Le regole del Parlamento nell'epoca del bipolarismo
Signor Rettore, professori del corpo accademico, colleghi, studenti, signore e signori, sono lieto di prendere la parola oggi in questa vostra università.
La Luiss nella sua intitolazione a Guido Carli, uomo delle istituzioni dal percorso di studi di grandissimo spessore e autorevole senatore della Repubblica, ha voluto rendere visibile il suo ruolo di luogo ove i giovani si formano in un positivo scambio tra privato e pubblico.
Un'idea questa tanto più attuale ora che ci si è resi conto di quanto il sistema delle imprese rischi, senza poteri pubblici adeguati ed efficienti, in un mondo che si evolve secondo percorsi che richiedono analisi interpretative coraggiose e nuove.
E in un momento in cui il dibattito, a volte anche aspro, sul futuro delle nostre università richiede a tutti l'abbandono di vecchie analisi, di antiche certezze, di pregiudizi non più sostenibili.
Pensiamo che una riforma seria dell'Università che si fondi sempre di più sulla meritocrazia, sull'efficienza, sul diritto allo studio, di risorse adeguate, ben distribuite ed utilizzate, sia auspicabile.
Il tema che oggi affrontiamo, e che è al centro del dibattito pubblico, ripropone sotto una luce nuova una questione che affonda le sue radici nelle origini dell'esperienza repubblicana.
I costituenti, quando scelsero la forma di governo parlamentare, avevano in mente i fallimenti del parlamentarismo ottocentesco: l'esperienza statutaria (che non aveva impedito la nascita del regime fascista), ma anche il fallimento di Costituzioni avanzate come quella della Repubblica di Weimar.
Segno di questa consapevolezza è l'approvazione da parte della seconda Sottocommissione dei 75, nel settembre del 1946, del celebre ordine del giorno Perassi.
Con esso, in una fase iniziale dei lavori della Costituente, esclusa la forma del governo presidenziale, ci si pronunciava "per l'adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia - recita l'ordine del giorno - con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo".
I costituenti dunque avevano ben chiaro che un regime parlamentare forte ha bisogno di un governo autorevole e stabile.
Questo obiettivo così chiaramente enunciato non fu però realizzato.
I veti contrapposti di un confronto politico aspro, benchè di alto livello, (su cui tanti studi sono fioriti negli ultimi anni, ed in particolare in quest'anno di celebrazione del 60° anniversario della nostra Carta Costituzionale), impedirono l'adozione di quei meccanismi, di quei dispositivi, che pure costituenti e studiosi come Costantino Mortati ed Egidio Tosato avevano elaborato.
Non passò la proposta di Mortati di una durata almeno biennale dei governi, né quella di Tosato che anticipava la formula della sfiducia costruttiva adottata qualche anno dopo nella Legge fondamentale tedesca.
Tutto il funzionamento della nostra forma di governo veniva lasciato al comportamento dei partiti.
In un contesto proporzionalistico. In assenza, cioè, di quel bipartitismo che, pur nella mancanza di una costituzione scritta, ha reso e rende stabile e forte il governo britannico, in Parlamento e non solo.
Da allora tutti i percorsi di riforma istituzionale, in un modo o nell'altro, hanno avuto come obiettivo proprio quello di garantire stabilità ed efficienza governativa: due obiettivi solo promessi dall'ordine del giorno Perassi e non realizzati dalla nostra Carta Costituzionale.
Il tentativo più serio si ebbe proprio nel corso della prima legislatura repubblicana con la riforma della legge elettorale del 1953.
Una riforma lungimirante, come è ben ricostruito in un volume che il Senato ha pubblicato qualche anno fa, ma che uscì, se pure di poco, sconfitta dalle urne.
Si tornò così ad un sistema tutto fondato sui partiti e le loro alleanze, lasciando queste dinamiche prive di qualsiasi correttivo istituzionale; in un contesto di democrazia bloccata, retta dalla cosiddetta conventio ad excludendum.
Un bipolarismo bloccato, quello che ha conosciuto l'Italia per oltre quarant'anni, fondato sull'assenza di alternanza, reso necessario dalle vicende internazionali, dalla lunga era della guerra fredda, che escluse dal circuito di governo la principale forza dell'opposizione (il Partito comunista), che veniva tuttavia inclusa in un consociativismo parlamentare di cui i regolamenti del 1971 sono il frutto maturo.
