«La manovra non è intoccabile. Un patto bipartisan di fine legislatura»
3 Luglio 2011
di Francesco Verderami
Continua a proporre «un patto di fine legislatura tra le forze di maggioranza e opposizione» che si concluda, «senza vincitori nè vinti», con l'approvazione di quei provvedimenti «costituzionali di cui il Paese ha bisogno. Non perché non ci sia la maggioranza ma perché il dialogo è indispensabile su determinati temi». Tra questi, il presidente del Senato inserisce anche il varo della riforma della giustizia, così da «recuperare il rapporto con l'Anm» e «mettersi alle spalle una lunghissima stagione di veleni». Renato Schifani si rende conto che l'obiettivo è «difficile da raggiungere, ma non impossibile», dato che «ci sono ancora dei margini per centrarlo». Dopo la nomina di Angelino Alfano alla guida del Pdl e con l'approvazione della manovra, secondo l'inquilino di palazzo Madama il quadro politico «tenderà a stabilizzarsi», e la legislatura «arriverà a naturale conclusione»: «Allora, perché non provarci? È tutto già scritto. E se si vuole, si può».
Sarà, ma se il primo passaggio - tutto interno al Pdl - è stato completato, il secondo è solo agli inizi. Ed è causa di tensioni nella maggioranza e di contrasti tra governo e parti sociali. Soprattutto i tagli alle pensioni contenuti nella manovra stanno provocando la dura reazione dei sindacati. Schifani affronta il tema con la prudenza che la carica gli impone, ma non lo elude: «Bisogna sempre sentire le ragioni degli altri», dice. E partendo da questo presupposto confida intanto che «in Parlamento tra maggioranza e opposizione si apra un rapporto costruttivo». Nonostante il premier abbia già preannunciato l'intenzione di porre la fiducia, «prima che il testo arrivi in Aula sarà comunque possibile dialogare in Commissione, dove andrà privilegiata la logica dell'ascolto».
Una logica che va «estesa anche alle parti sociali». Così il presidente del Senato introduce il tema previdenziale, «un punto estremamente controverso su cui mi auguro si arrivi a un compromesso. Anche perché non si può considerare la manovra come un totem intoccabile. La manovra, senza che venga stravolta, può essere corretta in via parlamentare anche con il contributo delle forze di opposizione. D'altronde, storicamente i provvedimenti economici hanno avuto una lettura finale diversa da quella iniziale: per effetto delle dinamiche interne alle Camere, con il confronto tra forze politiche, e per effetto delle dinamiche esterne, legate cioè al confronto con le parti sociali».
Perciò, «anche sul tema dei tagli alle pensioni», Schifani è convinto che «si debbano ascoltare le ragioni dei sindacati» per giungere «a una sintesi finale». Una sintesi «serve» per fare in modo che «non si interrompa il clima di pace sociale garantito in questi tre anni di legislatura da un rapporto dialettico proficuo e non conflittuale tra il governo e larga parte del mondo del lavoro». È un appello insomma all'esecutivo affinché questo patrimonio non venga dissipato.
E inevitabilmente il tema della manovra evoca il nodo del rapporto tra il premier e il suo ministro dell'Economia: «Un conflitto che - secondo Schifani - è stato enfatizzato. Ora, non c'è dubbio che Silvio Berlusconi in questa fase di crisi vorrebbe garantire qualcosa in più agli italiani, ma si rende conto che bisogna tenere in ordine i conti dello Stato. Ne soffre, però deve attenersi alle ragioni di realpolitik nel nome di un superiore interesse nazionale. E Giulio Tremonti è il cane da guardia dell'economia italiana. Diciamo che il presidente del Consiglio non è fortunato: ha sempre dovuto governare in tempi di crisi». Nonostante questo «passaggio drammatico» è stata però «smentita la tesi in base alla quale la manovra avrebbe portato all'implosione della maggioranza, alle dimissioni di Tremonti e alla crisi di governo».
