Riforme, Federalismo e Mezzogiorno
11 Giugno 2010
Autorità, Gentili Signore e Signori,
è con particolare piacere che ho accettato il vostro invito a prendere la parola in questo prestigioso Ateneo, l'Università degli Studi di Napoli Federico II, la più antica tra quelle ancora esistenti a essere fondata da un provvedimento sovrano, che rappresenta il senso del riconosciuto ruolo che Napoli ed il Mezzogiorno hanno avuto nella edificazione della cultura occidentale e della scienza, in Italia e nel mondo. Università che rappresenta la tradizione di studi di diritto che con il tempo ha costituito la caratteristica portante della cultura umanistica partenopea, e che tanti illustri membri ha formato alla sapienza nel governo della cosa pubblica.
Rivolgo un pensiero di particolare riconoscimento alle migliaia di laureati di questo Ateneo che impreziosiscono oggi le aziende e le Amministrazioni pubbliche del Paese. Essi sono i migliori testimoni del valore che hanno le Istituzioni di istruzione e di cultura per il progresso dell'intera Nazione.
Il Senato della Repubblica sta per accingersi all'esame in prima lettura della manovra biennale di recupero del deficit statale. Tale correzione si è imposta al governo per evitare il rischio che nei mercati, come noto assai reattivi negli ultimi tempi, potessero ingenerarsi dubbi anche in merito alla tenuta dei conti pubblici italiani. Le misure di contenimento della spesa pubblica varate dal Governo rappresentano peraltro una risposta già ampiamente concordata a livello comunitario e condivisa con le altre Cancellerie europee. Esse vogliiono mettere al riparo il vecchio Continente da una ondata speculativa di dimensioni inimmaginabili, evitando, al contempo, di generare pericolose asimmetrie nelle politiche economiche dell'Unione. La finalità dell'intervento è quindi principalmente una: scongiurare il rischio di un attacco speculativo al Paese simile a quello che si è determinato in Grecia.
L'intervento si è concretizzato mediante l'adozione di una serie di severe misure di aggiustamento e di razionalizzazione del nostro sistema, con l'obiettivo principale di contenere la spesa pubblica senza aumentare la pressione fiscale, già giunta a livelli di difficile tollerabilità. Un contenuto rilevante è stato perciò chiesto ai pubblici dipendenti ed ai cosiddetti "costi della politica". Lo sforzo richiesto è anche finalizzato a preservarne i redditi futuri e a tutelare le generazioni più giovani non paghino per le colpe dei loro Padri.
Il difficile scenario in cui la crisi è maturata investe tutti i paesi del mondo avanzato, ripropone l'esigenza, ad ogni latitudine, di ripensare le fondamenta stesse dell'economia di mercato ed il suo rapporto con le regole che presiedono a garantirne il funzionamento. Ciò al fine di evitare che si ripetano in futuro altre crisi così devastanti come quella in corso e che investe tangibilmente la vita delle persone da oltre un anno.
Occorre tornare a praticare la morigeratezza nella gestione delle risorse pubbliche, in quanto risorse della collettività, frutto del lavoro dei nostri concittadini. Ma il risanamento della finanza pubblica non è fine a se stesso. E' la condizione indispensabile per consentire al sistema-Paese di incamminarsi nuovamente su un sentiero di crescita e di competitività. Ciò vale soprattutto per il Mezzogiorno, dove più gravi sono gli effetti della crisi finanziaria e più vive sono le nostre preoccupazioni.
Occorre allora partire da alcuni presupposti che consentano una pacata considerazione del problema meridionale. Un duplice profilo di analisi è opportuno: da un lato una veloce disamina dell'attuale situazione macroeconomica del Mezzogiorno, dall'altro la individuazione di alcuni aspetti strutturali di difficoltà, tra l'altro spesso condivisi con il Nord. Il perdurante ritardo dei territori meridionali si rispecchia in poche, emblematiche cifre; come confermano le indagini della Banca d'Italia, nel Mezzogiorno risiede un terzo della popolazione italiana, ma vi si produce soltanto un quarto della ricchezza nazionale e si genera appena un decimo delle esportazioni italiane. Tra gli altri, ci deve preoccupare in particolare il dato relativo ai giovani che abbandonano prematuramente gli studi, pari, nel 2009, al 23 per cento nel Mezzogiorno a fronte di un valore del 16,5 nel centro-nord.
