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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Partiti e Istituzioni: il tempo delle riforme

Autorità, Signore e Signori,
la storia politico-istituzionale italiana passa attraverso due fondamentali cicli costituzionali, in cui esiste un rapporto di condizionamento reciproco tra dinamiche del sistema politico e strutture della società, da una parte, ed assetto delle istituzioni, dall'altra.
Il primo ciclo si apre il primo gennaio 1948 con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana; il secondo il 18 aprile 1993, con il referendum elettorale di Segni che sanziona la svolta verso quella che, nel lessico giornalistico, è stata chiamata la "Seconda Repubblica".

I primi quarant'anni di vita repubblicana sono stati caratterizzati dalla triade: "Stato dei partiti", "Stato sociale", "Stato centralistico".
Queste forme istituzionali rispondevano ai caratteri della società ed alle logiche di funzionamento del sistema politico.
La società uscita dalla seconda guerra mondiale e dalle macerie del fascismo era una società divisa da "fratture" profonde.
Innanzitutto la frattura ideologica; poi le fratture sociali con la contrapposizione tra una compatta classe operaia ed un'ampia borghesia; quindi le fratture territoriali con il tipico dualismo nord-sud.
Si trattava di una condizione storica difficilissima per l'instaurazione ed il radicamento della democrazia.

Il problema fu risolto dai costituenti e dalla classe politica che governò l'Italia negli anni a venire attraverso la "triade istituzionale" cui abbiamo accennato.
La società italiana era divisa, ma le linee di divisioni erano semplici e chiare, perché corrispondevano al classico conflitto sociale del novecento, quello tra capitale e lavoro.
Le ideologie del novecento erano forti e ciascun blocco sociale vedeva in una di esse un riferimento sicuro e costante.
In questo contesto sociale poterono affermarsi potenti "partiti di massa", cioè partiti fortemente radicati nella società, con una stabile organizzazione, ciascuno dei quali rappresentava un blocco sociale e che, grazie all'ideologia, potevano mantenere la stabile "fedeltà" degli uomini e delle donne del blocco sociale di riferimento.

I partiti di massa poterono essere definiti dall'art. 49 della Costituzione come una sorta di "ponte" tra la società e lo Stato, come lo strumento fondamentale, e pressoché esclusivo, di stabile partecipazione politica.
Questi partiti, in grado di rappresentare nella sua interezza la semplice società italiana, diedero vita ad una logica di funzionamento del sistema istituzionale basato sul compromesso.
Una logica diversa avrebbe portato alla disgregazione e forse alla guerra civile. Quando le divisioni sono profonde l'unico modo per evitare che il conflitto si radicalizzi consiste nel cercare di creare delle istituzioni che portino i partiti, espressione di quelle divisioni, ad incontrasi ed a ricercare l'accordo.
L'Italia, quindi, realizzò quel tipo di funzionamento del sistema di governo che era stato stilizzato da uno dei più grandi giuristi e intellettuali del novecento: Hans Kelsen.

Questo sistema può definirsi "parlamentarismo compromissorio". I cittadini votavano i partiti in cui si identificavano; i partiti dopo le elezioni, sulla base della forza negoziale derivante dal consenso ricevuto dagli elettori, formavano le coalizioni ed i governi, la cui vita, dunque, dipendeva esclusivamente dalla permanenza dell'accordo.
I partiti di maggioranza e quelli di minoranza, poi, realizzavano un compromesso tra i rispettivi punti di vista nella sede parlamentare.
In questo modo, la legge, espressione del compromesso, poteva essere ritenuta legittima dai diversi blocchi sociali che avevano delegato i partiti a rappresentarli.