Non è questa la sede per dare giudizi su una vicenda storica complessa, fatta di stagioni e di formule politiche che hanno comunque segnato momenti di grande sviluppo del nostro Paese.
Certo è che nel corso degli anni '80 questo modello inizia a mostrare segni sempre più vistosi di inefficienza, proprio mentre più visibili diventano le spinte verso mutamenti in senso assembleare.
Con lucidità Guido Carli nella sua autobiografia scrisse "venendo meno l'opposizione ideologica è diventato via via meno chiaro il perché non fosse possibile l'alternanza al governo di forze di segno diverso.
E' sorto così - prosegue Carli - un intreccio consociativo che ha stravolto la ripartizione di compiti tra governo e Parlamento, tra centro e periferia, ed è stato finanziato con l'inflazione e l'indebitamento pubblico".
Proprio perché andava diffondendosi questa consapevolezza nella parte migliore della nostra classe dirigente, in quegli anni, gli anni Ottanta, si rafforzò l'esigenza di garantire fuori e dentro il Parlamento la stabilità dell'azione del Governo e la sua autorevolezza.
A ciò hanno contribuito in modo crescente l'integrazione europea (lo ricorda proprio Guido Carli), che richiede un'azione continua e tempestiva dei governi nazionali; e i processi di globalizzazione, come le vicende di questi mesi mostrano in modo chiaro.
Proprio dagli anni Ottanta inizia in Parlamento e fuori una spinta forte per introdurre meccanismi che limitino quelle "degenerazioni del parlamentarismo" che con tanta lucidità erano state viste dai nostri costituenti.
E così, sulla fine di quel decennio, si arriva all'approvazione della legge n. 400 del 1988 sulla Presidenza del Consiglio, ad una profonda revisione della legge di contabilità dello Stato e ad una stagione di incisive modifiche dei regolamenti parlamentari.
Tutte nel segno di un rafforzamento del ruolo del Governo in Parlamento, o meglio, della maggioranza che lo sostiene.
La riforma più importante e visibile, che rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia dei nostri regolamenti, è l'abolizione alla Camera dei deputati della regola che imponeva il ricorso allo scrutinio segreto per la votazione finale delle leggi.
La regola è oggi quella del voto palese e solo in alcune materie e in casi tassativi si può ricorrere al voto segreto.
Queste riforme non riuscirono tuttavia ad arrestare, né tantomeno ad indirizzare verso un esito di autoriforma, il sistema politico di quella che è stata chiamata "Prima Repubblica".
La consapevolezza della crisi animò importanti sforzi riformatori, come la bicamerale De Mita-Iotti, ma anch'essa non riuscì ad evitare il referendum del 1993, con il quale si cristallizza un nuovo e profondo momento di svolta, coincidente con la fine delle esclusioni ideologiche che, tanto a sinistra quanto a destra, avevano cristallizzato e bloccato il sistema politico.
In un contesto nuovo, dunque, sia politico sia istituzionale (grazie alle nuove leggi di stampo maggioritario) si svolgono le elezioni del 1994, nel segno di un bipolarismo non più bloccato si svolgono le elezioni successive (1996, 2001, 2006 e 2008) che vedono l'avvicendamento al governo di formazioni politiche diverse, sulla base di una competizione tra coalizioni che si riconoscono in un leader destinato a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio.
Il dibattito che si è andato sviluppando da allora è tutto diretto ad una stabilizzazione, ad una migliore disciplina di questa evoluzione, appunto bipolare, sulla quale negli anni è andato maturando un consenso ampio e trasversale tra gli schieramenti politici (visibile soprattutto nei comportamenti dei cittadini, che nel corso delle elezioni sempre più hanno assecondato e rafforzato con le loro scelte la dinamica bipolare del nostro sistema politico).
Su quanto forte e radicata sia questa consapevolezza, vorrei portare oggi qui a voi un ricordo personale che mi permette di rendere omaggio in questa sede universitaria alla figura di politico e studioso del professore Leopoldo Elia.
Nella fase finale della XIII legislatura, segnata da un ambizioso tentativo di riforma della seconda parte della nostra Costituzione, quello portato avanti dalla Commissione presieduta dall'onorevole D'Alema, ci ritrovammo anche a discutere di una ennesima proposta di modifica della legge elettorale.
