Centenario della nascita di Leo Valiani
14 Maggio 2009
Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori,
celebriamo oggi, a 100 anni dalla sua nascita, in questa sala che lo ha visto spesso protagonista, Leo Valiani. Onoriamo l'uomo, il combattente, il politico, il giornalista e lo studioso.
Valiani appartiene a quella schiera di uomini coraggiosi cui la Repubblica e le sue istituzioni devono la loro vita. Uomini che con coraggio seppero sacrificare la propria giovinezza per dedicarla all'impegno politico, alla lotta contro la dittatura e per la liberazione del nostro Paese.
Ricostruendo nel 1946, in un libro affascinante intitolato "Tutte le strade conducono a Roma", la sua epopea di combattente nella Resistenza, di cui fu uno degli indiscussi protagonisti, Valiani dedicò questa opera ad un amico scomparso e "a tutti i caduti della nostra parte e dell'altra". Vi è in questa frase - straordinaria per quei tempi - la cifra dell'uomo: sereno e profondamente equanime. Doti che caratterizzarono anche la sua attività di storiografo.
Eppure quest'uomo, nella lotta contro la dittatura e per la liberazione, si era speso senza risparmio. A soli 19 anni fu arrestato ed inviato al confino per la sua attività antifascista. Cresciuto in una famiglia cosmopolita tra Fiume, sua città natale e tanto amata, e Budapest; imparentato, tra l'altro, con il fondatore del sionismo Theodor Herzl, maturò un'incomprimibile passione politica reagendo alle violenze del regime. Questa passione lo condusse prima nelle fila del partito comunista, che gli appariva, come a molti giovani della sua generazione, il più efficace strumento di lotta al fascismo.
Gli anni del confino a Ponza e della reclusione a Lucca e a Civitavecchia, seguiti dall'esilio in Francia, furono anche anni di formazione. Scrisse in quegli anni: "Se fossi stato assegnato al confino a Lipari dove era Rosselli, credo che sarei entrato al suo seguito in Giustizia e Libertà".
I suoi primi incontri con l'antifascismo militante avvennero con membri del partito comunista: ciò segnò la sua scelta, che proprio al confino, tuttavia, subì una profonda evoluzione. Il contatto con comunisti eterodossi come Terracini e poi il decisivo incontro con Altiero Spinelli gli aprirono gli occhi sulle insanabili contraddizioni dell'esperienza comunista. Cruciale fu per lui la firma nel 1939 del patto Molotov-Ribbentrop e quindi l'incontro nel campo di concentramento di Vernet sui Pirenei con Arthur Koestler. Sarà Valiani a leggere per primo il manoscritto di "Buio a mezzogiorno", straordinaria opera letteraria che contiene una condanna radicale dell'esperienza comunista. Così Valiani, sulla scia di Koestler e Spinelli, abbandonò il partito comunista.
Ma la passione politica non lo lasciò. Fuggito dal campo di concentramento si aprì per lui una ricca esperienza professionale e culturale in Sud America. Lì lo coglie la notizia della caduta di Mussolini. L'urgenza della lotta politica lo riporta rocambolescamente in Italia, dove si ritrova così, sin dall'autunno del 1943, a battersi a fianco degli alleati, contro il regime e le truppe di occupazione naziste.
Chiusa l'esperienza comunista aveva aderito, come Spinelli, al partito d'Azione, di cui fu uno dei massimi dirigenti, assumendo la responsabilità delle reti clandestine nel Nord e divenendo componente, insieme a Sandro Pertini, Luigi Longo ed Emilio Sereni, del Comitato insurrezionale. Fu questo organo che firmò nel 1945 l'ordine di esecuzione nei confronti di Benito Mussolini.
Lo "spirito della storia" portò così questo uomo mite e giusto a combattere, a ordinare di "sparare sui nemici e a mandare alla morte amici, che il caso e la selezione della lotta avevano posto alle sue dipendenze", come scrisse lo stesso Valiani nel 1946. Ma il suo essere giusto lo portò al contempo a riconoscere, e lo troviamo sempre nel libro "Tutte le strade conducono a Roma", anche la "nobiltà" di chi era sul lato opposto della barricata, in quella guerra che ha insanguinato il nostro Paese.
Questa profonda umanità che affonda le sue radici in un'educazione cosmopolita, temprata dalle durezze della storia, fece di Valiani un protagonista anche nella vita politica dell'Italia liberata. Per il partito d'Azione fu componente della Consulta nazionale prima e dell'Assemblea costituente poi. Nei suoi discorsi, che il Senato ha pubblicato nel 2005 con la bella prefazione di Giorgio La Malfa, sono racchiuse le idee forti della sua azione politica: l'attenzione all'economia, che lo vide criticare gli eccessi del liberismo di Einaudi da posizioni riformiste di stampo keynesiano, la battaglia per la Repubblica, quella per l'unità dell'Europa e il convinto impegno, condiviso con Pietro Calamandrei e gli altri azionisti, per una forma di governo presidenziale.