Questo sistema di governo produsse un esteso "Stato sociale", sviluppando il programma di progressiva riduzione delle diseguaglianze materiali tracciato dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
La grande mole di diritti sociali previsti dalla prima parte della Costituzione trovò gradualmente ampie forme di realizzazione e di tutela.
Il sistema sanitario universale, la previdenza generalizzata e la scuola aperta a tutti furono le colonne portanti del nostro welfare.
La combinazione di Stato dei partiti, con le sue logiche compromissorie e di Stato sociale, portò alla progressiva attenuazione delle diseguaglianze, a colmare le fratture che inizialmente separavano le diverse parti della società, a creare maggiore fiducia reciproca tra i partiti.
In una parola, a radicare nella nostra società le istituzioni democratiche.
Uno dei risvolti di questo assetto politico-costituzionale era il centralismo politico e amministrativo.

Il compromesso faticosamente raggiunto dai partiti in Parlamento doveva essere rispettato in tutto il Paese. L'obiettivo di ridurre le diseguaglianze attraverso lo Stato sociale escludeva politiche differenziate territorialmente ed esigeva un fisco centrale che fungesse da motore della redistribuzione di ricchezza dai gruppi e dai territori più ricchi verso i gruppi ed i territori più poveri.
Il testo costituzionale aveva previsto le Regioni, ma a parte quelle speciali che preesistevano all'entrata in vigore della Costituzione, esse rimasero sulla carta.
Solamente nel 1970, di fronte alla prima crisi di rappresentatività dei partiti, furono istituite le Regioni ordinarie e, comunque, la loro vita fu piena di contraddizioni e ostacoli perché la logica centralistica continuò a permeare il funzionamento del sistema politico e di quello istituzionale.

La triade istituzionale che ha retto l'Italia per quarant'anni ha consentito di raggiungere grandi traguardi: il radicamento della democrazia, la riduzione delle diseguaglianze, la crescita della libertà e del pluralismo, la creazione di un sistema economico e produttivo tra i primi del pianeta.
Ma il regime politico italiano aveva in sé anche i germi della sua dissoluzione; proprio i successi conseguiti lo rendevano sempre più anacronistico e inadeguato.
Ma mentre la società superava le vecchie fratture, finivano per dissolversi gli originari blocchi sociali su cui si reggevano i partiti tradizionali.
La società italiana, come tutte le società moderne, si frammentava in più gruppi anche per effetto delle nuove forme di organizzazione del lavoro e dell'economia.
Le antiche classi sociali venivano sostituite da una miriade di gruppi ciascuno dei quali portava avanti rivendicazioni di tipo particolaristico.
Le ideologie del novecento, in questo contesto, perdevano la presa sulla società. I partiti di massa si trovarono presto in affanno, incapaci di rappresentare una realtà sociale divenuta così complessa e articolata.

La risorsa ideologica non funzionava più come mezzo per mantenere la "fedeltà" degli elettori; fenomeno, quest'ultimo, divenuto irreversibile dopo il crollo dei regimi comunisti simboleggiato dall'abbattimento del muro di Berlino.
Le ideologie del novecento uscivano così definitivamente dalla scena pubblica.
Lo Stato dei partiti è stato così attraversato da una grave perdita di legittimazione. Al tempo stesso, sottoposto alla pressione degli interessi particolaristici, diventava sempre più incapace di decidere.
A partire dagli anni settanta il sistema ha conosciuto una duplice crisi: sul versante della legittimazione - con crescente perdita di consenso sociale - e sul versante della governabilità.
Tuttavia il sistema non riuscì a sviluppare progetti di riforma alternativi. Restò come bloccato.

