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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Quarantesimo anniversario della prima elezione dei Consigli regionali

Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori.

Le celebrazioni sono occasioni per voltarsi indietro e guardare ciò che è stato fatto, per meglio capire quello che, davanti a noi, resta ancora da fare. Ad osservare il percorso compiuto dalle Regioni e dal regionalismo italiano in questi quaranta anni, la sensazione d'insieme è quella di una storia dinamica e feconda, densa di eventi, di rinnovamenti, di maturazioni. Quaranta anni fa, il 7 giugno 1970, si svolgevano le prime elezioni nelle quindici Regioni a Statuto cosiddetto "ordinario". Nuove istituzioni rappresentative, dotate di poteri legislativi, si affiancavano al Parlamento nazionale ed alle Assemblee delle cinque Regioni a Statuto speciale che già governavano le proprie comunità in ragione, per una parte, della loro peculiarità di aree mistilingue di frontiera e, per l'altra parte, della loro spiccata identità di grandi isole del Mediterraneo.

Si completava - pur se a 22 anni di distanza dalla originaria previsione costituzionale - il disegno di articolazione territoriale della Repubblica tracciato dai padri costituenti, che innovava profondamente la struttura dell'Italia monarchica. Poiché lo Statuto Albertino poteva conoscere solo "le istituzioni comunali e provinciali", l'idea regionale sorse solo al momento della nascita del nuovo Stato unitario, con i progetti Farini-Minghetti del 1860-61. L'idea venne però respinta: la scelta di accentramento incise sulla costruzione della Nazione, facendo prevalere le ragioni dell'unità sulle prospettive dell'articolazione. Il pensiero politico, per un lungo periodo successivo, non sembrò voler rilanciare le potenzialità dell'idea regionalista, con poche autorevoli eccezioni, tra le quali non possono dimenticarsi le tenaci intuizioni di Don Luigi Sturzo. Ma fu solo successivamente, con la Carta costituzionale del 1948, che emerse l'esigenza di marcare un netto distacco dall'esperienza dello Stato autoritario e di esaltare correlativamente quelle autonomie territoriali che il fascismo aveva svilito.

Il progetto giunto all'esame dell'Assemblea era per l'epoca innovativo, tanto da potersi considerare addirittura anticipatore dei tempi. Ma le distinzioni che già si erano affacciate in sede di Commissione si ripresentarono nel dibattito generale, intrecciandosi con le vicende politiche che videro la fine della collaborazione governativa tra i partiti del CLN e la formazione del quarto governo De Gasperi: il nuovo testo, sul quale infine concordarono le forze politiche, riduceva la portata innovatrice della proposta della Commissione, bloccata da timori e perplessità. Ma era, forse, il migliore degli equilibri possibili. Ne erano prova già le parole con cui Meuccio Ruini consegnò all'Assemblea il testo della Costituzione che conteneva il primo riconoscimento dell'ordinamento regionale: "Molti sono i dubbi; e vi possono essere inconvenienti; ma non si può non andare incontro ad una irresistibile tendenza; vi sono riforme storiche che non si possono evitare; e si sono di fatto predisposti i nuovi istituti in modo che la prova concreta e l'adattamento della esperienza, consentirà di dare ad essi maggiore o minore ampiezza, salvaguardando in ogni caso la necessità suprema della unità ed indivisibilità della patria". La fase dell'attuazione costituzionale vide prevalere le ragioni della cautela rispetto a quelle della determinazione. E se anche la prima legislatura repubblicana vide, nel suo scorcio finale, l'approvazione della legge n. 62 del 1953, sulla costituzione degli organi regionali, un effettivo avvio dell'ordinamento regionale non giungeva che tre legislature dopo, con la stagione riformatrice inaugurata dal centro-sinistra.

La legge elettorale regionale n.108 del 1968 ebbe il consenso di un ampio arco di forze politiche che comprendeva quelle dell'opposizione di sinistra, ma fu osteggiata anche dall'aspro ostruzionismo parlamentare della destra missina e liberale. Il lungo percorso dell'attuazione regionale si intrecciò poi con le vicende di un'Italia la cui domanda sociale si faceva più complessa, tanto da coinvolgere sempre più profondamente l'articolazione territoriale, in cui si identificò una risorsa di modernità, anche a fronte alla debolezza di un quadro politico che, proprio nel 1970, l'anno delle prime elezioni regionali, espresse ben tre governi nazionali. La storia più recente delle Regioni è ancora cronaca. L'idea fondamentale dell'elezione diretta del governo di una comunità, introdotta a livello comunale nel 1993, propizia una nuova formula elettorale per le Regioni, legata al nome del compianto Giuseppe Tatarella, che sostanzialmente ancora garantisce governabilità, rappresentatività e alternanza. La fase "a Costituzione vigente", proseguita con le profonde riforme amministrative del 1997, ottiene infine veste costituzionale con le novelle al Titolo V del 1999 e del 2001, anche grazie alla sollecitazione costante di forze politiche, all'epoca di recente formazione, con decisa vocazione federalista. La riforma costituzionale fu per molti versi necessaria, per altri troppo audace e certamente incompleta. Ha tuttavia accelerato il processo di modernizzazione di questo Paese, che passa sì per la realizzazione di un'equa e convinta riforma del federalismo fiscale, ma anche per un riassetto conseguente delle Istituzioni.

Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori, l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario non è stato solo un atto dovuto. E' stata una provvida iniziativa che ha aumentato il tasso di democrazia nel nostro Paese, avvicinando l'esercizio di importanti funzioni di governo del territorio e di servizi alla persona al livello della comunità di riferimento. Oggi, per la stagione di riforme che è fondamentale completare, si dovrà far prevalere questa medesima ispirazione, volta ad aumentare il valore del voto, il ruolo dell'autonomia, il senso di responsabilità, rifuggendo - di converso - da ogni tentazione di delega in bianco, di scorciatoie, di meccanismi autoreferenziali. La rappresentanza deve essere affidata al popolo sovrano e, una volta affidata, deve essere tenuta in massimo conto. Il nuovo Senato che potrà nascere dalla riforma dovrà essere autorevole e rappresentativo. Non pavento - ho già avuto occasione di precisare questo punto - alcuna deminutio capitis. Stimo troppo la maturità delle forze politiche per non confidare che una migliore governabilità non sarà perseguita per via di una più ridotta rappresentatività. Non c'è contraddizione tra il diritto-dovere del Governo di svolgere fino in fondo il suo mandato, e l'esigenza di coniugare questa azione con l'articolazione del Paese, mettendo in condizioni il territorio di partecipare alle scelte nel modo più adeguato e nelle sedi più autorevoli. Non è nulla di nuovo, non è nulla di sorprendente: è la direzione verso cui si sono mossi i tre progetti di riforma costituzionale, definiti nel corso delle ultime tre legislature, da diverse maggioranze. E' semmai sorprendente che questo comune denominatore di consenso politico non si sia ancora potuto cogliere e valorizzare.

Dalla mera osservazione del dibattito politico-istituzionale dell'ultimo quindicennio emerge, infatti, come forze politiche, a tratti anche aspramente contrapposte, abbiano tuttavia condiviso nei fatti gli elementi qualificanti dell'assetto di un futuro sistema bicamerale. Si tratta di una ricchezza comune, il cui valore istituzionale non può essere trascurato. I risultati di questa riflessione sono ben noti, largamente apprezzati, del tutto attuali: una nuova e diversa collocazione di un Senato legato alle territorialità, attore specifico nel procedimento legislativo, con un numero di rappresentanti ridotto: questa non è solo una base di partenza, questo è un chiaro progetto politico-istituzionale che è stato condiviso dalle forze politiche per più di un decennio. Si può aggiungere che nei due progetti elaborati nel corso della XIII legislatura e XIV legislatura, quelli alla cui definizione ha concorso il Senato, appare chiaramente confermata l'opzione dell'elezione diretta dei senatori, che è quella che credo più idonea a conferire al Senato quella voce forte e chiara con la quale è necessario che parlino le autonomie territoriali. Perché spirito di ogni riforma istituzionale deve essere quello di ampliare, non di ridurre, il potere degli elettori. Se la duplice novella al titolo V della seconda parte della Costituzione non può essere completata se non portando con decisione le Regioni al punto più alto dell'architettura rappresentativa della Repubblica, nulla di meno può avvenire guardando al processo di adeguamento delle istituzioni al Trattato di Lisbona, che sollecita una partecipazione autorevole ed articolata dei Parlamenti nazionali alla definizione del quadro normativo europeo.

La Repubblica deve non solo saper rafforzare il proprio radicamento nel territorio, ma deve anche saper cogliere i frutti che potranno nascere dall'intreccio vitale delle esperienze nazionali, cresciuto alla luce del grande progetto europeista. Spetta agli Stati nazionali saper garantire la coesione del quadro complessivo delle istanze, nella consapevolezza che non c'è possibilità di crescita senza conservazione dell'equilibrio. Il senso unificatore di queste istanze, si coglie nel valore del principio di sussidiarietà, definito ad esito di una lunga riflessione culturale sul rapporto tra libertà e governo, resa viva prima dalla voce dalla Chiesa cattolica che rivendicava il ruolo insostituibile dei "corpi intermedi" tra Istituzioni e gli individui, poi dall'accelerazione del processo di costruzione Europea, da Maastricht in poi. Il meccanismo di controllo di sussidiarietà sancito dal Trattato di Lisbona è affidato non solo ai Parlamenti nazionali ma anche a "ciascuna camera" e valorizza l'idea che una "Camera delle Regioni" possa esprimere, nella costruzione della futura Europa, una specifica vocazione al raccordo interterritoriale. Questa è una moderna prospettiva di riforma del Senato, quale Camera "dell'Europa e delle Regioni" - o se si preferisce - quale "Camera della sussidiarietà": una proficua ed efficace sintesi delle ragioni dell'articolazione delle responsabilità, dell'unità nazionale e dell'azione di governo.

Al fondo resta la chiara consapevolezza che le nuove linee di sviluppo della rappresentanza - quella regionale e quella europea - abbisognano di un luogo di reale ed efficace dibattito e decisione. In questa prospettiva il bicameralismo è una autentica risorsa se inserito nella riforma costituzionale dei poteri, perché sintesi e raccordo tra Europa e Regioni, tra sussidiarietà e solidarietà. Il nuovo costituzionalismo che prassi e consuetudini già in parte stanno delineando è chiamato ad interrogarsi in modo serio se la centralità del Parlamento - valore irrinunciabile - sia solo sinonimo di un Parlamento-legislatore ovvero acquisti una nuova autorevolezza anche come Parlamento-controllore, sia dell'azione dei pubblici poteri, sia dell'attività, normativa e prospettiva dei poteri cosiddetti tecnici, quali le autorità indipendenti. Oggi come allora, senza la viva memoria della tradizione e della storia che hanno reso possibile la democrazia nel nostro Paese, non c'è vero riformismo. Per la stabilità e la coesione duratura delle istituzioni e dell'intera comunità nazionale serve riconoscerci reciprocamente e progettare insieme, coraggiosamente e generosamente, il futuro di tutti noi.