Domenico Farini, Presidente
Signori Senatori!
Pietosa consuetudine vuole che noi mestamente volgiamo il primo pensiero ai nostri trapassati.
Dico adunque che dappoi il nove di agosto morirono i senatori [...] Di Calabiana [...].
Monsignor Luigi Nazari di Calabiana, l’ultimo superstite dei senatori nominati l’anno 1848, morì nella prima ora del 23 di ottobre.
Nato a Savigliano il giorno 27 di luglio dell’anno 1808, fattosi prete, giunse sollecito ai sommi gradi della gerarchia, tanto che il 12 aprile 1847 era già vescovo di Casale.
All’alta dignità lo avevano scorto vita esemplare, dottrina, pietà; sempre più lo innalzarono mansuetudine evangelica, apostolico zelo.
I tempi nuovi, il novissimo fascino d’un pontefice atteggiato ad iniziatore del rinnovamento italico esercitarono sull’animo suo influsso potente. Lo ricordano le memorie di quel tempo ed i primi atti del Senato, che lui non quarantenne, registrano assenziente al deliberato per cui al Re largitore dello Statuto si offeriva di abbandonare la nostra prerogativa vitalizia, se il bene dello Stato lo esigesse.
Ma, ai primi dissidii fra le potestà civile e la ecclesiastica, quando gli parvero usurpati i diritti della Chiesa, offesa la religione, sbassata la morale, egli sorse dei primi in Senato oppugnatore riciso.
Le leggi per abolire il Foro ecclesiastico, per introdurre il matrimonio civile, per sopprimere le corporazioni religiose, costantemente, eloquentemente combattè.
Intorno all’ultima delle quali nell’anno 1855, proponendo in nome dell’episcopato piemontese e coll’assenso della Santa Sede, un’offerta di danaro per fornire di congrua i parroci poveri, a patto si ritirasse perentoriamente la legge, fu cagione di improvvisa turbazione. Invero la proposta, quantunque informata a desiderio, a vivo sentimento di conciliazione e perché avrebbe dovuto essere principio e fondamento di nuove trattative per comporre ogni conflitto colla Romana Corte, e perché traeva seco l’abbandono d’un principio costantemente difeso e mai messo in dubbio nel diritto pubblico della Monarchia, parve un istante, quasi inopinata ed arcana trama, mettere a grave cimento le idee liberali, colle quali il conte di Cavour sapientemente iniziava e risolutamente effettuava tutto che valesse a sciogliere il Piemonte dai vincoli del passato, a farlo bandiera di civiltà, di libertà, d’Italia.
Crisi gravissima che fu ad un punto di sviare il corso degli avvenimenti, superata per la salda concordia della pubblica opinione, per la fermezza e lealtà di un uomo onorando, che sedette su questo seggio e sta in mezzo a noi a ricordo di una generazione fortissima, ad ammonire le nuove, mostrando loro la via del dovere e della patria. (Vive approvazioni).
Da quel punto, che fu il culminante della sua vita politica, monsignor di Calabiana non venne più in Senato, se se ne tolga un’ultima volta nel 1865, discutendosi l’unificazione legislativa, che diedegli occasione a ribadire gli argomenti di dodici anni innanzi contro il matrimonio civile.
Che se quello fu l’ultimo suo atto parlamentare, se da allora in poi ad altro non attese che all’ecclesiastico suo ministero, con fervore di sublime carità cristiana e civile, egli è morto senatore.
Nei penetrali della inviolabile coscienza poté forse lamentare qualcuno dei mezzi o dei fatti che condussero all’unità della patria; forse poté dolersi di ordinamenti e leggi con cui il nuovo regno si ammodernava. Ma per quanto in ispirito potesse rammaricarsene, mai non si affievolì l’antica sua devozione alla Casa dei suoi Re; né verso la potestà civile mai si scostò da conciliante mitezza. (Bene). Ed il suo nome venerato fregiò sempre l’albo nostro, quantunque altri possa avere desiderato che ne fosse tolto a pubblica onta d’un consorzio contaminato. (Molto bene). Corse anzi voce che la sacra porpora a tale prezzo rifiutasse; fu certo singolare che a lui vescovo dei più antichi, e fino dal 1867 arcivescovo dell’insigne metropoli ambrosiana, non fosse accordata. (Benissimo).
Né, nel governo della diocesi di Milano furono al virtuoso sacerdote risparmiati dolori da coloro che ribellandosi ad eventi ai quali, non foss’altro, come a decreto provvidenziale dovrebbero rassegnarsi, perfidiano nel rovello e facendo del pergamo tribuna, spada del pastorale adimano la religione in servigio degli interessi di quaggiù. L’alto carattere, l’opera benefica, la bontà; canizie veneranda, lungo e zelante ministero non gli furono scudo. Ma al cuore amareggiato dagli iracondi fu balsamo l’amore dei diocesani, consolazione la benevolenza onde gli fu in vita prodigo il Re, che da suo elemosiniere lo assunse a cavaliere dell’ordine supremo della SS. Annunziata ed addolorato accorse al capezzale del morente che con solenni suffragi, per la morte del gran Re suo padre, aveva partecipato al lutto nazionale. (Vive approvazioni). E noi rimpiangiamo il collega eccelso che nel suo lunghissimo corso mortale per ingenita virtù di coscienza immacolata, serbò una purissima unità di sentimenti e di opere. (Approvazioni generali vivissime).
[...] GIOLITTI, presidente del Consiglio. Domando la parola.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
GIOLITTI, presidente del Consiglio. Il ricordo, fatto dall'illustre presidente del Senato, dei meriti patriottici, della sapienza e dei sevigi
resi allo Stato nella scienza e nell'amministrazione dai senatori recentemente defunti, dimostra quanta somma e quanto valore
di patriottismo e di scienza sia andata perduta per lo Stato. Il Governo si associa dal più profondo del cuore al dolore del Senato
per così gravi perdite. [...].(Approvazioni).
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 23 novembre 1893.
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