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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Auguri di Natale al Quirinale

Quirinale, 19 dicembre 2001

Signor Presidente,

è per me un vivo piacere personale rivolgere a Lei i miei augùri più cordiali per il prossimo Natale e per l''anno che sta per cominciare, anche a nome del Presidente della Camera dei Deputati, del Consiglio dei ministri, della Corte costituzionale e di tutti i presenti.

Il mio augurio non è di circostanza, considerata la simpatia che nutro per la sua persona e l''apprezzamento per il modo con cui esercita il suo mandato e rappresenta l''unità della nostra patria.

Quello che si chiude, Signor Presidente, è stato l''anno dell''11 settembre. Quel tragico giorno non sono stati abbattuti soltanto due grattacieli simbolo di economia e benessere, uccisi migliaia di cittadini inermi e innocenti di varie nazionalità, colpita l''America. Quel giorno è stata colpita la nostra civiltà. Quella civiltà fatta di istituzioni democratiche, di diritti, di princìpi e valori di libertà, tolleranza, solidarietà, opportunità, integrazione, indipendentemente da credi religiosi, filosofici, ideologici o da appartenenze nazionali o razziali.

Questa civiltà non è la migliore possibile. È una civiltà imperfetta che abbiamo costruito con nobili sentimenti e ideali, ma anche con lotte, conflitti, persino eccidi e tragici bagni di sangue causati proprio dalla follia di chi riteneva che si potesse costruire l''"uomo nuovo", la "nazione superiore" o la "società di Dio". E però, mentre dobbiamo impegnarci a correggere i difetti di cui siamo consapevoli, dobbiamo anche riconoscere che questa nostra civiltà è la cosa più preziosa che abbiamo costruito. Dobbiamo dirlo non per un atto di arroganza verso altri, ma per un dovere di giustizia verso noi stessi, e per essere pronti a difendere ciò che con fatica abbiamo costruito.

È un segno di speranza che Stati prima diffidenti o ostili fra loro abbiano compreso la tragica gravità della sfida che ci aspetta e si siano coalizzati contro un avversario comune. Ed è un atto di saggezza politica che l''Italia partecipi a questa coalizione.

Introducendo così temi di casa nostra, quello che si chiude è stato per noi l''anno delle elezioni. Il voto del 13 maggio ha rappresentato una conferma e un cambiamento: la conferma del bipolarismo, ormai saldamente entrato nella coscienza degli Italiani, e il cambiamento della maggioranza politica e di governo voluto dagli elettori.

Si è così realizzata la prima condizione della democrazia dell''alternanza, in tanti paesi occidentali da tempo in vigore, in Italia da poco adottata. Democratico è quel paese in cui è effettiva la possibilità di cambiare i governanti ad opera dei governati se i governati ritengono che i governanti non abbiano soddisfatto le loro aspettative.

E però questo non basta. La democrazia dell''alternanza, oltre che forma delle istituzioni, è abito dei partiti e dei cittadini. Abito al confronto. Abito al riconoscimento di una comune cornice di princìpi, valori, interessi. Abito ad ammettere che la maggioranza non solo ha titolo legittimo a governare, ma il dovere di farlo. L''Italia è ancora nuova a questo abito. Dobbiamo sforzarci perché l''indossi meglio.

Fanno parte dell''abito politico dell''alternanza diversi elementi. Il riconoscimento pieno e reciproco di maggioranza e opposizione, la consapevolezza che le istituzioni non devono mai essere invocate a giocare ruoli di parte, la distinzione fra polemica politica e polemica istituzionale, il rispetto reciproco fra le istituzioni, la coscienza diffusa e pronta a scattare quando si tratti di beni comuni. Di alcuni di questi elementi l''anno che sta per finire ha già dato testimonianza. Mi riferisco in particolare ai voti comuni a quasi tutto il Parlamento sulla nostra missione in Afghanistan, sulla nostra volontà di partecipare alla costruzione europea, sulla condanna del terrorismo, sull''adozione di misure per contrastarlo. Per altri elementi si dovrà ancora fare un tratto di strada. Quanta, lo vedremo dalle scadenze e sfide che ci aspettano.

C''è in primo luogo la questione dell''integrazione europea. L''Europa è una necessità. Ce la impongono i morti causati dalle follie degli stati-nazione, il mantenimento e l''accrescimento del nostro benessere, della nostra difesa, della nostra sicurezza, i vantaggi che già abbiamo conseguito e di cui l''Euro che sarà tra giorni nelle nostre tasche è la più tangibile testimonianza.

Ora dobbiamo trasformare questa necessità in virtù. Dopo Laeken, abbiamo uno strumento, la Convenzione. Sta alla saggezza della Convenzione, la quale, purtroppo, parte aggravata da ben 59 punti interrogativi (compresi quelli che dovrebbero essere punti esclamativi) suggerire le ipotesi più ragionevoli. L''Europa, io credo, non deve essere una costruzione, neppure una costruzione illuminata. L''Europa deve essere, e deve essere sentita come, la soddisfazione di bisogni concreti. Il deficit democratico si colmerà solo se saremo in grado di combinare diverse esigenze: non trasportare i luoghi delle decisioni troppo lontano da dove si svolge la vita dei cittadini, trovare una collocazione non punitiva degli stati nazionali, accompagnare i processi di devoluzione verso l''alto con paralleli processi di devoluzione verso il basso, rendere effettivi i controlli, trasparenti le decisioni, efficienti le istituzioni. È un''impresa difficile, perché, e sarebbe miope non vederlo e non dirlo, la strada è oggi in salita, ma è un''impresa esaltante.

Sul piano interno, io credo che il problema più urgente che dobbiamo portare a soluzione sia quello del conflitto fra le istituzioni, in particolare fra la politica come si esprime nella volontà del Parlamento e la magistratura. Questo conflitto dura da troppo tempo, avvelena la vita politica, distoglie dai problemi reali. Dobbiamo chiuderlo, perché dobbiamo consegnare alla storia una pagina triste del nostro recente passato e andare oltre. Ciò si può fare se si soddisfano alcune condizioni essenziali: il rispetto della volontà del Parlamento sovrano; il rispetto dell''autonomia della magistratura, intesa come prerogativa e non come privilegio; l''essere dei magistrati - e non solo l''essere, ma anche l''essere percepiti come - indipendenti e imparziali; il rifiuto da parte dei magistrati della trasformazione della loro attività in azione anche indirettamente politica; il rifiuto corrispondente da parte della politica della trasformazione degli interventi sulla giustizia in strumenti di lotta o di tutela. Io credo che queste condizioni possano essere soddisfatte e registro con soddisfazione una consapevolezza sempre più diffusa. Dobbiamo procedere e, io penso, lo si potrebbe fare a partire da quelle riforme su cui non tanto tempo fa già si trovò un largo accordo. La lotta politica sulla giustizia deve finire anche perché ha già una vittima innocente, il servizio sempre più richiesto dai cittadini e non ancora ben reso.

Buon Natale e buon anno a Lei, Signor Presidente, e a tutti i presenti.