E' vero. Tuttavia il centrodestra sta pagando un prezzo altissimo sul fronte politico ed elettorale, che ha minato la leadership del Cavaliere e l'asse che lo legava al Senatùr. Schifani ammette che tra Berlusconi e Umberto Bossi «forse qualcosa si è un po' incrinato» e fa risalire il momento alla «partecipazione dell'Italia alla missione militare in Libia. Dopo le amministrative e i referendum, poi, la Lega ha avvertito che la propria base era insoddisfatta sulle questioni economiche, e ha cambiato tattica. Non strategia. Si oppone a certe scelte di governo, ma non per farlo cadere, bensì per recuperare consensi. Bisognerà vedere fino a che punto si spingerà senza mettere a rischio la governabilità. Non credo però che Bossi arriverà allo strappo: si aprirebbero in quel caso scenari imprevedibili, che farebbero sfumare il completamento della riforma federalista».
Perciò il presidente del Senato è convinto che l'approvazione della manovra tenderà a «stabilizzare il quadro politico». Un passaggio «importante» in tal senso «è stata l'elezione, non la nomina di Alfano a segretario del Pdl». Se Schifani tiene a sottolinearlo, è perché «il partito da cui provengo ha una base e un gruppo dirigente». Un modo indiretto per replicare alla battuta con cui il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha accolto l'evento: «Preferisco il commento rispettoso di Antonio Di Pietro, che si è rivolto con toni adeguati a un avversario politico. Anche perché Alfano ha le doti per essere protagonista di una fase nuova e ha le capacità per centrare l'obiettivo strategico che si è prefisso: ricomporre l'area moderata, oggi disarticolata per passate tensioni e incomprensioni».
Quella pacca sulla spalla con cui l'inquilino di palazzo Madama ha accompagnato il neo segretario del Pdl verso il palco del Consiglio nazionale, è il segno di un rapporto antico e strettissimo: «Ma guai ad anteporre le simpatie personali alle scelte politiche. Il legame con Alfano non fa velo al mio giudizio: ritengo sia la persona adatta a cui affidare il destino di un grande forza e dei suoi iscritti. Dopo aver ascoltato il suo discorso, sono convinto che riuscirà a trasformare il Pdl, che rischiava - come ha detto Angelino dal palco - di diventare un partito anarchico e non anche monarchico, e dove il permissivismo poteva trasformarsi in opportunismo. Ad Alfano toccherà recuperare il rapporto con gli elettori moderati, intercettare il consenso giovanile, e ricostruire l'area che si riconosce nel Popolarismo europeo». Schifani invita le «componenti interne ad anteporre la realizzazione di questo progetto alle esigenze delle diverse identità presenti nel Pdl».
«Con Alfano il partito si rafforza» ma - secondo il presidente del Senato - «è un errore ritenere che siamo entrati in una fase post-berlusconiana»: «Berlusconi non può far tutto. Deve guidare una coalizione dove si sono create inevitabili frizioni per effetto del risultato negativo alle Amministrative. Deve guidare un Paese in tempi di crisi. Nessuno è superman. L'idea però che abbia fatto un passo indietro è fallace. Lui era e resta protagonista della politica italiana. Non siamo al passaggio di consegne».
Ma le parole e i gesti di venerdì sembravano il preannuncio di una staffetta, al punto che è sempre più improbabile una ricandidatura del Cavaliere a palazzo Chigi. Lo stesso Schifani si fa prudente: «Allo stato attuale non ritengo imminente un passo indietro di Berlusconi. E' generoso, ha fiuto politico. Al momento opportuno deciderà lui come comportarsi. Di certo nessuno gli chiederà un passo indietro, e sarà lui a decidere quando lasciare». Intanto un'altra generazione sta crescendo, e il presidente del Senato dice di «avvertire il legame» che si è consolidato tra Alfano e Roberto Maroni: «Da Guardasigilli e da ministro dell'Interno hanno lavorato bene per tre anni, fianco a fianco. Ed è molto positivo questo rapporto all'interno dell'asse Berlusconi-Bossi, che garantisce la tenuta dell'alleanza tra Pdl e Lega».