Le opinioni erano diverse quanto alla scelta del metodo di scrutinio; come animato fu il confronto nella legislatura seguente allorchè venne approvata la legge che oggi regola l'elezione delle due Camere.
Nonostante le divisioni accentuate alla vigilia della competizione elettorale, riuscimmo tuttavia a trovare un ampio e trasversale consenso su un inciso contenuto in un ordine del giorno elaborato dal professor Elia, allora Presidente in Senato del Gruppo del Partito popolare.
A me spettò, in quanto Capogruppo presso la Commissione Affari costituzionali del Senato, esprimere e motivare il consenso del mio Gruppo allora all'opposizione, su un impegno che così recitava: "il Senato ritiene che si debbano preferire una forma di governo e una legge elettorale che facciano emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l'indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza".
Il professor Elia e noi tutti intendevamo questo impegno come una sorta di convenzione Costituzionale che cristallizzasse la volontà del Parlamento di interpretare le regole della nostra Costituzione nel segno di un compiuto bipolarismo.
Nell'incapacità di trovare un consenso su un testo di revisione costituzionale, forse troppo ambizioso (e lo stesso problema si ripropose a parti invertite nella legislatura seguente) trovammo allora un accordo sull'impegno comune di interpretare ormai in modo compiutamente bipolare le regole della nostra Carta costituzionale, e ciò nella consapevolezza che questa fosse una lettura non contro, ma tutta coerente con i migliori intenti che avevano ispirato i padri costituenti e che erano pienamente iscritti nell'ordine del giorno Perassi di cui ho parlato all'inizio.
Oggi è più che mai aperto il confronto su una revisione costituzionale che renda stabile questa evoluzione.
Un confronto verso il quale anche il Capo dello Stato ci spinge e che deve a mio avviso comunque partire dalla consapevolezza di quanto così chiaramente scritto nell'ordine del giorno che ho appena ricordato.
Parole che mostrano con evidenza quale debba essere il rapporto tra Parlamento e Governo in un efficiente e moderno sistema parlamentare.
Un rapporto che fa del Presidente del Consiglio il leader della maggioranza parlamentare, e ciò per effetto della scelta degli elettori che tende a incorporare "la scelta del leader nella scelta della maggioranza".
Quale che sia l'esito del dibattito sulla revisione costituzionale, spetta ora alle due Camere, nella loro autonomia, sviluppare in modo coerente questo principio nella disciplina interna che regola la loro attività.
Vi sono molti margini infatti per inverare nei testi dei nostri regolamenti un'interpretazione, più adeguata ai tempi, delle norme istituzionali che regolano i rapporti tra Governo e Parlamento.
Si aprirà a breve un confronto che spero proficuo sulla revisione del nostro Regolamento.
Le proposte in campo - sia quelle presentate dalla maggioranza - sia quelle sino ad oggi presentate da autorevoli esponenti dell'opposizione - sembrano muoversi tutte sulla stessa lunghezza d'onda.
Emerge una consapevolezza comune sulla necessità di rafforzare la posizione del Governo in Parlamento.
Certo, nelle legislature del maggioritario il ruolo del Governo si è andato naturalmente rafforzando, segnatamente nella programmazione dei lavori.
Ma ciò è avvenuto per la via della dinamica dei rapporti politici, e in particolare dei rapporti tra i Gruppi.
Le proposte di revisione dei regolamenti fino ad ora presentate prevedono invece, seppur in forme diverse, un'emersione del ruolo del Governo in quanto tale nella definizione degli argomenti da trattare con priorità.
Viene avanzata l'ipotesi di una vera e propria corsia preferenziale per i disegni di legge segnalati dal Governo come essenziali.
Le modalità con cui questa corsia è definita sono diverse, ma comune è l'obiettivo: quello di garantire tempi certi alla conclusione dell'iter in Senato di queste iniziative.
E' questo un passaggio essenziale che potrebbe permettere di ricondurre alla sua natura di strumento eccezionale il decreto-legge.
Ripercorrendo storicamente il fenomeno possiamo notare come i decreti-legge e i conseguenti disegni di legge di conversione siano divenuti il modo ordinario della produzione legislativa sul finire degli anni '80 e all'inizio degli anni '90, proprio quando più forte e stringente era divenuta l'esigenza di tempi certi per l'azione e l'iniziativa politica del Governo.
