L'attualità del pensiero politico di Bettino Craxi
19 Gennaio 2010
Signor Presidente del Consiglio, Onorevoli ministri, Autorità, Signore e Signori, saluto l'On Stefania Craxi che ha voluto questo convegno in memoria del padre.
Oggi ricordiamo l'attualità del pensiero politico di Bettino Craxi, a dieci anni dalla sua scomparsa. Ricordiamo lo statista, Presidente del Consiglio dal 1983 al 1987, e l'uomo di partito, parlamentare dal 1968 al 1994, leader del Socialismo italiano dal 1976. Da Capo del Governo, di un Governo duraturo e stabile, Bettino Craxi seppe innanzitutto interpretare un ruolo attivo dell'Italia sulla scena internazionale. Fu un tratto distintivo della sua attività politica, sin dall'inizio quando, giovane segretario del PSI, nel motivare la fiducia al Governo Andreotti, nell'agosto del 1976, disse, "abbiamo a cuore l'indipendenza della politica estera del nostro Paese almeno quanto la sua libertà". A questo principio ispirò la sua azione che si sviluppò nella fedeltà verso i tradizionali alleati atlantici ed europei, a partire dal convinto sostegno alla scelta di schierare sul nostro territorio gli euromissili, ma sempre interpretata nel senso di permettere e garantire un ruolo originale all'azione diplomatica del nostro Paese, in particolare verso i Balcani ed il Mediterraneo. Questa dinamica autonomia e indipendenza permisero a Craxi di ottenere l'allargamento del G5 all'Italia e al Canada al vertice di Tokyo del 1986, a riconoscimento del ruolo del nostro Paese.
Sono caratteri che hanno marcato a fondo l'azione dell'Italia e che oggi ancora segnano la nostra politica estera, come ha dimostrato proprio la Presidenza italiana del G8 e il vertice de L'Aquila. Negli anni del suo Governo Craxi seppe guardare con occhio lungimirante alla crisi che attraversava il blocco sovietico, allacciando rapporti particolari con alcuni dei Paesi dell'Est, in ciò animato dalla volontà di rafforzare storici legami del nostro Paese con nazioni come la Polonia e l'Ungheria, ma anche da una forte spinta ideale. Quella stessa spinta ispirò la sua azione nei consessi europei, nel solco della migliore tradizione dei padri fondatori della nostra Europa. É una pagina di grande rilievo quella scritta da Craxi nel Consiglio europeo di Milano nel 1985. Grazie al suo stile, autorevolezza e convinzione riuscì a convocare la Conferenza intergovernativa che portò all'Atto unico europeo: il Trattato che spianò la via alla completa realizzazione del Mercato unico. Nelle memorie di Jacques Delors quel momento viene ricostruito come un'essenziale svolta nella costruzione europea, il cui merito lui stesso attribuisce alla capacità di Bettino Craxi nel condurre i lavori del Consiglio di fronte ai tentativi ostruzionistici del governo britannico. "Craxi era un uomo che sapeva decidere. Una virtù rara nell'Italia di quell'epoca", scrive Delors. Ed è proprio questa sua naturale capacità a divenire un talento decisivo nell'azione di governo. Un governo eccezionale già solo per la sua durata, dal 1983 al 1987. Il più lungo dai tempi di De Gasperi, prima del governo Berlusconi.
Craxi seppe restituire autorevolezza e centralità all'azione di Palazzo Chigi nel segno di una vera democrazia governante, che i suoi avversari bollarono come "decisionismo". Lo fece rompendo vincoli e gabbie del consociativismo, che legava la vita pubblica italiana, innanzitutto nel campo dei rapporti sindacali. È il famoso decreto di San Valentino del 14 febbraio del 1984 che corresse il rigido meccanismo della scala mobile aprendo la via all'affermazione di una vera politica dei redditi. L'azione decisa del Governo Craxi ricondusse il ruolo del sindacato - nel suo stesso interesse - nella sfera sua propria, spezzando quei rapporti diretti con i partiti politici, che costituivano un elemento negativo per un pieno dispiegarsi dell'attività propria delle organizzazioni sindacali. Con autorevolezza e vera capacità di decisione, Craxi riuscì poi a concludere la complessa negoziazione della revisione dei Patti lateranensi con un accordo, quello di Villa Madama del 1984, che superando anacronismi e privilegi storicamente datati, aprì una nuova fase nei rapporti tra lo Stato, la Chiesa e successivamente le altre confessioni religiose, sulla base di un profondo e limpido confronto parlamentare. Con la stessa energia Craxi affrontò l'altro nodo del sistema consociativo italiano: la questione dei rapporti tra Governo e Parlamento, dominati allora da un procedimento legislativo complesso che privava il Governo di un qualunque ruolo di indirizzo nella programmazione dei lavori delle due Assemblee, sottoposte allora continuamente alle forche caudine del voto segreto e contrassegnate da un endemico assenteismo. Qui l'ambizione riformatrice si scontrò con le resistenze del sistema partitico; e così molte delle riforme pur messe in cantiere da Craxi furono varate dal Governo De Mita nella legislatura successiva. Craxi che più di ogni altro, con la sua voglia di cambiare, aveva dato alla Presidenza del Consiglio una nuova immagine non riuscì così a modificare le "regole del gioco", ad essere fino in fondo l'artefice di un vero percorso riformatore delle nostre istituzioni.
