|
|
|
Data di nascita: | 05/10/1822 |
Luogo di nascita: | BOMBA (Chieti) |
Data del decesso: | 20/06/1893 |
Luogo di decesso: | ROMA |
Padre: | Eustachio |
Madre: | Maria Anna CROCE |
Nobile al momento della nomina: | No |
Nobile ereditario | No |
Coniuge: | CAPECCHI Sofia, vedova del senatore Carlo De Cesare |
Fratelli: | Bertrando, filosofo |
Parenti: | CROCE Benedetto, zio, fratello della madre e avo di Benedetto CROCE, consigliere della Corte suprema di giustizia
CROCE Benedetto, nipote, senatore (vedi scheda)
CROCE Alfonso, nipote |
Luogo di residenza: | ROMA |
Indirizzo: | Via Due Macelli, 66 |
Titoli di studio: | Laurea in giurisprudenza |
Presso: | Università di Napoli |
Professione: | Docente universitario |
Altre professioni: | Magistrato |
Carriera giovanile / cariche minori: | |
Carriera: | Professore di Filosofia del diritto all'Università di Modena (8 marzo 1860-1861)
Consigliere di Stato (25 novembre 1868-10 marzo 1873) (30 marzo 1876-11 maggio 1876) (8 novembre 1878)
Presidente di sezione del Consiglio di Stato (31 dicembre 1889) |
Cariche politico - amministrative: | Membro della Camera dei deputati (Napoli) (1848-1849) |
Cariche e titoli: | Fondatore e direttore del giornale "Il Nazionale" (1° marzo-17 luglio 1848)
Collaboratore del giornale "La Nazione" di Firenze (1859)
Consigliere della Luogotenenza in Napoli (1860)
Segretario generale del Ministero dell'interno (8 dicembre 1862-24 settembre 1864)
Membro ordinario della Società reale di Napoli (5 maggio 1883) |
|
.:: Nomina a senatore ::.
|
|
Nomina: | 12/15/1889 |
Categoria: | 03
05
15 | I deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio
I Ministri segretari di Stato
I Consiglieri di Stato
dopo cinque anni di funzioni |
Relatore: | Tommaso Celesia |
Convalida: | 23/12/1889 |
Giuramento: | 23/12/1889 |
|
|
|
Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro
Commendatore dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro
Grande ufficiale dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro 4 gennaio 1876
Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia |
|
|
.:: Camera dei deputati ::.
|
|
Legislatura | Collegio | | Data elezione | Gruppo | Annotazioni |
VIII | Vasto | | 27-1-1861* | Destra | Eletto anche nei collegi di Atessa e Napoli XI, optò per il collegio di Chieti il 13 marzo 1861. Cessazione per nomina a segretario generale. Rieletto l'11 gennaio 1863 |
IX | Atessa | | 22-10-1865** | Destra | Eletto anche nel collegio di Montecorvino Rovella, optò per il collegio di Atessa il 29 novembre 1865 |
X | Atessa | | 10-3-1867*** | Destra | Cessazione per nomina a consigliere di Stato. Rieletto il 3 gennaio 1869 |
XI | Atessa | | 20-11-1870**** | Destra | Cessazione per nomina a ministro dei lavori pubblici |
XII | Atessa | | 8-11-1874***** | Destra | Eletto anche nel collegio di Chieti con annullamento dell'elezione |
XIII | Bergamo | | 4-3-1877****** | Destra | Ballottaggio l'11 marzo 1877. Cessazione per nomina a consigliere di Stato e rielezione il 15 dicembre 1878 con ballottaggio |
XIV | Bergamo | | 16-5-1880 | Destra | |
XV | Bergamo (Bergamo I) | | 29-10-1882******* | Destra | Eletto anche nel collegio di Lanciano (Chieti II) optò per il collegio di Bergamo I il 14 dicembre 1882 |
XVI | Bergamo (Bergamo I) | | 23-5-1886******** | Destra | Ballottaggio il 30 maggio 1886. Cessazione per nomina a senatore |
|
|
|
|
|
Altri Stati: | Ministro di polizia (Luogotenenza di Luigi Carlo Farini nelle province continentali) (1860) |
Governo: | Ministro dei lavori pubblici (10 luglio 1873-25 marzo 1876) |
|
|
|
.:: Atti parlamentari - Commemorazione ::.
|
|
Atti Parlamentari - Commemorazione
Domenico Farini, Presidente
Onorevoli colleghi. Il Senato è in lutto per la morte di Silvio Spaventa.