Questa esigenza ha trovato nel decreto-legge l'unico mezzo adeguato per dare risposte tempestive alle molte domande di normazione.
L'uso eccessivo, o meglio l'abuso, che si risolveva in catene di decreti non convertiti e reiterati fu arginato da un intervento della Corte costituzionale nel 1996 che pose fine alla prassi della reiterazione dei decreti.
Questa svolta giurisprudenziale ha certo ridotto l'uso di questo strumento, che tuttavia continua a dominare la programmazione dei lavori parlamentari, rendendo difficile la distribuzione degli stessi tra Commissioni e Assemblea e, più in generale, la programmazione dei tempi dei lavori, che non riesce mai a superare un orizzonte temporalmente molto breve.
A rendere più complesso il fenomeno e difficile il ruolo del Parlamento vi è poi la prassi di comprimere ulteriormente l'esame dei provvedimenti di urgenza con la presentazione di maxi emendamenti sui quali il Governo - ogni Governo - pone la fiducia.
Ebbene, una disciplina regolamentare che garantisca corsie preferenziali e tempi certi alle iniziative che il Governo ritiene essenziali potrà consentire una programmazione più prevedibile dei lavori parlamentari, una maggiore certezza dei tempi di attività e un migliore riparto dei lavori tra Aula e Commissioni.
Potrà ricondurre nell'alveo di strumento eccezionale la decretazione d'urgenza.
In questo senso va del resto la giurisprudenza più recente della Corte costituzionale, a garanzia dell'omogeneità dei testi dei decreti e, in prospettiva, di un uso veramente eccezionale di questo strumento.
Un cammino che la Corte costituzionale potrà percorrere sino in fondo (senza porre a rischio la capacità di risposta dei poteri pubblici alle tante questioni che chiedono regolamentazione) solo quando il Governo potrà disporre di tempi e spazi prevedibili e certi per l'esame delle proprie iniziative legislative da parte del Parlamento.
Oggi, per perseguire questo obiettivo, a Regolamenti invariati, si assiste anche ad una riscoperta dello strumento dei disegni di legge collegati alla manovra finanziaria.
Uno strumento negli ultimi anni non pienamente utilizzato, che garantisce un organico esame da parte delle Commissioni di merito e, allo stesso tempo, il rispetto dei tempi definiti.
Per rafforzare la posizione del Governo nel procedimento legislativo sono stati proposti altri strumenti, su cui dovremo riflettere e che dovranno essere valutati innanzitutto dalla Giunta per il Regolamento, come ad esempio l'ipotesi di garantire al Governo di presentare testi sui quali chiedere un voto prioritario.
Signore e Signori, il rafforzamento del ruolo del Governo non è e non deve essere declinato come un rafforzamento a danno del Parlamento.
L'obiettivo, al contrario, è quello di avere un Parlamento più forte in un rapporto più stretto e autorevole con il Governo.
Così l'introduzione della corsia preferenziale non potrà non comportare un ridimensionamento dell'uso dello strumento del decreto-legge.
Più in generale a un ruolo forte del Governo nella programmazione dei lavori deve corrispondere l'emersione di un chiaro statuto dell'opposizione.
Questa evoluzione, che viene prospettata in modo diverso ma con comunione di intenti nelle proposte di riforma dei regolamenti presentate dai due principali Gruppi in Senato, è coerente con l'evoluzione del sistema politico, specie dopo le ultime elezioni.
Oggi in Senato i due principali Gruppi raccolgono oltre l'82% degli eletti.
Sulla base di una tale geografia parlamentare ha senso quindi proporre oggi, per il funzionamento delle Assemblee, un confronto che si svolga non in modo indifferenziato tra i Gruppi, ma innanzitutto fra Governo e la sua maggioranza da un lato e opposizione dall'altro, sull'esempio di quanto avviene nel più antico e glorioso dei parlamenti occidentali, quello inglese.
Da quella esperienza, le principali proposte di revisione del Regolamento presentate fino ad oggi riprendono l'istituto del Governo ombra, individuando un "Capo" o "portavoce" dell'opposizione al quale si vuole riconoscere un ruolo istituzionale e poteri propri.