A fronte di tale dato, i fenomeni che rendono deboli le regioni meridionali sono noti: l'elevata diffusione del lavoro irregolare, consistenti flussi emigratori dei migliori giovani laureati, le difficoltà nell'accesso al credito da parte del sistema produttivo, la talvolta biasimevole qualità dei servizi pubblici. E tuttavia, autorevoli politologi sono propensi a credere che soltanto dal definitivo superamento delle attuali condizioni di sottoutilizzo delle risorse meridionali, possa discendere un duraturo processo di sviluppo e di crescita per l'intero Paese.
Ma c'è poi un altro fattore di ritardo che connota in negativo il nostro Paese; il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella irrinunciabile rete di infrastrutture ormai comune invece all'intera Germania. La bassa dotazione infrastrutturale del Meridione trova riscontro nella insufficienza dei capitali pubblici attivati, nel più elevato tasso di contenzioso, nella diversa tempistica di progettazione ed affidamento dei lavori. Spiace dovere constatare che, secondo recenti rilevazioni del Ministero per lo Sviluppo Economico, le opere pubbliche revocate, perché non avviate dopo il finanziamento, sono in numero di 3 nel centro-nord ed in numero di 15 nel Mezzogiorno; in termini di risorse assegnate dal CIPE si perdono così il 4% dei finanziamenti nel Centro-nord ed il 10% del Sud.
Infrastrutture e legalità rappresentano quindi due pesanti fattori di condizionamento dell'economia meridionale. Mi sembra opportuno ora aprire uno spazio di riflessione sui servizi pubblici, muovendo dalla consapevolezza che sanità, trasporti, igiene ambientale, forniture idriche, istruzione, politiche socio-assistenziali costituiscono i mattoni fondamentali dell'edificio civile. La loro evidente insufficienza appare tanto più grave e penalizzante proprio nel contesto territoriale del Mezzogiorno nel quale la spesa pubblica è trainante e talora rappresenta l'unica alternativa al vuoto di investimenti privati. Il Sud in questo campo spende molto e male. E ciò anche per effetto della prassi invalsa nei territori meridionali di dilatare a dismisura gli organici pubblici, nella fallace convinzione di assolvere, per questa via, ad una "nobile" funzione di surroga del lavoro che purtroppo manca.
Nel ciclo dei rifiuti e dell'igiene ambientale il ritardo del Mezzogiorno risulta tanto accentuato da non richiedere particolari analisi statistiche. La percentuale di raccolta differenziata sul totale dei rifiuti prodotti varia dal 33% del centro-nord al 10% del Mezzogiorno, con un preoccupante 6,6% in una delle più grandi regioni italiane: la Sicilia. La forte prevalenza delle discariche è un problema tutto meridionale, mentre la presenza di impianti di termovalorizzazione dei rifiuti si ragguaglia nel mezzogiorno all'11% dei rifiuti trattati, a fronte del 33% dei rifiuti prodotti.
In definitiva i dati statistici Istat, corroborati da una serie di pregevoli studi, evidenziano un ritardo piuttosto accentuato del Mezzogiorno, rispetto al centro-nord, in ordine alla qualità ed alla copertura del fabbisogno dei servizi pubblici. La crisi ha colpito più il Sud; e le politiche congiunturali di risposta a tale situazione davanti alle stringenti necessità della finanza pubblica hanno anche utilizzato risorse assegnate allo sviluppo, il FAS, distogliendole dalle finalità proprie.