Ingegno, sapienza, altezza d'animo lo fecero grandeggiare; in mezzo alle traversie politiche gli diedero impronta quasi d'uomo antico rivivuto tra noi.
Nel 1847, a soli venticinque anni, nelle dottrine filosofiche maestro, della libertà caldo fautore scampa al carcere esulando; con fronte serena, nel 1852, ascolta dal giudice allibito la condanna a morte; aspetta con altiera indifferenza il capestro che per dieci giorni efferati manigoldi gli lasciano sospeso sul capo. Deputato, la fiera protesta del maggio 1848 aveva sottoscritto imperterrito; rieletto alla seconda Camera aveva ancora una volta il 12 marzo 1849, che ne fu l'ultimo giorno, stigmatizzato gli arbitrî: nell'ergastolo di santo Stefano sdegnoso respinge, anche per i compagni, la speranza di salvezza che qualcuno dei fuorusciti fa balenare ai miseri martoriati, a prezzo di un principe francese.
Sciolta la prima Camera, magnifica nel nazionale, la insurrezione delle Calabrie, celebra la vittoria di Goito, pronostica al guerriero sabaudo che ad opera compiuta gli italiani lo rimeriteranno di tanta virtù e carità di patria: "temerario adombra, designa il Re unificatore" (Bene).
Gli insulti, le minaccie degli scherani si spuntano contro quel ferreo petto che, a redimere la nazione, raccoglie nella società segreta l'"Unità italiana" uomini diversi i quali ad ogni dissidio di forma, antepongano il proposito sublime.
Con tenacia ed ardire non altrimenti opera, incalza, nel 1860, affinché si affretti l'annessione.
In tanti anni, in tanto mutare di tempi e di uomini, egli non muta: è quello che fu!
"Le persecuzioni di una magistratura prostituita.. il vile sistema di torture fisiche e morali.. la violazione incessante sistematica, premeditata delle leggi umane e divine" per le quali, dalla esacerbata coscienza dell'illustre britanno, trabocca la maledizione con cui il labbro irato marchia di perpetua infamia un governo "negazione di Dio", nonché schiantarlo, non lo piegarono (Molto bene, benissimo).
Pari alle rupi del nativo Abruzzo, la furia del turbine s'infranse impotente contro di lui: sfidò la crudeltà, sbigottì la nequizia, sprezzò le insidie, doma la fortuna.
A Napoli, consigliere di tre luogotenenze, governa fermamente, regge la città travagliata da ribaldi, che degli acerbi umori politici fanno mantici alla plebe. Non lo avevano impaurito le aggressioni dei soldati borbonici, alle nuove della bordaglia non dà addietro; non cambia costume, abitudini.
Deputato al Parlamento nazionale durante nove legislature (8ª-16ª); segretario generale dell'interno (1862-64); ministro dei lavori pubblici per quasi tre anni (1873-76) la sua presenza nella Camera, la sua amministrazione lasciarono solco profondo. E, ve' potenza di mente, egli dianzi agli studi morali ed alle speculazioni filosofiche inteso; nelle scienze economiche ed amministrative perito, manifestò di un tratto, con meraviglia d'ognuno, nel dirigere un'azienda di così gran momento, tale attitudine da disgradarne pur chiunque si fosse negli studi e nelle scienze positive sempre cimentato.
Anche al Governo fu sovra ogni cosa e prima di tutto quello che era da uomo privato; anzi, tanto crebbe in austerità e rigidezza quanto più l'intemerato sentire lo ammoniva dei grandi diritti, dei maggiori doveri di cui è confidato lo Stato.
Nessuno più di lui sentì la robustezza del regime parlamentare, avere radice ed alimento nella salda compagine delle parti politiche ed aborrì da ogni transizione per la sua; ma pure intese e vide le esorbitanze del parteggiare, essere il mal seme onde, a posta dei procaccianti, si inquina lo Stato (Bene). Per questo chiese, bandì, instò si purgasse l'Amministrazione dall'infesta lebbra. E quando il nobilissimo intento si volle e parve conseguirsi col novello istituto aggiunto al Consiglio di Stato, per assicurare appunto "la giustizia nell'Amministrazione" egli, che all'alto consesso da venti anni apparteneva, a quello fu preposto.
A dargli ordine e norma mise l'animo ardente, il fervore di chi, senza obliqui fini, vi aveva ravvisato un'alta meta, un puro ideale: lì brillò la grande sua dottrina nel diritto; lì si ravvivò in lui una energia quasi sovrumana non fiaccata né attutita dal lungo male che lo straziava e che gl'impedì di recare in questa Camera, della quale era dappoi il dicembre 1889, il lume della vasta mente, della vastissima cultura.