Per gli azionisti un Esecutivo forte era la soluzione più adeguata per evitare che l'Italia si trovasse di nuovo nella situazione vissuta tra le due guerre e contraddistinta da governi di coalizione deboli e incapaci di rispondere alle sfide lanciate dai nemici della democrazia. Questo impegno per istituzioni forti e autorevoli segnerà l'esperienza successiva di Valiani. Sciolto il partito d'Azione, termina anche per Valiani il diretto impegno politico. E' una sorte comune a molti Azionisti - come Riccardo Bauer, Adolfo Tino, Franco Venturi - che ritornarono ad arricchire di idee e riflessioni preziose la cosiddetta società civile, lontani dal diretto impegno politico dopo che la loro mobilitazione era stata essenziale per la costruzione delle istituzioni repubblicane.
Per Valiani si apre così una feconda stagione di studi nella ospitale fucina della Banca commerciale italiana, sotto la guida illuminata di Raffaele Mattioli. Portò in quegli anni a compimento la sua opera storica più significativa, quella sulla fine dell'Austria-Ungheria, ove ripercorse con profondità di analisi e ampiezza di fonti l'esperienza della sua Mitteleuropea. A lui dobbiamo poi profonde analisi dell'esperienza resistenziale scevre di retorica, come anche una serie di studi sulla storia del movimento socialista.
Ma la voce di Valiani ritorna chiara e forte sulla scena pubblica italiana nel momento di massima crisi delle istituzioni repubblicane. Tutti ricordiamo i suoi editoriali sul "Corriere della sera". Da quella tribuna, a partire dagli anni '70, con lo stesso coraggio del combattente di un tempo e la limpida forza di chi la repubblica aveva in modo decisivo contribuito a costruire, Valiani rappresentò un punto di riferimento essenziale per molti italiani. Ritroviamo il suo appello per istituzioni forti, capaci di fronteggiare con fermezza le sfide che venivano poste dall'eversione di destra e di sinistra.
La stessa fermezza Valiani richiamava nella gestione dell'economia e del bilancio pubblico. Questa voce, per scelta del suo compagno di battaglie Sandro Pertini, tornò a vibrare di nuovo in Parlamento, nell'Aula del Senato, dal 1980. Sono tutti discorsi intensi e forti. Martellanti sono i richiami a superare leggi permissive, che consentono impunità ai violenti e diretti ad applicare invece, con la necessaria durezza, misure più severe.
Troppo forte era in lui il ricordo della debolezza dello Stato liberale. Nel suo discorso del gennaio del 1981 rammentò alla nostra Aula come "non venne ascoltato Matteotti nel 1921. Egli chiedeva la repressione poliziesca e penale del terrorismo - ricorda Valiani -. Gli si oppose la soluzione politica": quella stessa soluzione che portò Mussolini al Governo.
Vibranti furono anche le sue denunce contro l'inflazione, il dissesto dei conti pubblici, contro l'inefficienza degli apparati dello Stato e il diffondersi di quella che lui chiamava "la corruttela nella pubblica Amministrazione". Sono tutti elementi di una progressiva corrosione delle istituzioni democratiche che lo indussero a riproporre fino all'ultimo come ineludibile una profonda riforma del sistema politico e istituzionale.
Non vi fu mai in lui rassegnazione, ma sempre lucido entusiasmo. Commemorando nel 1979 il suo grande amico Ugo La Malfa, Valiani ricordò come molte delle speranze di una strutturale trasformazione del nostro Paese, che avevano animato gli anni della Resistenza, erano andate deluse. Ma subito dopo aggiunse: "è nella natura e nella storia degli uomini che non tutte le speranze si avverino. Se si avverassero per davvero i figli e i figli dei figli non avrebbero nulla di buono da aggiungere all'operato dei padri e dei nonni". Un messaggio carico di speranza e di ottimismo.
Ed è proprio con un'invocazione all'ottimismo che Valiani termina anche l'ultimo suo discorso in Parlamento, nell'Aula del Senato: "quando si è in battaglia bisogna essere ottimisti e volere la vittoria ad ogni costo e niente altro". Con questa passione e ferma volontà, Valiani ha condotto sino all'ultimo la sua battaglia civile, che costituisce oggi per tutti noi un esempio e uno sprone all'azione.