Presentazione del libro di Giuseppe Ayala
10 Luglio 2008
Signore e signori,
sono felice di accogliere oggi in Senato la presentazione del volume di Giuseppe Ayala "Chi ha paura muore ogni giorno: i miei anni con Falcone e Borsellino".Lo dovevo a Giuseppe Ayala, amico e a lungo collega qui in Senato, alla cui straordinaria affabilità e ricchezza umana attribuisco il merito di un confronto che è stato, pur nella diversità delle posizioni politiche, rispettoso, costruttivo e sempre piacevole. Ma lo devo soprattutto alla memoria dei tanti valorosi, uomini e donne, colpiti dalla violenza mafiosa, dei quali questo volume ci offre un ritratto talora inedito, mirabilmente scolpito dallo sguardo acuto e dalla sconvolgente precisione dei ricordi di un protagonista di primo piano.
Il racconto si apre negli anni '70, con Ayala giovane avvocato del Foro di Palermo, ma subito si impone la "scelta di campo", maturata nella solitudine di una notte agrigentina, che condurrà al passaggio in magistratura e all'arrivo, nel 1981, alla Procura di Palermo. Si avvia così un cammino esaltante e tragico, con compagni di strada del calibro di Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Questo volume è, prima ancora che racconto di una grande amicizia e crudele resoconto di una guerra non ancora vinta, qualcosa di più raro e di più atroce: la testimonianza di un sopravvissuto.
Qualcuno ha scritto che "forse Ayala ha scontato abbastanza la colpa di essere rimasto vivo", alludendo al fatto che quel protagonista del maxiprocesso, membro del pool antimafia per tutta la durata di quella straordinaria esperienza, rientrato nei ruoli della magistratura nel 2006, dopo l'esperienza di parlamentare, trovò sulla scrivania un fascicolo relativo a piccoli episodi di criminalità ordinaria.
Proprio come Primo Levi ci ha descritto l'abisso della Shoah (e soltanto nell'esercizio della testimonianza ha lenito il tormento della sua esistenza di sopravvissuto ai campi di sterminio), così sembra scorgersi nelle pagine di Ayala, accanto al dolore del ricordo, il sollievo della testimonianza e della memoria, che sono lo strumento più efficace per fare in modo che quel dramma non debba più ripetersi.
Purtroppo, mentre la testimonianza sulla Shoah è volta essenzialmente ad impedire il ritorno di un passato terribile che fortunatamente non è più, la testimonianza di Ayala ci descrive un passato che, seppure in forma diversa, lascia ancora il suo segno nel presente. Pensiamo soltanto al problema della tardiva percezione, da parte dell'opinione pubblica e degli stessi inquirenti, della reale vastità ed oppressività del potere mafioso: Ayala descrive il momento in cui, all'inizio degli anni '80, l'esplosione della "guerra di mafia", con la sua scia di morte, fece da riflettore su quella realtà criminale, scuotendo un'intera generazione da quella "colpevole indifferenza" che Paolo Borsellino arrivò a rimproverare addirittura a se stesso, almeno fino alla soglia dei quarant'anni.
Sappiamo bene che dopo quella stagione di sangue, culminata con gli assassini di Falcone e Borsellino, e dopo i duri colpi inferti dallo Stato alla mafia a partire da allora (tra i quali particolare rilievo assume l'adozione del carcere duro per i mafiosi, di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario) il potere mafioso ha cambiato strategia. Sembra infatti essersi ritirato nella cura dei propri interessi, riducendo al minimo le azioni eclatanti, che invece hanno avuto tanta parte nel risvegliare la coscienza del popolo siciliano e provocare la sua reazione. Ma non per questo è meno insidioso e pericoloso.
La testimonianza di quegli anni serve a ricordare che la lotta non è ancora vinta, e che la mafia più silente di oggi non è meno pericolosa di quella sanguinaria di allora: la coscienza civile va tenuta sempre ben desta. Per fortuna dal territorio giungono segnali confortanti, come la coraggiosa scelta degli imprenditori siciliani di ribellarsi coralmente, come categoria, alla piaga dell'estorsione. E il Parlamento, il Governo, lo Stato nel suo insieme sanno proseguire con fermezza una lotta che nel risveglio delle coscienze trova il suo migliore alleato.
Vi sono altri spunti straordinari in questo volume, che svelano il modo esigente e rigoroso in cui Giuseppe Ayala ha inteso la sua funzione di magistrato: sono considerazioni sull'utilizzo dei collaboratori di giustizia, sui condizionamenti del Consiglio Superiore della Magistratura, sul funzionamento dell'ordinamento giudiziario e processuale. Il racconto delle conversazioni con Giovanni Falcone sull'anomalia dell'unicità delle carriere fra magistrati del pubblico ministero e magistrati giudicanti, sui limiti dell'azione disciplinare del CSM, sulla natura corporativistica di certe rivendicazioni della magistratura, richiama alla mente le posizioni "scomode" di un grande magistrato, lungimiranti ed ancora attuali, sebbene all'epoca fortemente minoritarie, per non dire isolate.
Queste pagine sono uno straordinario esempio di onestà intellettuale e rigore della memoria, che può essere determinante nell'aiutare a recuperare un rapporto serio e sereno, nel rispetto delle relative competenze, tra istituzioni politiche ed ordine giudiziario.
Questa mia breve riflessione la dovevo alla stima che nutro per l'autore e alla condivisione suscitata dal sordo dolore e dalla commozione che traspaiono dalle pagine del volume, che la sobria eleganza della scrittura e un virile pudore non celano affatto, anzi rendono talora più pungenti.Questo volevo dire; sebbene, come amava ripetere Giuseppe Ayala nei suoi interventi nell'Aula del Senato, "tra siciliani, per intenderci sarebbe bastato uno sguardo".