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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Commemorazione della figura di Aldo Moro, in occasione del trentesimo anniversario del suo assassinio e della strage della sua scorta per mano delle brigate rosse

Onorevoli colleghi,
ricorre quest'anno il trentesimo anno dell'omicidio di Aldo Moro e degli uomini della scorta, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

La morte dell'onorevole Moro, forse la più emblematica di quella difficile stagione, e la morte delle vittime del terrorismo sono state recentemente ricordate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della Memoria, come "tragedie" non solo di singoli uomini ma di un intero Paese.

In questa circostanza il Senato della Repubblica ha offerto ai cittadini la possibilità di accedere, per la prima volta, gratuitamente sul proprio sito informatico, a tutti i documenti della Commissione stragi - filone Moro - grazie ad una preziosa ed importante iniziativa del nostro archivio storico.

Questo vuole essere un segno tangibile ed immediato dell'esigenza di verità, quella verità che lascia sempre e comunque un sentimento di insoddisfazione e precarietà di fronte alla morte di servitori dello Stato, veri testimoni e martiri dell'umanità.

Stato, diritto, morale: tre parole pregne di valore e passione nella vita e nella testimonianza dell'onorevole Aldo Moro.

Quella che, con un'intuizione, direi drammatica, Roberto Ruffilli, altra vittima della follia terroristica, ha definito la «concezione umanistica dello Stato» di Moro, assume una valenza calata profondamente nella realtà della via degli uomini e sfugge ad ogni ammiccamento o vagheggiamento teorico astratto.

Risale al 1940 il primo incarico di insegnamento della filosofia del diritto che Moro - già avviato ad un precocissimo cursus honorum che lo porterà alla cattedra di diritto penale - svolse a Bari e di cui raccolse le dispense in forma di volume per il successivo anno accademico 1942-1943.

Con spiccata ed autorevole raffinatezza, Giuliano Vassalli ha notato la singolare apertura di quello che potremmo definire il «discorso sullo Stato» di Moro: la prima lezione è dedicata al «Problema della vita».

Scriveva allora Moro: «La vita ha come suo compito infinito una ricerca e utilizzazione del proprio valore (...). L'amore è appunto energia conscia, slancio vitale, ha in sé come implicito il concetto di una legittimazione che non può derivare da altro che dalla intrinseca verità che esso realizza (...). Può darsi allora che questa che vorremmo chiamare fede nella gioia che traspare in ogni dolore umano nella vita etica, questa credenza, questa attesa ansiosa della verità, della bontà, del valore e perciò della razionalità della vita è la sola e vera molla potente che spinge all'azione, che dà la possibilità di accertare e compiere gioiosamente, in ogni circostanza il dovere di vivere».

L'intima correlazione tra lo Stato e la vita degli uomini diventa qualcosa di più di una premessa di metodo dell'agire civile: è il punto di saldatura di un diritto esclusivamente enunciato, cristallizzato nel testo di una disposizione, con un diritto innervato nella storia e alimentato dall'esperienza e dalla vita reale delle persone.

Quel «dovere di vivere» del quale Moro diede diretta testimonianza è per lo Stato un fattore di coesione e di coerenza delle condotte individuali e collettive. Per le singole coscienze, il «dovere di vivere» rappresenta la maturazione piena della consapevolezza che ogni percorso di ricerca del bene, del buono, del giusto si accompagna ad una proiezione morale delle condotte di tutti gli uomini, ciascuno dei quali si fa portatore di quel frammento di verità che lo rende libero, autentico, vitale.

La cerniera tra Stato e morale è rappresentata dalla testimonianza quotidiana, immagine e sviluppo coerente della tensione etica sottesa alle scelte di vita degli individui e delle stesse decisioni politiche.

Entro questa trama ideale Moro assolverà il suo ruolo di politico e di uomo delle istituzioni declinandolo, fino alle estreme conseguenze, come missione e servizio. Il dono, il darsi e l'essere per l'altro, per lui sfuggono ad ogni retorica di circostanza e diventano il suggello del proprio martirio, il paradigma della persecuzione e dell'ingiusta sorte subita.