In tale ambito si può rilevare che tutta la nazione è in difficoltà e varie problematicità del sistema Paese sono comuni e condivise tra Nord e Sud: il debole incremento di produttività, la poca innovazione, lo scarso sviluppo infrastrutturale, la difficile gestione della riforma della Pubblica Amministrazione. Ma proprio una tale situazione ci fa ritenere che, quando ci sarà la ripresa, la struttura produttiva settentrionale, che è molto più internazionalizzata, si aggancerà con facilità ad essa.
Ma cosa fare nel Mezzogiorno per evitare che paghi con un ulteriore ritardo le sue difficoltà strutturali? Forse bisogna prendere consapevolezza che vi è un problema di crescita ineguale che si presenta dall'epoca dell'unità politica del paese. Su una tale prospettiva, come meridionali, non possiamo appiattirci, né dobbiamo arrenderci. Il dualismo del sistema economico italiano continua ad essere una costante, che però ha assunto negli ultimi anni valenze differenti, in considerazione dei vincoli e delle opportunità connessi ai processi di integrazione europea e di globalizzazione. Devono essere presi in considerazione i mutamenti, che hanno riguardato sia la struttura reale che quella finanziaria.
In rapida sintesi, una analisi obiettiva fatta sui dati di tutto il periodo dal dopoguerra ad oggi mostra che le disuguaglianze si sono ridotte considerevolmente nei primi due decenni ed aggravate di nuovo in seguito alla riduzione dei tassi di sviluppo dell'economia dai primi anni Settanta in poi. Oggi, dopo questo ulteriore fallimento, i problemi del dualismo nel nostro Paese sono trattati quasi con timore, stretti come siamo tra i ricordi degli sprechi storici delle politiche per lo sviluppo e le avviate tendenze di assetto federalista dello Stato, che rendono necessario individuare corrette procedure di trasferimento di risorse verso le regioni meridionali.
La capacità di intraprendere un sentiero virtuoso di sviluppo è nei fatti connessa ad altri fattori: sia alla evoluzione delle strutture reali del sistema economico, che agli aspetti di natura finanziaria. Inoltre le istituzioni assumono un ruolo trainante per lo sviluppo. Il Sud è parte di un sistema più ampio, che, su scala europea, secondo una serie di indicatori socioeconomici supera di norma alcuni paesi comunitari meno sviluppati, ma è ancora drasticamente lontano dai livelli del Centro-nord.
Nel Mezzogiorno vive un terzo della popolazione, ma si produce solo un quarto del reddito nazionale, per cui si ha una percentuale di disoccupazione più elevata, un basso tasso di attività, aree di economia illegale, molta economia sommersa che spesso è contigua a fenomeni di attività criminale e delinquenziale. Il federalismo può rappresentare l'occasione data alla classe politica per investire in un fattore fortemente connesso alla relativa arretratezza del Sud, cioè il deficit di "capitale sociale". In pratica il rispetto di regole generali, condivise e difese istituzionalmente è un fondamentale presupposto per innescare virtuosi processi di sviluppo in cui fare emergere e sviluppare quelle capacità imprenditoriali che restano spesso "sommerse" a causa del contesto socio-economico sfavorevole.
I sostenitori del federalismo fiscale basano le loro argomentazioni su motivazioni che riguardano il rafforzamento della partecipazione politica e del senso della comunità democratica, nonché su una migliore protezione dei diritti e delle libertà dei cittadini. In sostanza, vorrei sottolineare questa apparente contraddizione: sembrava fino a poco tempo fa che il dibattito sul federalismo riguardasse prevalentemente una "questione settentrionale", territorialmente la cosiddetta "Padania", ma esso è da valutare con attenzione e discernimento anche nei riguardi del Mezzogiorno.
In questo orizzonte, una azione concertata e incisiva di aiuti al Mezzogiorno può fare leva comunque su solide realtà economiche che comunque non mancano, vere e proprie isole di eccellenza che operano però in condizioni spesso assai difficili. Eppure, anche la manovra in atto, pur in quadro di interventi correttivi, dimostra attenzione specifica al Sud. Lo fa con la previsione di misure ad hoc per la fiscalità di vantaggio, o in tema di regime fiscale di attrazione europea e di reti di imprese, come pure nella previsione di zone a burocrazia zero per le imprese insediate nel Mezzogiorno.
