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.:: Dati anagrafici ::. |
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Data di nascita: | 01/27/1815 |
Luogo di nascita: | DASINDO (Impero Austro-ungarico) - oggi fraz. di Lomaso (Trento) |
Data del decesso: | 09/05/1884 |
Luogo di decesso: | ROMA |
Padre: | Carlo Gaetano |
Madre: | DE MONFRONI, nobile di Monfort Francesca |
Nobile al momento della nomina: | Si |
Nobile ereditario | Si |
Titoli nobiliari | Nobile |
Coniuge: | BASSI Luigia (Luisa) |
Coniuge: | ARNAUDON Lucia |
Figli: | Riccardo, morto infante, figlio della prima moglie
Rita, morta infante, figlia della prima moglie
Elisa (Ersilia), figlia della prima moglie |
Fratelli: | Massimiliana, che sposò Valentino BOLOGNA |
Parenti: | PRATI Giovanni Bernardo, avo paterno
PRATI SAVONAROLA Giustina, ava paterna
PRATI Domenica, zia, sorella del padre, che sposò Stefano ZAMBOTTI
PRATI Antonia Maria, zia, sorella del padre, che sposò Giuseppe ZORNO
PRATI Camilla, zia, sorella del padre, che sposò Antonio CHEMELLI
PRATI Orsola, zia, sorella del padre, che sposò Mariano LEVRI ZU HSENFELD
PRATI Gaetano, zio, fratello del padre, che sposò Caterina DE NEGRI DI MONTENEGRO |
Luogo di residenza: | ROMA |
Indirizzo: | Piazza S. Claudio, 96 |
Professione: | Poeta |
Carriera: | Storiografo della Corona |
Cariche e titoli: | Direttore dell'Istituto di magistero di Roma (1871)
Membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione (6 aprile 1862-dicembre 1866) (20 ottobre 1867-10 maggio 1883)
Membro della Giunta del Consiglio superiore della pubblica istruzione (13 maggio 1881-10 maggio 1883)
Socio dell'Accademia della Crusca di Firenze (28 giugno 1881) |
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.:: Nomina a senatore ::. |
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Nomina: | 05/15/1876 |
Categoria: | 19 | I membri ordinari del Consiglio superiore di istruzione pubblica
dopo sette anni di esercizio |
Relatore: | Francesco Pallavicini |
Convalida: | 06/06/1876 |
Giuramento: | 06/06/1876 |
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.:: Camera dei deputati ::. |
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Legislatura | Collegio | | Data elezione | Gruppo | Annotazioni |
VIII | Penne | | 26-10-1862* | Sinistra | Ballottaggio il 1° novembre 1862. Annullamento dell'elezione il 20 novembre 1862 |
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.:: Atti parlamentari - Commemorazione ::. |
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Atti Parlamentari - Commemorazione
Sebastiano Tecchio, Presidente
Ed ecco un altro insigne/ preda alla fossa!.
Con queste dolenti note Giovanni Prati cominciava la sua stupenda canzone in morte di Giovanni Berchet, il 24 dicembre 1851. E queste dolenti note, o signori, io ripeto, dappoiché nella sera dei 9 corrente Giovanni Prati ha dato l'ultimo suo respiro.
Era nato di nobile e agiata famiglia il 27 gennaio 1815 [sic] in Dasindo, piccolo villaggio della valle del Sarca, nel Trentino. Fu mandato per gli studi ginnasiali a Trento; e li terminò a quindici anni. Potrei accennarvi che in quelle scuole ogni anno guadagnò il primo premio. Ma più mi preme notare che que' padri maestri, accorgendosi come rapidamente ei salisse in bella fama di scrittore robusto, elegante e fecondo, si fecero solleciti a raccogliere in uno splendido libro i componimenti che il discepolo aveva dettati nella lingua italiana e nella latina: e altresì mi preme avvertire che sin da allora gli erano state, e furono sempre dappoi, caramente dilette sopra d'ogni altra le opere di Plutarco, di Virgilio, di Dante.
Fornito il corso ginnasiale, se ne andò, così volendo il genitore, all'Università di Padova per gli studi del Diritto; e ottenne la laurea in civile e in canonico: ma, poco o niente piacendogli l'arringo forense, è rimasto sempre fedele a' suoi primi amori, le poetiche fantasie.
Menarono grande rumore nel 41 i suoi cinque canti, dal titolo Edmenegarda, che raccontano, secondo strettissima verità, un caso di ardente amore e di violato talamo, succeduto in Venezia (se mal non ricordo) nel 39.
Affermò il Prati medesimo che, innanzi di mandare quei canti pei torchi, avea chiesto ed avuto il parere ed il placito del Manzoni, del Torti e del Grossi, i quali perciò furono da lui chiamati i padrini della Edmenegarda.