Sforzo di ferrea volontà, sembrò ne alleviasse, a volte, le sofferenze; arrestasse, a volte, vincesse l'implacabile malore. Era, ahi! sventura, illusione!
E noi che con vigile ansia seguimmo le paurose vicende, che trepidammo spesso, spesso ci rallegrammo nello sperarlo serbato alla patria, ora funestati lo piangiamo estinto, alla mezzanotte di martedì scorso, in questa Roma ai cui antichi parve ispirarsi, alla cui grandezza sembrò attingere la sua virtù.
Natura privilegiò, lo studio innalzò, i fieri propositi, i patimenti ineffabili nobilitarono Silvio Spaventa. Quei patimenti, stoicamente sopportati, furono al Borbone colpa inespiabile; i popoli civili se ne corrucciarono; pietà dei tormentati, esecrazione dei flagellatori, suscitarono i vindici; le catene che avevano lacerato le carni degli eroici galeotti, quasi venerato simbolo, strinsero in uno le sparse membra della nazione (Vive approvazioni).
La riconoscenza, l'ammirazione dei contemporanei circondarono Silvio Spaventa, che fu uno dei magnanimi della nostra età; nel lontano avvenire la posterità ne collocherà la memoria su d'una vetta, che si ergerà sempre più alta sulla caliggine delle passioni e dell'oblio; e lo esalterà sempre più perché in lui ogni viltà fu morta! (Benissimo, applausi). [...]
Ha facoltà di parlare il senatore Marselli.
MARSELLI. Che cosa aggiungere alle nobili parole del nostro Presidente sulla vita di Silvio Spaventa? Che cosa aggiungere, trattandosi di una individualità, la cui vita fu di per se stessa un elogio, al quale nessun discorso è pari? Ma un motivo particolare me spinge a parlare, e se nulla si può aggiungere alla fama di lui, molto conforto si trae dall’onorarne la memoria.
Avendo avuto l’onore di rappresentare per 18 anni il Parlamento in un collegio degli Abruzzi, credo di rendermi interprete dei sentimenti di quelle popolazioni, mandando in nome loro e in quest’Aula, un mesto saluto alla venerata memoria di Silvio Spaventa. Egli era fatto davvero ad immagine dell’Abruzzo; forte com’esso, e nonostante una certa selvatica ruvidezza dei modi, fornito d’animo così gentile, che di lui potrebbe ben dirsi:
Che se il mondo sapesse il cor ch’egli ebbe,
Assai lo loda e più lo loderebbe.
Il turbine politico del marzo 1876 poté svelare la robusta quercia dal ristretto suolo del suo collegio uninominale; ma non poté svellere dal cuore costante degli abruzzesi l’affetto per il loro eminente concittadino, anzi l’accrebbe, e rese pungente il desiderio di riaverlo a rappresentante nel Parlamento. Silvio Spaventa però non volle più abbandonare quel collegio del settentrione d’Italia, che lo accolse in momenti difficili. Questo fatto ha un alto significato e dimostra che il saluto, il quale parte dalla regione natia, non può giungere a lui, senza elevarsi nella superna sfera dei sentimenti unitari, dell’idea nazionale, che ispirò tutta la sua vita. Non è stato casuale, che dovesse rappresentare lungamente un collegio del Settentrione, quel virile patriota del Mezzogiorno, che, come ben ha ricordato il nostro Presidente, fin dal 1848 vide la causa della libertà e dell’indipendenza d’Italia essere inseparabile da quella dell’unità con la dinastia sabauda. Egheliano nel pensiero, non di rado faceva le sue profonde osservazione su ciò che Hegel chiamava l’astuzia della ragione, o sull’intelligenza del fato che regge il mondo. E tutta la vita pubblica di Silvio Spaventa si è svolta secondo un processo fatale, cominciato con la indomita fede nell’avvenire d’Italia, terminato senza alcun fiacco rimpianto del nostro triste passato.