Da questo quadro discende un pressoché unanime consenso, al Nord come al Sud, sul fatto che ormai si rende necessario individuare formule di intervento verso il Mezzogiorno efficaci e soprattutto capaci di supportare la ripresa di uno sviluppo durevole e non assistenzialistico. n un tale quadro va valutata l'adozione dei principi di federalismo fiscale nel nostro Paese, come introdotti con la legge n. 42 del 2009.
L'opzione federalista, che è ancora in via di definizione nei suoi principali aspetti applicativi, è infatti imperniata sui due principi. Il riconoscimento di finanziamenti centrali vincolati a standard di efficienza che comportino una responsabilità diretta delle Amministrazioni locali e una più marcata capacità impositiva regionale, da cui deriva un controllo diretto dei cittadini sull'utilizzo della raccolta fiscale: la formula vedo, pago, voto. Ma ciò che appare ancor più innovativo, è che il modello federale si pone come la base di una nuova capacità dei governi locali di favorire una amministrazione efficiente della spesa.
Ma il federalismo non può significare solo questo per il nostro Meridione. E' noto che affinché lo sviluppo del Mezzogiorno possa costituire una leva per la crescita dell'intera economia nazionale, è necessario agire su più fronti, individuando un percorso di riforme per molti versi strategico. Innanzitutto, il recupero dei divari richiede un innalzamento della qualità dei servizi pubblici: istruzione, giustizia, sanità, sicurezza sono aspetti essenziali non solo per la qualità della vita dei cittadini ma anche per la competitività delle imprese. Occorre dunque proseguire nell'azione di riforma delle Amministrazioni pubbliche, potenziare l'utilizzo di strumenti di valutazione dell'operato dei singoli comparti. La trasparenza consente infatti un più consapevole vaglio a parte dei cittadini, può favorire il raggiungimento di standard minimi di qualità nei servizi pubblici essenziali. Va poi integrata con un'azione di riordino delle strutture amministrative e delle loro prassi di funzionamento.
Semplificare gli adempimenti normativi e ridurre gli oneri burocratici sono passi necessari per rendere più agevole lo svolgimento delle attività imprenditoriali. L'impegno delle istituzioni va poi sostenuto anche dalla società civile. Affinché il Paese, e non solo il Mezzogiorno, possa cogliere i benefici della ripresa, e spostarsi su un più elevato sentiero di sviluppo, è importante realizzare le condizioni all'interno delle quali le imprese migliori possano trarre vantaggio dai benefici della concorrenza e le risorse più qualificate possano valorizzare le proprie capacità. Condizioni che se la società civile lo consente e non interferisce con atteggiamenti distorsivi, quali ad esempio vaste aree di economia sommersa ed illegale, divengono pertanto elementi chiave di modernizzazione della società e del sistema economico, partecipando in maniera fisiologica alla promozione dello sviluppo.
Non si può non tener conto che la realtà del nostro Mezzogiorno è più complessa ed articolata di una proposta di riforma, per quanto meditata, come quella federale. Questa, seppur condivisibile, non riesce a catturare le tante complessità della società meridionale piena di luci ed ombre, di qualità personali e difetti collettivi. In una chiave di lettura più ampia, il nuovo costituzionalismo deve pertanto interrogarsi in modo serio sul nuovo ruolo del Parlamento in un sistema di proliferazione dei centri decisionali. Esso può continuare ad essere Parlamento-legislatore ovvero, come ritengo forse più probabile e coerente con il nuovo assetto dei poteri, può acquistare un nuovo ruolo e una nuova autorevolezza come Parlamento-controllore, sia dell'azione dei pubblici poteri, nazionali e locali, come pure dell'attività, dei poteri cosiddetti tecnici, quali le autorità indipendenti.