È risaputo che Cesare Correnti, non appena finito di leggere i Cinque Canti, imbattendosi in Carlo Tenca, uscì lietamente nella magnifica esclamazione: habemus pontificem. E sebbene il Tenca a quella esclamazione non abbia voluto acconciarsi, certo è che dagli occhi e dai cuori del più gran numero dei culti italiani, specie dei giovani, i versi della Edmenegarda cavarono pietose lagrime e cocenti sospiri.
Annoverare un per uno i lavori poetici del Prati, che vennero appresso, sarebbe cosa lunghissima, e per avventura soverchia; conciossiaché, poco meno che tutti, si veggano pubblicati nei cinque volumi dati fuori dalla casa editrice Guigoni di Milano, l'anno 1875.
Meglio importa di rammentare che in quei lavori il genio di Giovanni Prati si manifesta ardentissimo di patrio affetto, e altamente devoto ai Reali di Savoia, pel senno e pel braccio dei quali fermamente vaticinava che l'Italia sarebbe per giungere a libertà, independenza, unità.
A chi mai è caduta dalla memoria l'ode nobilissima da lui tessuta nella morte di Carlo Alberto?
Io per me non mi perito di asserire che a dipingere gli ultimi aneliti del Re, credente in Dio e nella patria, nessuna strofa potea valere meglio che questa: "Muore fissando immobile/ del Nazaren la croce: / e nel morir quest'ultima/ forse ineffabil voce/ mormora il Re: "Parlatemi/ della mia Italia ancor!".
Non voglio tacere che, a cagion della fede posta dal Prati nella casa Sabauda, gli fu apposta più volte la taccia di cortigiano, o, come altri diceva, "menestrello di corte". Ma oggimai nessuno tra i testimoni della nostra iliade e della nostra epopea, nessuno oserebbe negare che Prati è stato propriamente il profeta dell'ìtalica redenzione.
Anche il suo stile fu messo a bersaglio di censure, di contumelie.
E qui basta rispondere che quello stile gli ha cattivato la stima e le laudi di Giuseppe Giusti, di Giuseppe Montanelli, di Luigi Carrer, e, a non parlare degli altrettali, di quel preziosissimo oratore e poeta che fu Giuseppe Barbieri.
Tuttavia al coro di tanti illustri non chinarono il capo i mediocri ed i botoli, che odiavano il Prati sol perché questi a quando a quando li avea rintuzzati con olimpico sdegno. Ond'egli ebbe ricorso a uno spediente argutissimo. Scritte, sotto il nome di Aulo Rufo, alquante poesie di sapore oraziano, le diede a un giornalista di Torino, che sotto quel nome le ha divulgate. Ed ecco subitamente i mediocri ed i botoli battere le mani ad Aulo Rufo, e levarne al cielo il bello ingegno e la forma elettissima, e andar gridando, Aulo Rufo esser egli il genuino erede dei classici, e da lui spodestato e via cacciato il giovane temerario. Or chi dirà la vergogna che ne sentirono quando lor venne contezza che Aulo Rufo non era di Giovanni Prati salvoché l'ombra, la larva?
Poteva dunque lo scrittore di Edmenegarda, di Storie e fantasie, e dei Nuovi Canti, e delle dieci Lettere a Maria, e delle Ballate, e del Conte Verde, e del Conte di Riga, e della Battaglia d'Imera, e della Leggenda Satana e le Grazie, e di Psiche, e di Iside, e dei Canti politici, poteva quetamente fruire le glorie meritamente acquistate, e lasciare in non cale i latrati della livida invidia.
Ma inacerbivagli l'animo un pensiero crudele, la servitù delle balze native! Era partito da quelle nel fiore della giovinezza; e del continuo aveva aspirato a tornare lassù; tornarvi, non appena il Trentino fosse tolto agli estranei, e alla madre patria restituito. Ma il suo voto era stato sempre frustrato: e, che è peggio, soldati italiani, dopo aver una e due volte (nel 59 e nel 66) poco men che toccate le porte della turrita città, avean dovuto tornare addietro! e tra il Regno d'Italia e gli Absburghesi era stata soscritta la pace!
Bene è vero che nel 60 il Governo del Re aveva offerto al Prati la Cattedra di eloquenza nel dottissimo Ateneo di Bologna; e nella ottava legislatura gli elettori di Penne lo avevano inviato alla Camera dei deputati; ed era stato insediato nel Consiglio Superiore della pubblica istruzione, e creato eziandio direttore dell'Istituto superiore di magistero femminile in questa metropoli; e l'Accademia della Crusca lo aveva chiamato a socio corrispondente; e Re Vittorio Emanuele addì 15 maggio 1876 lo avea fatto iscrivere nell'Albo dei senatori. Ma tali ed altre onoranze, comeché mitigasero i suoi dolori di patriota, non consentivano che egli dimenticasse la sospirata Dasindo, la valle benigna e pia che già raccoglieva le ossa del padre suo e della madre, l'uno e l'altra amatissimi! E a codeste memorie e a quella povera valle guardava mestissima, e omai senza speranza, la sua mente, il suo cuore; talché nel secondo semestre del 1883 i famigliari e gli amici vedevano che a poco a poco la vita gli venia meno.