L'alternativa alla degenerazione della "Prima Repubblica" è stata vista da una forte corrente di opinione nella "democrazia maggioritaria", che avrebbe reso il nostro Paese omogeneo alle più antiche e robuste democrazie occidentali, come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti.
Con questa espressione, com'è noto, si intende un sistema in cui c'è una distinzione di ruoli tra la maggioranza che governa e l'opposizione che controlla, in cui il popolo-corpo elettorale sostanzialmente sceglie il Capo del Governo (sia esso Primo ministro o Presidente di un sistema presidenziale), in cui i Governi sono stabili e tendenzialmente durano per tutta la legislatura, in cui gli stessi Governi sono responsabili davanti agli elettori che potranno - in relazione alle loro politiche - premiarli oppure punirli non riconfermandoli, alla successiva tornata elettorale, nella carica, realizzando così la pratica dell'alternanza.
La democrazia maggioritaria avrebbe dovuto permettere di conseguire i seguenti risultati: ridare legittimità democratica alle istituzioni, garantire l'efficienza decisionale, assicurare la piena efficacia dei circuiti della responsabilità politica.

Il passaggio di regime è stato segnato dal referendum elettorale del 1993 promosso da Mario Segni.
Il referendum, che ha avuto una partecipazione elevatissima ed un altrettanto elevato numero di voti a suo favore, colpiva uno dei pilastri dello Stato dei partiti, ossia la legge elettorale proporzionale per l'elezione del Parlamento.
Il risultato fu un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, con una quota residua di seggi (il 25%) da assegnare con metodo proporzionale.
Non solo veniva abbattuto il principale pilastro dello "Stato dei partiti", ossia il proporzionale, ma il referendum venne vissuto come referendum contro un sistema politico.
La portata politico-costituzionale del 18 aprile 1993 venne perfettamente colta dall'allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che nel corso delle dichiarazioni rese alla Camera il 21 aprile, affermò che il voto referendario costituiva "un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-stato che fu introdotto in Italia dal fascismo, e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale".

In effetti, da quel momento vi furono radicali cambiamenti strutturali del sistema politico e di quello istituzionale.
In particolare, la nuova legge elettorale fotografava i risultati del referendum introducendo un sistema prevalentemente maggioritario in collegi uninominali, con un correttivo proporzionale pari al 25% dei seggi.
Questo sistema favorì l'evoluzione in senso bipolare della competizione elettorale.
Ma altrettanto importanti furono i cambiamenti del sistema politico: da una parte la disgregazione, prima, e poi la sostanziale scomparsa di alcuni dei partiti di massa che avevano caratterizzato la precedente esperienza; dall'altra parte, la nascita di partiti nuovi, non solo per la genesi ed il nome, ma soprattutto per le modalità organizzative e per le identità collettive da essi proposte.

Questi nuovi partiti con marcata leadership, sono strutture comunque assai più "leggere" dei partiti di massa tradizionali e, almeno prevalentemente, con identità sganciate dalle ideologie novecentesche, ma piuttosto collegate alle domande ed alle esigenze di governo di una società post-classista, complessa, articolata, che chiede al contempo maggiore autonomia per le formazioni sociali e le comunità territoriali e maggiore rapidità decisionale.
Del resto, proprio la rapidissima evoluzione tecnologica, la globalizzazione e l'integrazione europea postulano istituzioni nazionali in grado di produrre decisioni politiche seguendo i ritmi rapidi e incalzanti delle incessanti trasformazioni prodotte dai suddetti fenomeni.
Insomma, l'Italia a cavallo tra il novecento ed il nuovo secolo sembrava avere le condizioni sociali e politiche per l'instaurazione di un'efficiente "democrazia maggioritaria".

Nel periodo successivo, il principio politico-costituzionale dell'elezione popolare del Capo dell'Esecutivo si consolida, diventando uno dei capisaldi del nuovo sistema.
In questa prospettiva è stata fondamentale la legge costituzionale n. 1 del 1999 che ha cambiato la forma di governo regionale, introducendo l'elezione diretta del suo Presidente.
Le Regioni sono state così dotate di istituzioni di governo autorevoli e stabili, cioè di una fondamentale condizione del loro nuovo protagonismo politico.
Questa trasformazione del ruolo delle Regioni rispondeva ai profondi mutamenti della società e dell'economia, che, in tutta Europa - Spagna, Belgio, Olanda, persino la Gran Bretagna - hanno spinto verso il superamento dello Stato centrale e la realizzazione di un "federalismo per devoluzione".

