L'essere umano al centro della nuova economia
Autorità, Signore e Signori,
il volume del Presidente Scognamiglio ci consente di fare una migliore valutazione sulla cause e gli insegnamenti della crisi che stiamo vivendo. Si tratta di un contributo all'analisi economica particolarmente prezioso in quanto ci rivela, in controluce, le cause determinanti della crisi. Le letture di tipo più tradizionale sono infatti essenzialmente basate su una analisi dei comportamenti adottati dalle banche d'investimento, soprattutto d'oltreoceano, dalle autorità di politica monetaria e dalle nuove potenze emergenti, segnatamente la Cina e l'India.
Il Presidente Scognamiglio ci offre una analisi approfondita e multidisciplinare e sottolinea come la crisi investa in primo luogo un concetto che ha condizionato il modello di sviluppo degli ultimi decenni, in cui ha dominato sopratutto l'ideologia della domanda di beni di consumo, spesso superflui, e il più delle volte comprati a debito. In tal modo, la nuova economia debitoria ha indotto la finanza a trascurare la sua funzione primaria: quella di ponte fra il presente e il futuro, inducendola invece a privilegiare i meccanismi autoreferenziali del mercato, piuttosto che le relazioni dirette tra gli operatori economici.
Il G20, nella riunione di Pittsburgh, si è dovuto pertanto confrontare con questi temi epocali. In quella sede, come era ovvio, non si sono potuti risolvere tutti i problemi sul tappeto, ma si è dato un contributo decisivo diretto a diradare l'incertezza che pesava sui mercati.
Per ora, registro con soddisfazione che si è preso atto della necessità di intervenire soprattutto sugli strumenti di conoscenza a disposizione delle autorità di vigilanza. Queste ultime, per motivi diversi, si sono infatti dimostrate impreparate al sopraggiungere della crisi.
La composizione del G20 è chiaramente sbilanciata sull'Oceano Pacifico, in linea con lo spostamento del baricentro economico mondiale verso l'Asia. Si tratta, come è evidente, di un effetto connesso all'ampliamento del deficit del bilancio federale degli USA, una eredità pesante per la comunità finanziaria internazionale. Qui gli economisti delle due scuole, mi riferisco agli insegnamenti Keynesiani e a quelli della scuola di Chicago, esprimerebbero certamente opinioni difformi sulla capacità di questi deficit di generare una nuova crescita del PIL. Su di un punto però credo che tutti possiamo essere d'accordo: il "mezzo", la finanza, si è tramutato in un fine a sé. La finanza, infatti, da strumento di impiego di risorse al servizio dell'economia reale e per il benessere comune, si è trasformata in un fine sterile e chiuso in se stesso, rivolto al vantaggio di pochi.
Il ricorso eccessivo all'indebitamento da parte di persone e famiglie e la facilità degli istituti finanziari nel valutare l'affidabilità dei clienti, hanno poi fatto il resto, determinando delle conseguenze moralmente irresponsabili nei confronti delle generazioni future.
Dalle argomentazioni svolte nel volume emerge infatti chiaramente che la crisi finanziaria ha ragioni ben più profonde di quelle solo "tecniche" o "settoriali": esse affondano le radici nella dimensione umana maturata negli ultimi anni, tanto individuale quanto collettiva. Da ciò consegue che ogni discussione in ordine alle vie d'uscita dalla crisi non può che prendere avvio, innanzitutto, dalla questione antropologica che diventa, per questo, la vera "questione sociale".
Sul piano dell'analisi, in relazione a tutto ciò, prima ancora dell'etica, dei principi e delle regole, occorre perciò guardare allo studio dell'economia alla luce degli interrogativi che si pone, da sempre, l'antropologia: nasce dunque l'esigenza di una nuova economia con al centro l'essere umano nella sua interezza e non soltanto come soggetto economico. Va ribadito con forza il ruolo dell'uomo come fine, mai come un mezzo.
Anche in questa prospettiva si è distinto l'insegnamento di Keynes. Egli ebbe sempre presente un metodo più attento alle convenzioni, alle norme, alle istituzioni e agli effetti che ne potevano conseguire nella formazione delle condotte degli agenti economici, imprese e famiglie. Keynes fu dunque un fiero antagonista di una miope visione attenta solo agli aspetti meramente quantitativi dell'analisi economica. Egli si dovette misurare, come uomo di governo, con una crisi economica che non aveva precedenti e che imponeva di confrontarsi con una questione essenziale: come fare ripartire gli investimenti e come contribuire a rilanciare la fiducia negli operatori del mercato.
La sua vita non fu facile, né il suo successo tra gli economisti del tempo fu immediato, specie in Europa, dove le idee keynesiane furono aspramente criticate da un altro gigante del pensiero economico: Friedrich Von Hayek, che formulò una pessima recensione della celebre teoria generale. In realtà, a ben vedere, la critica era più correttamente rivolta ad una particolare lettura del suo pensiero diffusasi nei decenni successivi alla divulgazione della teoria generale. Vale a dire quell'idea della spesa in disavanzo (il deficit spending) come soluzione idonea in tutti i casi di scarsa crescita.
Proprio su questo aspetto il Prof. Scognamiglio ricorda nel volume come lo stesso Keynes considerasse la spesa in disavanzo come strumento da utilizzare solo in situazioni ben specifiche e particolari, ovvero in situazioni di elevata disoccupazione. Nonostante ciò, le intuizioni keynesiane aprirono una via d'uscita ad una crisi, quella del primo dopoguerra, che sembrava irreversibile.
Il volume non si limita peraltro ad una dotta analisi, ma contiene inoltre, nella seconda parte, numerose proposte di taglio concreto ed operativo. Tra le altre, voglio segnalare la proposta di una riduzione delle aliquote contributive concertata a livello europeo: tale misura avrebbe il sicuro effetto di rilanciare sia la competitività delle imprese che i consumi delle famiglie. Molte altre parti del volume affrontano problematiche e aspetti economici di grande interesse ed attualità.
Vorrei concludere citando il concetto chiave della teoria di Keynes: "L'errore non sta nel sistema, cioè nella filosofia della libertà che regge l'economia di mercato, ma negli uomini che lo hanno governato". L'invito è dunque quello di ritornare ad una più complessiva visione antropocentrica dell'economia. La persona al centro di tutto. Il fine ultimo è il bene comune e non il profitto di pochi che può essere causa di povertà.
E' il giusto percorso da seguire per allontanare definitivamente la crisi economica mondiale che stiamo vivendo e che dobbiamo continuare a combattere per consegnare e assicurare alle generazioni future un'economia stabile, forte, sicura sulla quale l'uomo possa davvero contare.