Nel momento di massimo successo del suo Governo fu addirittura costretto ad una crisi, oggi incomprensibile, generata dalla regola, tutta partitocratrica, del cosiddetto "patto della staffetta", che non volle accettare. In quella vicenda che segnò la fine della IX legislatura, che gli impedì di presentarsi agli elettori per sottoporre loro il bilancio dell'azione del suo Governo, Craxi seguì e finì per subire le regole della "Repubblica dei partiti", le sue liturgie, che portarono alla paradossale conclusione della legislatura con l'irrituale sfiducia al Governo Fanfani, promossa dal suo stesso partito. Craxi era un socialista figlio del suo partito che ha profondamente amato, figlio di una cultura che non concepiva l'azione politica al di fuori dei partiti. Seppe innovare il suo partito ancorandolo solidamente alla cultura liberal-democratica. All'interno di quel partito più che in altri si sviluppò negli anni '80 un dibattito profondo e ricco sulla crisi della forma partito, sulla necessità di superare la tradizionale struttura del partito di massa con un "polo di aggregazione che affidi la sua forza alle opzioni che offre sui complessivi problemi di governo", così affermava Giuliano Amato in un anticipatore editoriale apparso su Mondo operaio nel 1981. Furono Craxi e il Partito socialista a porre poi la questione della "grande riforma", e cioè di un profondo aggiornamento della Carta costituzionale. Nella Conferenza di Rimini del 1982 si parlò della necessità di governi fondati su un "patto di legislatura", rotto il quale sarebbe stato automatico lo scioglimento del Parlamento. Sempre in quella sede si avanzò l'ipotesi dell'elezione diretta del Capo dello Stato. Sono le questioni che ancora oggi dominano il nostro dibattito politico, in un contesto tuttavia nuovo, segnato dalla fine della cosiddetta "Repubblica dei partiti" e dall'affermazione, invece, di un confronto politico contraddistinto dal bipolarismo e dalla investitura popolare diretta dei governi. Craxi per la sua cultura non concepiva la politica al di fuori dei partiti e pur avendo più di ogni altro compreso le fragilità e la necessità di una riforma del sistema, ad esso rimase fino all'ultimo fedele. In questo senso va letto anche quel suo famoso intervento del 2 luglio del 1992 nell'Aula di Montecitorio; come un forte richiamo alla responsabilità collettiva di tutti gli attori del sistema politico di allora di fronte alla crisi morale, istituzionale ed economica che toccava in quei giorni il suo momento più alto.
Una crisi - legata anche a fenomeni diffusi di corruzione della vita pubblica - che, come si vide negli anni seguenti, chiuse l'esperienza della "Repubblica dei partiti" segnandone la fine. Una crisi che vide offerta, da un ceto politico intimorito ed esausto, come "vittima sacrificale", la figura dello statista che oggi qui ricordiamo. E da qui l'aggressione (non solo morale), il processo, la condanna, la forte determinazione a trascorrere gli ultimi anni di vita all'estero e la morte che lo colse in terra straniera. Quella esperienza e anche la sua tragica conclusione ci deve essere oggi di monito, innanzitutto quanto alla necessità di portare a compimento la lunga transizione, ridefinendo con un metodo condiviso un nuovo sistema di regole. Sono fiducioso che lo spirito con cui si è avviato il confronto sulle riforme istituzionali in Senato sappia produrre frutti che si nutrano anche dell'insegnamento delle esperienze - anche positive - che qui oggi ricordiamo. L'esperienza politica di Craxi è stata testimonianza della necessità di cambiamento e ritengo che gli anni trascorsi ci consentano di esprimere oggi quel giudizio storico più sereno e obiettivo che quei momenti drammatici ormai lontani non consentirono di dare. A ciascuno di noi il compito di riflettere su Craxi e su una stagione drammatica che non ha consentito di valutare con serena obiettività comportamenti diffusi non solo nelle responsabilità personali. Per Craxi non ci furono sconti. Ha pagato più di ogni altro colpe che erano di un intero sistema politico.