDENTE. Il Senatore Torelli ha la facoltà di parlare.
Senatore TORELLI. Voi udiste, on. Colleghi, le parole di giusto encomio che l’onorevole nostro Presidente pronunciò rammentando il conte Pes di Villamarina, già nostro Collega. [...].
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 26 novembre 1877.
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Note: | Il nome completo risulta essere: "Salvatore Raimondo Gianluigi".
Secondo altra fonte risulta nato il 31 agosto 1808.
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