Morì, come dissi, la sera del 9 di questo maggio; morì tra le braccia della moglie e della figlia desolatissime; morì dopo aver voluto dinanzi agli occhi il busto di urbano Rattazzi che (a segnacolo dell'amicizia ond'ei fu strettamente congiunto a quel grande uomo di Stato) sempre avea custodito nella camera stessa nella quale aspettava l'ora suprema!
Dormi, o Giovanni Prati, desideratissimo collega nostro, dormi la pace dei giusti; e ti sorviva nell'anima la fiducia che l'Italia, come tu l'auguravi, abbia ad essere tutta nostra, ossequente ai patri istituti, savia sempre, felice, e gloriosa!
Ora do lettura del seguente telegramma ricevuto dalla Associazione letteraria di Barletta: "Associazione letteraria Barletta manda sincere condoglianze morte illustre poeta Prati, pregando volersi rendere interprete tali sentimenti anche presso famiglia estinto.
Il Presidente Ing. Rutigliano".
COPPINO, ministro dell’istruzione pubblica. Domando la parola.
PRESIDENTE. Il signor ministro dell’istruzione pubblica ha la parola.
COPPINO, ministro dell’istruzione pubblica. Il Governo non deve che ripetere oggi la parola che un mio onorevole collega disse sabato, che cioè tutta la nazione sentiva profondo dolore per la perdita del grande poeta, e che in nome del Governo si associava a quelle manifestazioni le quali potessero significare la reverenza di noi tutti per un altissimo ingegno. Né oggi io direi parola, se l’essere ritornati un’altra volta sul glorioso nome di Giovanni Prati in quest’Aula, non mi ponesse nell’obbligo di ringraziare il Presidente di questo consesso che è la più alta rappresentanza della nazione, dell’aver voluto incominciare una seconda tornata colla commemorazione dell’illustre estinto. Io non dirò del poeta. Da nove lustri ne parla l’Italia.
E invece di accennare ai titoli di lode farò un voto, e cioè che i libri suoi seguitino ad essere nelle mani e nella mente dei giovani, e inspirino quell’altezza di sentimenti, quei vivi e forti amori, i quali per durata di tempo e per varietà di vicissitudini non si mutano; e rendo ad un tempo grazie all’onorevole Presidente del Senato ed al Senato.
La commemorazione d’oggi esci dall’ordine delle cose politiche.
Il Senato ha ascoltato ed applaudito la parola del suo Presidente, il quale ricordava uno dei grandi artisti del nostro paese. È una sosta attraverso alle questioni politiche questo che il Senato ha voluto riconsacrare al riconoscimento dell’arte, di quell’arte la quale ha costituito una grande gloria per il nostro paese che, fiore della civiltà e della potenza italiana in tanti tempi, aspettiamo che sia pure fiore della nuova potenza della patria nostra. Ma la commemorazione ha un altro significato. Voi avete posto all’arte un alto e nobile ufficio; in quest’uomo che l’Italia ricorda, non avete considerato l’artista per l’arte ma avete considerato l’uomo il quale all’arte ha confidato una grande missione morale e civile.
Il Prati ha raccolto quanti sono nobili sentimenti negli animi umani; nei canti del popolo ne sente i dolori, e ne addita le speranze, e con le speranze addita le gioie le quali possono consolare questi animi dolenti.
Alla gioventù egli parla degli ideali nobilissimi della patria; egli la sente, egli la indovina, egli in un periodo che di otto o nove anni precede la missione grande commessa a casa Savoia, si disegna da sé, come ha detto il nostro Presidente, a poeta di questa Casa.
Per il poeta Prati l’arte fu un sacerdozio.
Né vi faccia senso, se lungo la vita sua nessun’altra cosa ha cercato, se non se quella di cantare per elevare l’animo degli italiani ai grandi ideali del bene e della patria.
Questa più solenne testimonianza di amore al poeta della nuova Italia è resa (mi conforta il dirlo) assai bene imperocché, o signori, i popoli possono diventare ricchi, possono anche diventar colti e potenti, ma non assicurano le loro ricchezze, la coltura, il potere, se non nobilizzando, se non innalzando l’animo loro all’alto segno del bello compenetrato fecondamene nel bene.
Ideali simili debbono essere grandi e generosi; e di coloro i quali in mezzo dei popoli hanno diffuso questi sentimenti purissimi, applauditi oggi o vituperati ieri, da un paese raccolti, da un altro scacciati, ma fedeli sempre a questa loro missione, è giusto, e degno davvero che il più onorando consesso dello Stato sulla tomba scriva: "Questi han bene meritato della patria".
Io ringrazio pertanto il Senato, che ha voluto onorare per mezzo del suo Presidente la vita e il genio del poeta Prati (Voci: benissimo, bravo).
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 12 maggio 1884.
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