Poteri procedurali, come la possibilità di chiedere lo svolgimento di indagini conoscitive e quella di intervenire nella definizione del programma dei lavori, una cui frazione dei tempi viene riservata a proposte dell'opposizione.
Dall'esperienza inglese deriva anche il question time, un istituto già disciplinato nei nostri regolamenti ma che le proposte vogliono rafforzare e che già oggi, nella prassi in Senato, stiamo cercando di rendere più incisivo e vivace.
Si tratta anche in questo caso di un istituto proprio della tradizione parlamentare inglese, che trova oggi un contesto fertile in Italia, grazie alla semplificazione del quadro politico che si è realizzata con le ultime elezioni.
Una semplificazione che si è immediatamente riflessa in una riduzione dei Gruppi parlamentari che, di per sé, ha prodotto una razionalizzazione nei lavori sia dell'Aula sia delle Commissioni.
L'impianto proporzionalista dei nostri regolamenti aveva fatto sì in passato che a una competizione bipolare, e dunque a una semplificazione del confronto elettorale, non avesse fatto seguito una semplificazione del quadro politico parlamentare.
Si era arrivati sul finire della XV legislatura alla costituzione in Senato di undici Gruppi parlamentari; un numero oggi quasi dimezzato (i Gruppi costituiti in Senato sono sei).
La legge elettorale vigente dunque, la stessa che aveva regolato le passate elezioni, grazie alla scelta dei principali partiti di costituire coalizioni molto omogenee, ha prodotto un risultato di notevole semplificazione del panorama politico.
Ma questa semplificazione non è garantita da regole all'interno delle due Camere; da ciò la decisione da parte di entrambi gli schieramenti di presentare proposte di modifica dei regolamenti volte da un lato a impedire la costituzione di Gruppi che non corrispondano a liste sottoposte al vaglio elettorale e dall'altro a rendere più restrittiva la disciplina dei cosiddetti "Gruppi in deroga", e di quelli che si formano nel corso della legislatura.
Vi sono differenze nelle proposte, ma l'intento e gli obiettivi sono analoghi nel puntare a una semplificazione della composizione politica della nostra Assemblea.
Una semplificazione voluta innanzitutto dai cittadini.
Questa consonanza di intenti e di indirizzi tra i due schieramenti, il clima di una rafforzata reciproca legittimazione tra gli stessi nel segno della quale si è aperta la XVI legislatura repubblicana, mi spingono ad essere moderatamente ottimista sulla possibilità che si apra un confronto questa volta fruttuoso e veramente bipartisan sulla riforma dei regolamenti, per rendere più adeguate le nostre istituzioni alle attese dei cittadini e alla logica di una democrazia bipolare.
In questa prospettiva alta, di rafforzamento del Parlamento, credo debba essere collocato anche il dibattito sul nostro bicameralismo.
Un dibattito che affonda anch'esso le sue origini nei lavori della Costituente.
Molto si è scritto sul compromesso che portò, una volta scartata l'opzione monocamerale, ad un bicameralismo paritario nelle attribuzioni.
L'evoluzione del nostro sistema politico negli anni condusse ad eliminare, sin dalla II legislatura repubblicana, il maggiore elemento di differenziazione tra le Camere, la diversa durata del mandato, e ad attenuare gli effetti del diverso sistema elettorale.
Così il nostro bicameralismo ha funzionato come un bicameralismo sostanzialmente "procedurale".
Un bicameralismo che, sulla base dell'omogeneità politica delle due Assemblee, non ha mai rappresentato, nonostante le critiche di diverso segno cui è stato sottoposto, un elemento di freno o di effettiva complicazione procedurale.
Non è dunque su questo piano che oggi dobbiamo riaprire il dibattito.
Certo in alcuni passaggi della storia più recente l'adozione di leggi maggioritarie e le difficoltà di una competizione politica sul filo di lana tra le due coalizioni hanno prodotto asimmetrie nella composizione politica delle due Assemblee non prive di conseguenze sulla funzionalità del nostro bicameralismo.
E tuttavia l'esperienza dei primi mesi di questa legislatura ripropone invece la fisiologia di un bicameralismo, come dicevo "procedurale", che in modo virtuoso e sulla base di una omogeneità politica delle due Assemblee può condurre ad una sana divisione del lavoro tra i due rami del Parlamento, tale da garantire una maggiore capacità di analisi e di risposta alle molte domande legislative che provengono dalla società.