Essere sempre uguale a se stesso, quali che siano le vicende della vita, in tempi servili o in tempi liberi, lottando contro la tirannide borbonica o governando nello Stato italiano, fra le speranze o fra le delusioni, è il vero indizio dei caratteri maschi. E un carattere era soprattutto lo Spaventa, un carattere la cui ripercussione sentivasi nelle sue stesse dottrine sulla potenza organica e sulle funzioni dello Stato, sulla giustizia dell’amministrazione. Non già che il fiero ribelle del 1848 intendesse sostituire la tirannide dello Stato alla tirannide del despota: no, egli intendeva sostituire la forza e la sanità di uno Stato fondato sulla legge, cioè libero, alla debolezza ed alla corruzione dei governi fondati sull’arbitrio. Si può far questione di limiti tra l’associazione statale e la libertà individuale, si può non consentire che lo Spaventa in alcune applicazioni, ma il concetto dello Stato, quale egli lo aveva, il concetto di uno Stato considerato come l’integrazione dei pubblici interessi e come la più alta espressione della morale sociale, riman quello meglio acconcio a costituire le nazioni ed a renderle politicamente e militarmente forti.
L’ammirazione per il carattere di lui imponevasi non solo ai nemici, ma altresì a coloro che pur seguendo il medesimo fine nazionale e liberale, militarono in campo diverso, nel periodo delle rivoluzioni che fecero l’Italia. E ciò è più difficile, chi pensi che le avversioni sogliono essere tanto più vive quanto più sono fraterne. Ed a tal proposito non so terminare meglio queste poche parole, che leggendo un brano di una lettera, che ieri scrivevami un nostro collega, assente per infermità, il quale mi raccomanda di fare le sue parti. È un altro martire dell’unità d’Italia, anzi è il principale martire del Mezzogiorno, colui che fu sepolto per 12 anni nella torre di Gaeta, il generale Giacomo Longo, che nel 1860 militò nel campo garibaldino, mentre lo Spaventa era fra i più rigidi seguaci del conte di Cavour.
Il prigioniero di Gaeta così scrive dall’ergastolano di Santo Stefano: "Ecco spenta un’altra luce, parlo di Spaventa come carattere, e l’ammiro ora come l’ammirai sempre, ed oggi che l’abbiamo perduto, ne sono accorato, desolatissimo; né credo esagerare dicendo che la dipartita di lui dev’essere considerata come un grande lutto per l’Italia, nella quale or non abbondano i grandi caratteri. Posso non aver divise tutte le idee di Spaventa in politica, ma pochi uomini del nostro risorgimento ho tanto ammirato e stimato quanto quel grande patriota".
È bello questo grido di dolore di un veterano della libertà per la dipartita di un altro veterano!
È vero, in Italia, or non abbondano i grandi caratteri; ma essi nacquero nelle lotte e nel nostro risorgimento, e poiché la vitalità italiana non è spenta, rinasceranno nei giorni delle prove. E certo il miglior mezzo per apparecchiarne la risurrezione, è di conservare come un sacro fuoco la memoria di uomini, quale fu Silvio Spaventa. In questo culto della grandi virtù risiede la vera immortalità non pure degli estinti, ma anche delle nazioni (Approvazioni).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il senatore Todaro.
TODARO. Faccio uno sforzo erculeo per prendere la parola in questo momento, tanta è la commozione che opprime l’animo mio.
Ma lo faccio, o signori, perché sono stato il solo tra voi che ha avuto la fortuna di stare vicino a Silvio Spaventa negli ultimi giorni della sua vita.
Lo faccio perché è bene si sappia quale fu l’uomo eminente negli ultimi suoi momenti.
Scoccava la mezzanotte del giorno 20 e l’ultimo anelito di Silvio Spaventa era raccolto dalle labbra della sua diletta e degna compagna, che chiamava invano a nome il suo Silvio!
Egli mantenne lucida l’intelligenza fino al penultimo giorno di sua vita e anzi tre giorni prima, io, senza nascondergli la gravità del suo stato, cercai di lusingarlo, ma gli mi rispose: tu mi vuoi aprire l’animo alla speranza, io non mi lusingo; è il fato, non v’è rimedio.
Queste parole di Silvio Spaventa, pronunziate poco prima della sua morte, vi dimostrano che i grandi caratteri sono sempre eguali a se stessi per tutta la vita.
Queste parole fanno degno riscontro a quelle ch’egli, caldo di patria e di libertà, disse ai giudici del Borbone quando gli lessero la sentenza di morte: Maiori forsitan cum timore sententiam in me fertis, iudices, quam ego accipiam. Ed ora, dinanzi alla sentenza di morte della natura, Silvio Spaventa serenamente dice: "è il fato, non v’è rimedio".
Questi grandi caratteri debbono rimanere ad esempio dei nostri figli; ed io sono sicuro che la commissione eletta dal nostro Presidente, la quale ha l’attribuzione di scegliere tra i defunti gli uomini più eminenti del Senato per illustrarne de’ loro busti le aule, delibererà che presto nel Senato sorga il busto di Silvio Spaventa.