La logica della solidarietà - parola simbolo del suo progetto di politica per il Paese - vale tanto a livello sociale e comunitario, quanto entro la dimensione dei rapporti più strettamente politici nelle assemblee elettive. Quello della solidarietà è innanzitutto uno stile di presenza mite, ma non rinunciatario. La sua traduzione sul piano dell'effettività delle decisioni parlamentari è l'alto valore del compromesso, che non diventa mai compromissorio ed invece si fa espressione leale, coraggiosa, trasparente e profetica del dialogo tra Istituzioni e sulle Istituzioni.

Una delle critiche mosse alla politica di Moro e troppo sbrigativamente e riduttivamente formulata nei termini del neotrasformismo, del continuismo, del moderatismo, cade in modo fragoroso di fronte alla forza della coerenza e della paziente, tenace ricerca di quel bene comune che non è appannaggio esclusivo di uno o pochi, ma patrimonio di condivisione e civiltà dell'intera Nazione.

Anzi, solo perché patrimonio di tutti, di una comunità, di una storia condivisa, di una cultura, di una tradizione, può tradursi come segno di riconoscimento e di identità inclusiva per i singoli, per le diverse esperienze e per i molti percorsi politici e civili che sono la ricchezza del Paese.

La sua mitezza, il suo tratto meditativo, il suo essere uomo di pace, di dialogo, di profonda e autentica fede, sono pertanto sinonimo di coraggio e di ricerca non di facili soluzioni, ma di scelte eticamente giuste, al di là degli opportunismi o delle convenienze del momento.

Scrive ancora Moro alla fine degli anni Sessanta: «Si affaccia sulla scena del mondo l'idea che, al di là del cinismo opportunistico, della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e a dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida, ma intensamente umana».

L'umanità per un uomo politico può forse apparire come un punto di debolezza, in una logica sterile del potere fine a se stesso e divincolato da ogni criterio di giudizio in chiave di valore. Per Moro l'umanità è invece l'esaltazione della buona politica, di una politica in cui si ha quasi timore a restare imbrigliati dentro l'astrazione di valori solo pronunciati e non praticati e vissuti nella concretezza dell'agire quotidiano.

Moro non ha paura di dichiararsi debole, di piangere, di riconoscere in se stesso le paure, le angosce, le speranze, che sono i sentimenti e le pulsioni racchiusi nel cuore di tutti gli uomini. Egli non ha mai voluto essere qualcosa di più o di diverso dal cittadino comune, da un padre, da un marito, da un semplice e umile servitore dello Stato.

L'intreccio non dipanabile tra il politico, il giurista, l'uomo potrebbe sintetizzarsi con le parole del teologo e filosofo Romano Guardini: «essere uomini significa essere responsabili del mondo».

Sembra quasi di assistere ad un dialogo ideale tra Aldo Moro, i filosofi del bene, gli uomini di buona volontà del suo e del nostro tempo. Un dialogo che è quasi sospeso, incerto, perennemente aperto. Quelle parole pronunciate da Moro nel 1940 - vita, amore, slancio vitale, verità, bontà, vita etica - riecheggiano nella meditazione e nella preghiera, da tutti noi conosciuta, di Paolo VI: «Chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l'incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico (...)».

L'amicizia! Ancora una parola di "umanità" fa eco alla memoria di Aldo Moro. Cosa ha significato e cosa significa ancora oggi essergli amici ed essere amici della verità? Quali comportamenti, quali scelte possono vincere la paura e far prevalere il coraggio di un sentimento forte e genuino nei confronti di chi ha dato tutto se stesso per il bene della sua comunità e della sua gente?

Il «dovere di vivere» che Aldo Moro indicava ai suoi studenti nel lontano 1940 come l'unico baluardo alla dignità della propria vita ci costringe a vivere nell'inquietudine di un ricordo del quale siamo tutti debitori e che ci impedisce, oggi come allora, di restare inerti spettatori di una storia scritta da altri.

Alla memoria di Aldo Moroe degli uomini della scorta Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, ai loro cari, quest'Assemblea si inchina in segno di rispetto e deferente devozione.

Vi invito, colleghi, ad osservare un momento di silenzio. (L'Assemblea osserva un minuto di silenzio).

Prima di dare la parola ai colleghi che hanno chiesto di intervenire, rivolgo a nome mio e dell'Assemblea un saluto ed un abbraccio alla figlia dello statista Maria Fida Moro, che ricordo essere stata anche nostra collega.