Per questo le prossime riforme del Titolo V della seconda parte della Costituzione dovranno rafforzare ulteriormente le Regioni nel quadro istituzionale, nel presupposto di conferire al nuovo Senato la funzione di Camera di compensazione degli interessi, talvolta contrastanti, dello Stato centrale e delle autonomie locali. Penso dunque ad una Camera di rappresentanza e filtro degli interessi regionali; un simile soggetto istituzionale è anche necessario nella ottica del processo di adeguamento delle istituzioni al Trattato di Lisbona. Tale innovazione sollecita infatti una partecipazione autorevole ed articolata dei Parlamenti nazionali alla definizione del quadro normativo europeo.
Occorre però prestare massima attenzione alle ricadute dei processi di riforma istituzionale sulla capacità di tenuta delle stesse autonomie locali, in particolare di quelle del nostro Mezzogiorno. Le nostre Amministrazioni locali del Sud sono, purtroppo, molto spesso meno attrezzate a rispondere ai processi di riforma e a coglierne le opportunità che questi offrono. Personalmente, seguo con massima attenzione le ricadute territoriali di una riforma costituzionale in termini federalistici.
Dobbiamo chiederci tuttavia se le sole modifiche dei profili costituzionali del nostro Paese nella direzione di forme di autogoverno locale siano sufficienti a definire una nuova strategia di sviluppo per il nostro Mezzogiorno. Probabilmente occorre qualcosa di più che sappia valorizzare le risorse naturali, storiche e, sopratutto, culturali del Mezzogiorno: esse rappresentano una base di comuni fattori che contraddistinguono i suoi territori, concretizzando potenzialità di estremo valore per intraprendere un nuovo e durevole sviluppo e che attendono solo di essere sfruttate appieno. Non sempre a fronte di queste grandi risorse le nostre classi dirigenti sono apparse all'altezza del compito.
Con la chiarezza che gli sono propri, anche il Capo dello Stato ha voluto rimarcare recentemente la sostanziale inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali rispetto a quelle del Settentrione. Si tratta di un tema tanto più attuale e gravido di conseguenze alla luce del profondo processo di cambiamento che il federalismo fiscale impone alle nostre regioni. Nello specifico del nostro Mezzogiorno, infrastrutture e legalità rappresentano purtroppo due pesanti fattori di condizionamento dell'economia ancora troppo rilevanti.
Con questi aspetti occorre confrontarsi alla ricerca di una soluzione in chiave propositiva, se si desidera che il progetto della riforma federale abbia la possibilità di realizzarsi con una buona probabilità di pieno successo, per le aree del sud come per quelle del centro nord. In prospettiva, il nuovo modello di relazioni finanziarie intergovernative che si intravede pone anzitutto l'esigenza di allocare le risorse in base ad indicatori standard di costo e di fabbisogno finanziario che siano obiettivi e trasparenti, mediante un passaggio graduale dall'attuale al nuovo sistema.
Ma, contestualmente all'attuazione della legge sul federalismo fiscale, dovranno congiuntamente imporsi anche norme che, in un quadro complessivo di razionalizzazione dell'assetto strutturale e funzionale delle autonomie territoriali, definiscano, con certezza, le competenze e assegnino funzioni appropriate ai diversi livelli di governo del territorio. Si tratta della nuova Carta delle Autonomie, in corso d'esame alla Camera dei deputati.
In proposito, non sono mancate nel dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sul federalismo fiscale le osservazioni critiche in merito all'esigenza di definire con esattezza sin dalla approvazione della legge, anche i costi della riforma e della sua portata finanziaria: la mancanza di adeguati dati ed elementi informativi, anche di carattere statistico, sui costi della riforma, ha costituito infatti un limite da più parti segnalato. I prossimi provvedimenti di attuazione della legge costituiranno pertanto un banco di prova importante per valutare la riforma sotto l'aspetto della sua sostenibilità, in tutti sensi.