Dianzi a questo busto, nei momenti di pericolo per la patria, nei momenti di grande abbattimento morale, noi potremo venire ad ispirarci, a ritemprarci e ad accenderci a egregie cose; allora potremo sentirci rinascere ad una novella vita, ad una nuova rigenerazione civile e morale. (Bene! Benissimo!).
Propongo intanto che si ponga il bruno per quindici giorni al banco della Presidenza e che il nostro Presidente, a nome del Senato, esprima il nostro profondo cordoglio alla diletta sua compagna Sofia ed ai nipoti dell’illustre estinto.
AURITI. Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
AURITI. Conterraneo, coetaneo, fin dalla prima gioventù amico di Silvio Spaventa. Testimone quotidiano, ammiratore di quell’ingegno poderoso, di quel carattere nobilmente, modestamente fiero, di quel cuore buono, sensibile, affettuoso, sia dato a me di aggiungere una parola a quelle eloquenti del senatore Marselli per esprimere il lutto degli Abruzzi, ai quali resterà la gloria di aver dato i natali a questo Baiardo dell’epoca eroica del nostro risorgimento, e di averlo sempre venerato, ma non senza un severo ammonimento alla regione che gli fu più diletta per averlo una volta dimenticato nell’ora nefasta.
Chi fu Silvio Spaventa dirà la storia: ma le virtù domestiche, la bontà dell’animo, l’affetto agli amici, solo quelli che l’hanno conosciuto da vicino hanno potuto apprezzare.
Vi è un fatto, secondo me, che rispecchia mirabilmente tutta la vita di Silvio Spaventa.
Un decennio di galera patita per la libertà, più che altri 10 anni d’infermità di varia natura che lo tormentarono, e che egli durò con eroica fermezza, non erano giunti ancora a spezzare quella fibra di ferro.
L’assiduo lavoro a capo della 4ª sezione del Consiglio di Stato, che egli considerava quasi come sua gloria, aveva ancor più logorata quella fibra, ma non bastava: occorreva ancora un ultimo colpo.
Ebbene, non lo so per confidenze ricevute, ma l’indovinai dal primo momento, e ne ho la convinzione profonda: alcune giornate d’intensa meditazione per risolvere un arduo problema sui limiti tra i diritti del cittadino e i vincoli imposti al pubblico funzionario, la rigida inflessibilità dei suoi principî, il pensiero dell’uomo eminente, dell’amico a cui si riferiva il giudizio, le circostanze dell’aspra lotta che l’avevano provocato, tutto questo dovette produrre in lui uno stato angoscioso dell’animo, a cui non poté resistere il corpo già affranto dal lungo morbo insidioso.
Proprio in quei giorni fu l’assalto improvviso che per poco non lo spense, e da cui, dopo brevi intervalli di lievi miglioramenti, non poté più riaversi.
Egli soccombette vittima del sentimento del dovere. Ecco l’uomo.
Felice lui che non assisterò alle ultime scene del dramma dolorosissimo che si svolge innanzi ai nostri occhi! Benedetta la sua memoria, se in questa società egoistica, scettica, cupida di subiti guadagni varrà a scuotere almeno la gioventù, a riaccendere in essa il culto della virtù, l’ideale dell’integrità della vita nella sua unità indivisibile della vita pubblica e della vita privata! (Bene, bravo).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il signor ministro del tesoro.
GRIMALDI, ministro del tesoro. Al lutto del Senato il Governo si associa.
Dire di Silvio Spaventa più o meglio di quello che ha fatto l’illustre Presidente del Senato è impossibile.
Mi riassumo: il Senato ha perduto uno dei più rispettabili suoi membri. Ma tutti abbiamo perduto: ha perduto l’Italia.
Per Silvio Spaventa, più che per ogni altro, possono essere parafrasate le parole del poeta dei Sepolcri: "E tu onore di pianto o Silvio avrai, / Finché fia santo e lacrimato il sangue/ Per la patria versato, e finché il sole/ Risplenderà sulle sciagure umane". (Bene).
PRESIDENTE. Come il Senato ha udito il senatore Todaro propone che si abbruni il banco della Presidenza per quindici giorni, e si partecipino le condoglianze del Senato alla vedova ed ai nipoti di Silvio Spaventa.
Pongo ai voti queste proposte.
Chi le approva è pregato di alzarsi.
(Approvato).
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 23 giugno 1893.
|
|
|
Note: | Secondo altra fonte risulta nato il 10 maggio 1822.
|
Attività |
|
|