Il dibattito oggi va dunque impostato in modo diverso, non riproponendo antichi e sterili argomenti polemici, ma riprendendo gli stimoli che pure erano emersi nel corso del confronto nella Costituente.
Occorre cioè interrogarsi sulla opportunità, di fronte ad una società sempre più complessa e ad una maggiore articolazione dei livelli di governo (da quello locale a quello europeo), di procedere ad una riforma del nostro Parlamento che assicuri una integrazione della rappresentanza.
Se, ad esempio, di fronte ad un rafforzato legame tra il Governo e la sua maggioranza parlamentare, non vi sia bisogno di un'Assemblea meno contrassegnata dalla logica "avversariale" capace di integrare la rappresentanza con istanze diverse, anche di più lungo periodo rispetto al ciclo politico che segna la vita e l'attività dei governi e delle maggioranze che li sostengono.
Secondo questa prospettiva più profonda e complessa si sta svolgendo il dibattito sul bicameralismo in tanti paesi europei.
La vostra università, la LUISS, ha pubblicato di recente un volume, "Il bicameralismo in discussione", che dà una compiuta rappresentazione di tutte le sfaccettature di questo complesso dibattito.
Il dibattito sul bicameralismo è infatti un dibattito europeo e in questa logica è giusto che in Italia si punti a valorizzare a pieno le indicazioni già contenute nella nostra Carta che fanno del Senato il "Senato della Repubblica", un'Assemblea tendenzialmente capace di rappresentare quell'ordinamento a più livelli prefigurato oggi dall'articolo 114 della Costituzione.
E' un dibattito che forse non si può esaurire nella formula del "Senato delle Regioni".
La realtà e le istanze da rappresentare sono molteplici (a partire dall'articolato mondo delle autonomie locali).
Anche su ciò mi auguro si possa aprire un dibattito aperto e costruttivo tra le forze politiche, che possa condurre ad ipotesi di un federalismo avanzato e solidale.
Nel frattempo credo si debba da subito, anche a Costituzione invariata, condurre ogni sforzo per adeguare le nostre procedure ad una realtà più complessa, quella appunto di un ordinamento giuridico multilivello.
Lo sforzo deve essere quello di costruire procedure capaci di dare risposte a necessità dei cittadini che superano molto spesso i confini nazionali.
Vanno adeguati i metodi della legislazione che si costruisce oramai non più nei soli confini statali ma tra Stato, Regioni e Unione europea.
Questo adeguamento delle procedure dovrà così assecondare - come sopra ho ricordato - da un lato l'evoluzione in senso federale della nostra Repubblica (a partire dall'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione) e dall'altro una più consapevole partecipazione alla integrazione europea.
In questa prospettiva il Senato, già nella passata legislatura, ha avviato esperienze che spero possano essere sviluppate a partire da quella (mi fa piacere darne atto qui al Professor Manzella, Presidente nella XV legislatura della 14^ Commissione permanente) di una più efficace partecipazione alla fase ascendente del diritto comunitario attraverso un strumento innovativo (il Comitato sulla fase ascendente); un laboratorio che ha visto, in una legislatura particolarmente difficile, un costruttivo confronto tra maggioranza e opposizione per la definizione di posizioni che garantissero una piena tutela degli interessi nazionali.
Gli stimoli, come vedete, sono molti e le prospettive di sviluppo del nostro parlamentarismo sono molteplici.
L'anno che si sta concludendo ha visto impegnate le istituzioni e la comunità scientifica nella celebrazione del 60° anniversario della nostra Costituzione.
I suoi lavori preparatori e lo studio attento di tante sue formule sono una fonte inesauribile di stimoli.
Come ha ricordato il Capo dello Stato, di fronte ad essa occorre "non indulgere ad una improduttiva mitizzazione, ma anche non cedere alla retorica del superamento".
Occorre invece valorizzare a pieno la saggezza di formulazioni, come ricorda sempre il Capo dello Stato, "che vennero pensate in modo da poter risultare non chiuse ma idonee al recepimento di istanze e sollecitazioni poco o per nulla prevedibili al momento della definizione di quel testo".
Su questa via dobbiamo impegnarci tutti, politica e comunità scientifica, con unità di intenti, nel momento in cui ci accingiamo ad una nuova e spero produttiva stagione di riforme.