E' emerso, con chiarezza, il rischio che il nuovo sistema di relazioni finanziarie tra autonomie territoriali, se non calibrato e coordinato rispetto alle specificità dei diversi livelli di governo regionale e degli enti locali, conduca ad una condizione di pregiudizio per i territori economicamente deboli. E' dunque essenziale che con l'attuazione del federalismo fiscale, ispirata ad un autentico e responsabile spirito solidaristico, ci sia un ripensamento degli strumenti necessari ad attenuare il cronico gap di infrastrutture, sia materiali che immateriali a monte dei forti divari territoriali.
Da uomo del Sud - consentitemi in tutta franchezza - non temo il federalismo fiscale, perché inserisce dei modelli di competizione e efficienza, esaltando il principio di responsabilità degli amministratori. Con il federalismo fiscale, si innesterà un processo virtuoso di miglioramento della capacità di amministrare e verrà meno quel principio della finanza derivata e dei trasferimenti a pioggia dal centro alla periferia nei confronti di quelle amministrazioni che hanno amministrato male. E' uno sforzo per tutte le genti del Sud, eper i suoi ceti dirigenti.
L'unica strada per il rilancio del Sud va nella direzione del recupero di efficienza della spesa pubblica e della ritrovata credibilità delle classi dirigenti locali. In questa direzione sembra assai arduo esimersi da un processo di sostanziale rigenerazione delle classi dirigenti locali; un problema tutto meridionale e che può essere affrontato soltanto dai meridionali. Una classe dirigente all'altezza del compito dato, avrebbe titolo a porsi come interlocutore credibile nei confronti dello Stato e formulare le proprie istanze. Queste non possono più essere riconducibili al reperimento di nuove risorse finanziarie. Persino mantenere gli attuali trend di spesa sarebbe poco credibile.
E' un passo indietro quello che si impone; un passo che allontani il Mezzogiorno dalle politiche assistenziali e redistributive e lo avvicini invece allo sviluppo vero e duraturo. Un Mezzogiorno rigenerato nelle classi dirigenti potrebbe allora, credibilmente, porre allo Stato alcune irrinunciabili richieste. Personalmente ne vedo due: garanzia di legalità ed adeguate reti infrastrutturali. Alla base di questo grande e strategico "patto", Stato e Regioni meridionali sono chiamati a porre la irrinunciabile necessità di riscatto delle popolazioni locali. Non è un percorso agevole, quello qui delineato; ma è una strada percorribile, anche se ripida e non del tutto conosciuta a priori.
E' una sfida che vale la pena di affrontare, perché è previsto, seppure per alcuni anni, un robusto meccanismo perequativo. In una prospettiva di impegno per il cambiamento, una risorse fondamentale è soprattutto quella dei giovani, che sono chiamati a parlare e testimoniare la libertà nel Mezzogiorno e il valore pubblico aggiuntivo che qui riveste perciò il fare impresa.
Le Istituzioni tutte devono pertanto assumersi il dovere categorico di tutelare ed accompagnare i giovani nel loro percorso di formazione professionale e di realizzazione nel lavoro. E' questo l'impegno che dobbiamo assumerci come classi dirigenti per il bene e il destino dei giovani cittadini che a noi tutti guardano per uscire definitivamente, più forti di prima, da questa fase.
L'Italia del prossimo futuro è avviata verso un nuovo modello istituzionale. Uno Stato leggero, più vicino ai cittadini e alle Comunità locali, consapevole della dimensione europea e spesso mondiale dei problemi. Una amministrazione pubblica più efficiente e rispondente alle esigenze della collettività.
In conclusione, un auspicio. Vorremmo tra qualche anno essere in grado di fare la cronaca di un processo di sviluppo che abbia individuato la metodologia di un cambiamento positivo in vari ambiti; sicuramente quello economico e quello sociale, ma anche quello che si raccordi alla grande tradizione di cultura e civiltà del Mezzogiorno d'Italia. Se ciò avvenisse, risulterebbe concluso un lungo ciclo di dipendenza sociale, economica, istituzionale del Sud. La fine, cioè, di un'epoca da archiviare, perché il Mezzogiorno possa guardare al suo futuro con più fiducia ed ottimismo.