Infatti, la complessità sociale esclude che la sua rappresentanza possa essere affidata unicamente ai partiti ed al Parlamento e piuttosto richiede che esistano molteplici istituzioni in cui si realizzi la rappresentanza di porzioni territorialmente circoscritte della società.
Peraltro, la globalizzazione fa sì che la competizione avvenga non tanto tra grandi imprese, come avveniva nell'era del "fordismo", bensì tra sistemi territoriali.
E' sul territorio che si realizzano, infatti, quelle condizioni - quali la presenza di capitale umano e di capitale sociale, le adeguate infrastrutture, un'amministrazione efficiente - che costituiscono le pre-condizioni dello sviluppo economico e rafforzano la competitività delle imprese nello scenario internazionale.
Nel frattempo, sulla spinta delle precedenti trasformazioni, che alimentano rivendicazioni di autonomia della società e dell'economia, rispetto all'apparato pubblico ed ai suoi lacci e lacciuoli burocratici, e dell'integrazione europea, che costituzionalizza il principio della libera concorrenza in tutti i settori, si ridefiniscono gli equilibri del rapporto tra il potere pubblico e la sfera socio-economica, ampliando l'autonomia di quest'ultima.
In questo modo alla triade "Stato dei partiti", "Stato sociale", "Stato centralista" - che ha caratterizzato il primo ciclo costituzionale - si è sostituita la nuova triade: "Democrazia maggioritaria", con la sua componente di investitura popolare del Capo del Governo, "Federalismo", "sussidiarietà orizzontale", che accresce le sfere di autonomia della società e dell'economia.

Il nuovo secolo riprende e consolida le tendenze che abbiamo sintetizzato.
Il bipolarismo, l'investitura popolare di fatto del Primo ministro, l'alternanza, diventano tratti strutturali del sistema e caratterizzano le elezioni del 2001, del 2006 e del 2008.
Ma, nonostante tutto ciò, la "lunga transizione" non ha fatto approdare l'Italia a una reale stabilità.
Siamo ancora lontani dalla teoria e dalla pratica della "democrazia maggioritaria" e delle sue più importanti e celebri varianti, quella del parlamentarismo maggioritario britannico e quella del presidenzialismo statunitense.
L'esperienza della cosiddetta "Seconda Repubblica" ha visto, infatti, un grado esasperato di conflittualità sia nei rapporti tra i due "poli" alternativi", sia all'interno di ciascun "polo", con tendenza alla reciproca delegittimazione.
Gli aspetti centrali dell'irrisolta transizione italiana riguardano la cultura politica e la riforma delle istituzioni.

Democrazia maggioritaria e federalismo richiedono una cultura politica che riconosca il valore del pluralismo e dell'autonomia, ma al tempo stesso riconosca che tutti gli attori politici e sociali appartengano alla "comune casa democratica".
Nelle democrazie maggioritarie ben funzionanti, i partiti che competono per la conquista del potere di governo si legittimano reciprocamente e così rafforzano il radicamento della democrazia e la coesione nazionale.
Il federalismo, da parte sua, è un congegno politico-costituzionale che serve ad unire nel rispetto delle differenze.
L'autonomia convive con la coesione nazionale e le identità locali si collegano ad una forte identità nazionale, come attesta la lezione nordamericana.
Viceversa, nel nostro Paese è prevalso un tipo di cultura politica che riecheggia logiche contrapposizioni tra "amico" e "nemico". Una contrapposizione irriducibile, che può terminare solo con l'eliminazione definitiva del nemico.

Le democrazie maggioritarie, invece, non dovrebbero conoscere "nemici", ma solamente forze in competizione tra loro nel quadro della comune appartenenza ai valori del pluralismo e della libertà della grande tradizione liberaldemocratica.
Tale cultura inquina la vita pubblica e porta al prevalere delle spinte disgregatrici.
In questa prospettiva persino l'autonomia regionale, da via moderna per la coesione nazionale, può diventare mezzo di contrapposizione radicale e di separatezza territoriale, soprattutto quando si affermano forze politiche con vocazione esclusivamente regionale.
Il nostro Paese ha grande bisogno di ritrovare le ragioni dello stare insieme, pur nella diversità delle culture, dei programmi e dei punti di vista dei diversi attori politici e sociali.
Il terreno delle riforme costituzionali - indispensabili per adeguare l'organizzazione dello Stato ai principi della "democrazia maggioritaria", dell'investitura popolare dei vertici degli Esecutivi e del federalismo, potrebbe costituire l'area in cui, attraverso il confronto responsabile, costruire una cultura politica all'altezza delle aspettative degli Italiani.

Gli italiani si sono prima ancora dei politici immedesimati nella logica di un sistema maggioritario attraverso l'espressione di un voto elettorale negli ultimi quindici anni con il quale si è concretizzata la logica dell'alternanza, una logica tipica di un sistema bipolare.
Un segnale, quello degli italiani, che hanno votato negli anni con voto diversificato, ma dando un chiaro messaggio della volontà di semplificazione dei partiti.
Di contro è la classe politica che ancora non dimostra di essersi perfettamente calata nella nuova dimensione del sistema maggioritario.
Qui il confronto è sicuramente più forte ed incisivo ma non deve mai arrivare a comportamenti esterni di delegittimazione dell'avversario cui spesso assistiamo.
Mentre gli elettori ci danno lezione, il mondo politico è un po' in affanno.
Probabilmente con questo sistema maggioritario il ruolo del Parlamento è un po' svuotato rispetto alla prima Repubblica dove il luogo centrale delle scelte erano le Camere.
Con la democrazia non maggioritaria ma parlamentare il Governo dipendeva molto dal Parlamento perché ne era l'espressione.

Oggi questo vincolo si è allentato, poiché è il Governo ad essere l'espressione della volontà popolare.
Il che comporta una posizione diversa rispetto al passato.
I ruoli si sono invertiti.
Su questo percorso la riforma del bicameralismo potrebbe risultare decisiva.
Un nuovo bicameralismo: non più perfetto, ma paritario.
Se alla Camera viene data l'ultima parola sulle leggi ordinarie, al Senato - luogo della rappresentanza delle Autonomie - potrebbe darsi l'ultima parola sulle questioni che toccano il rapporto tra centro e realtà locali, istituzioni europee e organismi territoriali: meccanismi di nomina delle autorità indipendenti, di controllo, di indirizzo, di impugnazione in sede comunitaria.

La Camera e il Senato potrebbero, per così dire, "specializzarsi", i problemi potrebbero essere affrontati non più solo in una logica di emergenza, in una logica del "dopo", ma nella prospettiva della prevenzione e della normalità.
Ritengo, allora che l'istituzione di una sola Camera politica possa riequilibrare questo rapporto dando nuova forza al Parlamento.
La riforma del bicameralismo con una sola camera politica potrebbe conferire ruolo e dignità più forte, quasi paritaria rispetto al Governo che è espressione degli elettori.

Ancora sul bicameralismo la cosiddetta bozza Violante, che nasceva in un momento particolare, può essere un punto di partenza, ma non una conclusione poco meditata.
Non facciamo apparire troppo facile un percorso riformatore che richiede invece anche approfondimento, confronto e soprattutto rispetto reciproco.
Un solo esempio: l'elezione diretta dei senatori è un passaggio chiave per non disperdere quel patrimonio irrinunciabile di un federalismo vero che crea unità e non fa della diversità un elemento di frattura.
Mi auguro che tutti insieme possiamo vivere questa legislatura come il tempo delle riforme e del rilancio del Paese.
Vi ringrazio